giovedì 30 giugno 2022

La Speranza è l'ultima a partire


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L'avevano chiamata Speranza. Che razza di nome.
Speranza.
Fin da quando era giovanissima, la gente aveva sempre nutrito fin troppe aspettative per tutto ciò che la riguardava. Impossibile, anche per lei che di sguardi non ne capiva niente, non notare le occhiate che la gente le rivolgeva non appena la vedevano passare. C'era chi tendeva le mani, chi bisbigliava preghiere alle sue spalle, chi le chiedeva di fermarsi e di lasciarlo entrare nel suo cuore, anche solo per un istante, per scaldarsi un po'. Perché il mondo è un posto freddo e ingrato, pronto ad annegarti nei suoi flutti gelidi e a seppellirti sotto una coltre di neve. Ma non là dov'era Speranza.
Erano pochi i fuochi presso cui scaldarsi, ma Speranza tra tutte era la fiamma più grande. E non si trattava solo di un simbolo, lei lo era davvero.
Se avesse potuto, Speranza avrebbe accolto tutti, ma il suo cuore non era abbastanza grande per contenere il mondo. Per questo, le avevano detto che doveva essere selettiva. Ma chi salvare e chi ignorare non era mai stata una sua scelta.
Noi ne avevamo sentito parlare per la prima volta tra i fuochi delle scogliere occidentali, in una giornata particolarmente fredda e ventosa. Le onde flagellavano la costa sospinte dal fischio del vento di tramontana, e i frammenti di pack galleggiante sbattevano tra loro, frantumandosi in pezzi ancora più piccoli con un cigolio sinistro. Attorno ai fuochi si parlava di lei, ma non come di una cosa realmente esistente, più come una leggenda. E noi ascoltavamo quelle storie meravigliati, senza crederci fino in fondo, finché un uomo coperto da capo a piedi, con solo una sottile fessura tra gli indumenti per gli occhi azzurri come il ghiaccio, non levò in aria una mano e disse: – Io l'ho vista, una volta. Sulla costa del nord, a tre leghe da qui. È da lì che parte, come le altre, al tramonto del giorno più lungo. Lei è l'ultima a partire. – Si girò verso di noi e aggiunse: – Se vi sbrigate, potete ancora farcela.
Molti, attorno ai fuochi, scossero la testa e brontolarono. Non gli credevano. Non era prudente correre dietro alle leggende quando avevi in mano un cerino per scaldarti.
Anche nel nostro gruppo ci fu qualche discussione, ma alla fine chi voleva partire l'ebbe vinta. Seguire la costa con il mare infuriato com'era quel giorno si rivelò un'idea niente affatto brillante. Ci trascinavamo sulla neve compatta come ghiaccio, stringendoci addosso giacche e mantelli e allungando di tanto in tanto una mano per sorreggere chi stava per scivolare. Io non mi sentivo più i piedi e camminavo per inerzia, avevo le dita rigide per il gelo e il naso, pur coperto da più giri di sciarpa assieme alla bocca, pizzicava e mi faceva male.
Non voglio ricordare quanto patimmo per quel viaggio. Non tutti giungemmo alla meta. E non tutti interi.
Io trascinai la mia migliore amica per diverso tempo, prima di rinunciare e ammettere che era già troppo fredda per riprendere il calore perduto, anche davanti al più grande dei fuochi.
Dovevamo misurarle così le nostre forze, in calore. I morti non ne hanno. Inutile perdere il nostro per loro.
Come ho detto, il mondo è ingrato, e glaciale.
Ci scaldava il pensiero che avevamo Speranza davanti a noi, lei e le sue compagne. Loro ci avrebbero accolto, forse ci avrebbero portato in un mondo diverso, se tale mondo esisteva: un luogo dove non ululava il vento, dove non piovevano stilettate di gelo, dove una crepa non poteva tradirti e farti affondare in una tomba di ghiaccio. E se un tale mondo non esisteva, era già sufficiente abitare nel cuore di Speranza per essere salvi.
Lei era sulla costa. Esisteva davvero. La vedemmo da lontano, immensa, lucente nel bagliore del tramonto, nonostante la ruggine sul suo ventre di metallo. Tutte le altre erano già andate, ma Speranza era ancora là. L'uomo dagli occhi di ghiaccio aveva detto il vero: Speranza era l'ultima a partire.
Ci mettemmo a correre, o forse sarebbe più corretto dire arrancare sulla scogliera, con le ultime forze che ci rimanevano. Ci eravamo spinti troppo oltre in quel viaggio e non potevamo tornare indietro, potevamo solo andare avanti.
– Speranza, salvaci! – avremmo gridato, se le nostre gole bruciate dal freddo ce lo avessero permesso. Ma tanto lei non ci avrebbe uditi.
Quando arrivammo al termine della scogliera flagellata dalle onde, ci gettammo in ginocchio, ma non per pregarla. Le ultime luci del tramonto si erano ormai spente, e la sagoma della nave rompighiaccio illuminata dalle lanterne di bordo era lontana da noi, tra i flutti.

