giovedì 27 settembre 2018

Il paziente

(racconto ispirato alla Sfida numero 6. Questa volta ho giocato sull'ambiguità della prima frase, e per farlo ho recuperato i personaggi del brano ispirato alla parola Ottundere.)
 
 
Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
 
 
– ...lo abbiamo perduto. – Passando nel corridoio del pronto soccorso sento Colette mormorare alla caposala queste poche parole, e già mi cedono le ginocchia. Perché penso al peggio, mi dico, forse non sta parlando di lui, forse non parla dell'uomo che ho soccorso. Ma Colette mi toglie ogni dubbio nel riferire in tono rammaricato: – Mi dispiace, abbiamo fatto tutto il possibile, ma... non c'è più niente da fare. Lo sconosciuto se n'è andato.
Mi appoggio alla parete, e stringo forte la boccetta con le pillole che ho preso nel suo scantinato. Perché la notizia mi ha colpito così tanto non lo so, lui non è il primo paziente che vedo morire durante un mio turno, anzi, nel suo caso, non l'ho nemmeno visto. Io non c'ero. Sì, forse è proprio questo che mi sconvolge tanto: io non c'ero. Sono stata la prima a soccorrerlo dopo l'incidente, gli ho tenuto la mano in attesa dell'arrivo dell'ambulanza, ho ascoltato i suoi deliri, e ho accettato per calmarlo di andare a prendergli quella che lui chiamava "la sua medicina", a casa sua, di cui mi aveva fornito l'indirizzo e la chiave. Pensavo di trovarci droga. E invece ho scoperto il suo laboratorio segreto nello scantinato, e ho letto il suo diario, quello in cui, come un novello Dottor Jekyll, lo sconosciuto aveva annotato i risultati dei suoi esperimenti.
E dopo averlo letto, un po' mi è sembrato di conoscerlo.
– Quando... quando è successo? – chiedo a Colette. Non posso aver tardato tanto mentre cercavo questa stupida medicina.
– Mezzora fa. Lo abbiamo lasciato da solo per cinque minuti nella 4B...
– Da solo? – sbotto. Colette e la caposala esitano.
Alla fine è la caposala a parlare: – Cerca di capire. Ho visto tanta gente strana da queste parti, ma una cosa del genere, mai.
Si riferiva al colore del sangue dello sconosciuto, un fluido verdastro, tanto scuro da sembrare nero. Avevo sentito le persone che si erano radunate dopo l'incidente mormorare che lo sconosciuto doveva essere un alieno, o un mostro, ma io sapevo che non poteva essere così, e dal suo diario avevo avuto la conferma che la causa era il dosaggio troppo elevato di un particolare farmaco nella sua medicina.
– Dio santo, non vi facevo così superstiziose!
– Non pensavamo che qualcuno nelle sue condizioni potesse...
La voce di Colette le muore in gola mentre mi faccio forza e mi allontano da lei. Non era un codice rosso, non era così grave, com'è potuto succedere? Avanzo decisa verso la stanza 4B come se non sapessi che la troverò vuota. Vado a portargli la medicina, a esaudire il suo ultimo desiderio. Troppo tardi.
Dalla soglia vedo la barella macchiata del suo sangue inconfondibile. Lui non c'è. Ovvio, lo hanno già portato via, mi dico, all'obitorio, sepolto sotto terra come il suo scantinato buio e inquietante.
Mi appoggio allo stipite.
Dietro di me mi raggiunge Colette, ansante. – Ho cercato di dirtelo, non è qui. – Si appoggia allo stipite opposto, a riprendere fiato. Sembra che le venga da ridere, e io non capisco.
– Lo sconosciuto se n'è andato – prosegue Colette, e man mano che parla, io comincio a intuire che cosa intende spiegarmi. – Lo abbiamo cercato dappertutto. Ma non si trova. Non so proprio come ha fatto a passare inosservato, eppure... nessuno lo ha visto.
Sto ormai ridendo dal sollievo, quando Colette conclude, scuotendo la testa: – Lo sai che non sono tipo da arrendermi, ma ormai è così. Lo devo ammettere. Lo abbiamo perduto.

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