lunedì 27 giugno 2022

Shoddie l'inventore


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Shoddicus Tempercod Steamwhistle era considerato di gran lunga il miglior inventore, ingegnere e costruttore di tutta la Terra del Vapore, regioni selvagge comprese. Non chiedetemi perché servisse specificarlo, dal momento che le regioni selvagge avevano perlopiù inventori e costruttori mediocri, oltre a un'assurda preferenza per il legno al posto del nobile e duraturo metallo, ma ecco, mi sembrava poco cortese escluderle.
Come dicevo, mister Shoddicus Tempercod Steamwhistle, Shoddie per gli amici, era il responsabile di tutta una serie di innovazioni e miglioramenti che nel corso della sua vita avevano rivoluzionato le esistenze dei tranquilli cittadini della capitale prima, e di tutta Terra del Vapore poi.
Erano frutto del suo ingegno e delle sue mani, ad esempio, migliorie invisibili ma con notevoli effetti sulla vita dei cittadini, come il nuovo tipo di albero di trasmissione per il motore dei treni, che ne aveva aumentato l'efficienza e di conseguenza la velocità di quel mezzo di trasporto, così come opere monumentali difficili da ignorare, come l'incredibile Torre Orologio le cui stanze si spostavano automaticamente allo scoccare delle ore. La sua Spider Mobile aveva quasi del tutto soppiantato la vecchia Crab Mobile, capace dei soli movimenti laterali, grazie alla maggiore fluidità e flessibilità delle zampe robotiche, oltre alla perfezionata stabilità dell'abitacolo che aveva ridotto del 97% le nausee da movimento delle signore e dei deboli di stomaco. Il segreto di Shoddie era nel giroscopio, questo era risaputo, ma pochi costruttori erano in grado di replicarne uno dei suoi con precisione. Shoddie era anche la mente e il fautore di un intero nuovo sistema di consegna messaggi tramite piccioni meccanici, che avevano fatto risparmiare alle ditte specializzate tanto denaro solitamente speso in mangimi e tempo nell'addestramento dei pennuti, e non erano in pochi quelli che ritenevano che i piccioni meccanici fossero anche molto più carini della loro controparte aviaria. Come inventore, poi, non aveva trascurato né ritenuto indegno del suo genio il settore dell'intrattenimento: era stato lui a fornire a ogni teatro che ne facesse richiesta un esemplare di orchestra meccanica sincronizzata, l'evoluzione estrema del semplice carillon o dell'organo meccanico. Collegare due o tre strumenti che suonassero all'unisono, mossi da un meccanismo interno o da un automa esterno, era alla portata della maggior parte dei costruttori competenti. Ma sincronizzarne alla perfezione ben sessantaquattro, e farli partire nello stesso istante caricando una singola manovella, quella era un'impresa considerata impossibile prima che Shoddie dimostrasse il contrario. A chiederlo a lui, però, a dispetto di tutte le sue creazioni successive, il suo capolavoro restava la sua prima invenzione, l'orologio ad acqua posizionato nella Piazza Centrale, magnifico da osservare in azione con tutti gli ingranaggi e i sifoni a vista, e talmente preciso che tutti, persino i manutentori della torre dell'orologio comunale, regolavano i propri segnatempo su quello da lui costruito.
Shoddicus Tempercod Steamwhistle era anche l'uomo a cui si rivolgevano le autorità cittadine in caso di malfunzionamenti al sistema meccanico nel sottosuolo della capitale, causati la maggior parte delle volte da un'infiltrazione di gremlin nel Grande Ingranaggio Generale, o che veniva chiamato dalle compagnie di trasporto aereo per scovare e risolvere la fonte di avarie, sempre colpa dei gremlin, nei loro preziosi dirigibili. Ed era appunto al tentativo di debellare i gremlin, prima che causassero effettivamente danni, che si stava dedicando Shoddie in quella che veniva definita la terza età della sua esistenza. Secondo alcuni era soltanto una conseguenza naturale che il geniale inventore, ingegnere e costruttore, sentendo approssimarsi lo scoccare del suo ultimo rintocco, nutrisse il desiderio di preservare ciò che aveva creato anche quando lui non sarebbe stato più in circolazione per ripararlo. Secondo altri, invece, la sua lotta all'ultimo quartiere contro i gremlin si era tramutata in una folle ossessione, che lo induceva a imprecare e lanciare i suoi attrezzi in giro per l'officina in violente fitte di rabbia a ogni fallimento.
Ad entrare nella sua officina in uno dei giorni buoni, non lo si sarebbe detto impazzito. Il familiare odore del metallo pervadeva l'aria illuminata da lanterne e da grandi finestre dalle cornici d'ottone istoriato. Allineati sulla parete opposta, ticchettavano in perfetto sincrono il prototipo del suo orologio ad acqua e almeno una dozzina d'altri modelli che Shoddie aveva costruito, per privati o istituzioni, nel corso della sua vita. Accanto ai banchi da lavoro, un motore era collegato tramite una cinghia agli scaffali mobili, che ruotavano al semplice azionamento di una leva fino a presentare all'inventore la serie di attrezzi più adatti al lavoro che aveva in corso. Dal tintinnare delle ruote metalliche sistemate al loro posto, dagli scatti delle molle caricate, dal trambusto delle mani che rovistavano nelle scatole dei ricambi e dal rullare della chiave inglese che stringeva un bullone era possibile indovinare quel che stava accadendo oltre le sue spalle curve, e non era raro che Shoddie approfittasse di un visitatore per farsi passare un martello o un cacciavite, salvo poi lamentarsi se gli veniva porto un cacciavite a taglio al posto di uno a stella, o se l'attrezzo non era della misura giusta per avvitare un bruscolino di vite quasi invisibile per chiunque non indossasse un paio di occhiali da ingrandimento.
I giorni cattivi, invece, erano quelli in cui le guardie cittadine gli portavano una delle sue ultime invenzioni teoricamente a prova di gremlin, la cui armatura a protezione del motore non aveva resistito agli artigli di quelle creature, o il cui sistema difensivo automatico non era bastato per allontanarli, anzi, era stato messo fuori uso, smontato, e privato di parti fondamentali degli ingranaggi. Allora Shoddicus Tempercod Steamwhistle si metteva a piangere e a urlare, a maledire la piaga rappresentata da quelle bestie inutili e dannose e a singhiozzare biascicando che non ce la faceva più, che si arrendeva, che rinunciava a realizzare quella che davvero era un'impresa impossibile per un essere umano.
Sedeva poi così Shoddie, a testa china e depresso nella sua officina, rifiutando di toccare cibo o di parlare a chiunque andasse a confortarlo, e si addormentava accasciato sul bancone.
In quelle brevi pause in cui lasciava al suo acerrimo nemico la vittoria nella contesa, in cui davvero sembrava ogni volta darsi definitivamente per vinto e aspettare inerme la fine, era impossibile negare quanto profonda fosse la sua ossessione. Ma, alla fine, giungeva sempre una nuova idea che lo rimetteva all'opera, alacre ed entusiasta, e Shoddie pareva ringiovanire di colpo di vent'anni.
Il ciclo si ripeté identico come i giri delle lancette di un orologio, finché all'officina di Shoddie non giunse notizia di una giovinetta umana avvistata in compagnia dei gremlin, non rapita da loro ma volontariamente al loro fianco, che era stata udita comunicare con quegli esseri per mezzo dei loro stessi versi bestiali, e in almeno un paio di occasioni esprimersi, sebbene in modo elementare e storpiato, nella lingua corrente. In tanti si meravigliarono di quella innaturale convivenza, molti non credettero alle voci sempre più bizzarre che si diffondevano di bocca in bocca, mentre altri si spiegarono il fenomeno considerando che una bambina fosse stata rapita in tenera età e cresciuta selvatica con quella creature, anche se pareva impossibile che non l'avessero già da tempo mangiata o fatta a pezzi con i loro artigli così come facevano con i delicati meccanismi delle invenzioni umane.
Shoddie, invece, intravide l'occasione di catturare qualcuno che potesse finalmente rivelargli il punto debole della sua nemesi, e così ideare una trappola efficace per la fanciulla dei gremlin divenne la sua nuova ossessione.

sabato 25 giugno 2022

Interloquire

Interloquire [in-ter-lo-quì-re] v.intr. (aus. avere; interloquisco, interloquisci ecc.) [sogg-v] Intervenire in un discorso; intromettersi in una discussione.

Etimologia: derivato dal latino interloqui, "parlare tra mezzo, interrompere un discorso", composto da inter, "fra" e loqui, "parlare".



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La cameriera venne da noi alle mie spalle e probabilmente disse qualcosa, ma io non la sentii. Mi accorsi solo di Karin che alzò gli occhi e annuì, poi seguii le parole sulle sue labbra mentre mi ripeteva la domanda.
Non eravamo nel solito locale, l'unico che frequentavo dall'incidente. Là le cameriere mi conoscevano e sapevano come approcciarsi a me senza mettermi a disagio. Ma Karin aveva voluto portarmi a festeggiare in uno di quei ristoranti alla moda con l'anticipo del suo contratto, perché sosteneva che se lo aveva firmato era anche merito mio. Secondo me si sbagliava. Io le avevo solo fornito le note, lei ci aveva messo l'anima.
Dopo il momento di imbarazzo, il mio umore si era fatto cupo, e lei se ne accorse.
"Che cosa succede?" formularono le sue labbra, mute alle mie inutili orecchie.
– Niente. È solo che... – m'interruppi, mi guardai alle spalle, ma non c'era nessuno. Quando succedeva una volta, avevo sempre l'impressione che potesse giungere qualcun altro a interloquire senza che io lo sapessi. Senza che mi rendessi conto di un'altra voce sovrapposta alla mia. – Non posso mettermi un cartello addosso. A volte vorrei che si vedesse, vorrei non doverlo dire a chiunque mi avvicina per parlarmi, e sopportare quello sguardo, dopo.
"Ho un'idea." Le sue labbra si piegarono in un sorriso giocoso, ma per quanto insistetti, non riuscii a farle rivelare quella che lei definì una sorpresa.
Qualche giorno dopo Karin mi raggiunse al solito locale, e dato che stavo parlando con uno dei soliti avventori, che voleva rendere ancora più spettacolare il mio numero da fenomeno da baraccone, girò attorno al tavolo in modo che potessi vederla prima di intromettersi nel discorso.
"Io la trovo un'idea fantastica" interloquì Karin, poi trasse di tasca un paio di auricolari col filo. "Ma ne ho una ancora più bella per il tuo tempo libero."
Non era un cartello, ma aveva comunque trovato il modo di rendere visibile, e privo di qualunque imbarazzo, il mio mondo fatto di silenzio.

giovedì 23 giugno 2022

Tutto ciò che abbiamo


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Foto di Helena Lopes da Pexels


La notte era spaventosa. Lo era davvero, perché ormai sapevamo che era di notte che i mostri sciamavano fuori dalle loro tane. Demoni.
Se la luce del sole era la nostra alleata, l'oscurità era la loro. Potevamo mettere quante vedette volevamo attorno al campo, ma non sarebbero bastate, non lì nella vasta pianura.
Il gorgoglio del ruscello copriva il lieve battito delle loro ali telate nella notte, così come il tonfo dei loro passi, e sobbalzavamo a ogni bramito di cervo in lontananza, ma era fondamentale la protezione dell'acqua per celare il pianto dei bambini, i singhiozzi disperati delle donne e dei vecchi, i sussurri di chi riusciva a scambiarsi qualche parola. E per poter rapidamente spegnere le fiamme del nostro basso fuoco da campo, protetto da un muro di scudi tutto attorno che gli impediva di spandere troppa luce, in caso si fosse reso necessario diventare invisibili.
Non avevamo più solide mura a proteggerci, la meravigliosa città di ricordi e di torri splendenti come cristalli. Il cristallo era spezzato, la dinastia dei sovrani di Laeverth, la cui esistenza secondo la leggenda avrebbe preservato per sempre intatta la nostra città, si era ormai spenta con la morte delle sue ultime discendenti, regina e principessa. Non lo sapevamo, eppure ne avevamo avuto la certezza quando, nel volgerci indietro durante la nostra precipitosa fuga, avevamo scorto le mura crollare e i demoni invadere una città ormai deserta. Tale era stato l'ultimo atto da regina di Sara di Laeverth, mettere in salvo la sua gente, prima di cedere il suo dominio e la sua vita in cambio di quella di sua figlia. Potevamo solo immaginare che i demoni, da creature infide e malvagie quali sono, non avessero rispettato la loro parte dell'accordo.
E così eravamo lì, all'aperto, non davvero in salvo, a percorrere la pianura durante il giorno in una lunga marcia, e a lamentare tutto ciò che avevamo perduto durante le terribili notti.
– Vorrei tanto rivedere un'ultima volta la mia casa, il mio letto confortevole – bisbigliava una vecchia. – Sarei dovuta morire in quel letto. Non qui, lontana da casa mia.
– Ho lasciato la mia armatura a Laeverth – sussurrò un cavaliere di vedetta. – E il mio adorato destriero, ormai so che non lo cavalcherò mai più. Quelle bestie lo faranno a pezzi, se già non l'hanno fatto.
– Mio marito, ci siamo separati mentre fuggivamo attraverso i tunnel – singhiozzava una donna. – E i nostri figli sono con lui.
– Ah – sospirava un'altra, stringendo a sé il pargolo. – Avevo una cesta di pane appena sfornato dalla mia bottega, ma era troppo pesante, o portavo la cesta, o il mio bambino in braccio. L'avessi data a uno di quei brav'uomini, avremmo avuto del pane fragrante con cui sfamarci nei primi giorni della nostra fuga, e non saremmo così affamati, adesso. Sembra passato così tanto, che ora stento perfino a ricordarne il profumo.
Riposavamo, di notte, ma non dormivamo, nessuno di noi ci riusciva. Restavamo svegli ad ascoltare ogni fruscio del vento tra l'erba, ogni mugghiare di creatura selvatica e ogni ululato di lupo. Restavamo in ascolto del benedetto canto dell'allodola che annunciava l'alba, e al sorgere del sole potevamo finalmente concederci qualche ora di sonno prima di rimetterci in marcia.
Il chiarore dell'alba era per me la luce della speranza, perché era trascorsa un'altra notte senza che il nostro mortale nemico ci scoprisse. Non avevamo più una patria, né una casa, né una regina a guidarci. Per questo spettava a qualcuno di noi il compito di mantenerci uniti e condurci lungo la via che portava lontano dalla nostra amata città, alla ricerca di ospitalità tra altre mura che ci avrebbero offerto una sicurezza che nemmeno ricordavamo di avere mai avuto. Per questo, dopo una notte passata a lamentare tutto ciò che avevamo perduto, occorreva che qualcuno onorasse con la sua voce quel che ci rimaneva. La cosa più importante del mondo.
– Ascoltate. Abbiamo ancora le nostre vite, e siamo assieme. So che non è molto, ma se questo è tutto ciò che abbiamo, per oggi dobbiamo esserne grati, e rallegrarci. Abbiamo tutto ciò che ci serve.
Solo dopo aver ricordato loro ciò che non era perduto, potevo concedermi di cedere al sonno per qualche ora prima di riprendere la lunga marcia.

lunedì 20 giugno 2022

Gli eroi non si arrendono


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Gli eroi non si arrendono.
È una frase assai beffarda quella che mi riempie la mente negli ultimi istanti di consapevolezza. Vorrebbe spronarmi a combattere, ma io so di non poterlo fare. Ho smesso di lottare e di dibattermi, e le ultime ore di questa notte sembrano ormai un ricordo lontano. L'abbraccio dell'acqua è gelido e costoso quanto quello di una puttana, ma non mi importa. Qui c'è pace. Qui posso riposare.
Il gorgoglio nelle mie orecchie sovrasta le urla, il clangore delle armi, il ruggito bestiale dei mostri, lo squillo vibrante dei corni grazie ai quali le squadre che hanno invaso le gallerie sotto al monte comunicano e si coordinano.
Riderei, se potessi. La nostra non è stata la marcia compatta e organizzata di un esercito. Noi siamo Kalaan, non soldatini. Noi siamo reietti, truffatori, tagliagole, ladri. Gli ultimi da cui ci si sarebbe potuti aspettare un'impresa del genere.
Uccidere gli dei.
Suona grandioso, sulla carta. Kal Tydas e quel suo amico del sud, Maiz o qualcosa del genere, avevano fatto del loro meglio per infervorare e allettare la folla. Promesse di ricchezze, impunità per il resto della vita, e la possibilità di sfogare a piacimento gli impulsi più sanguinosi contro ogni mostro che fossero riusciti a scovare avevano convinto i più avidi e i più violenti tra la nostra gente. Qualcuno tra i più furbi si era unito alla causa con l'intenzione di restare nelle retrovie, combattere il meno possibile, e uscirne vittorioso, vivo, e con un premio di cui godere. Nessuno lo aveva fatto perché era la cosa giusta da fare. Nemmeno Kal: lui si è lanciato nella mischia per cercare la morte. Come si cambia, quando una donna che è già condannata balla per te ubriaca su un tavolo.
Io non sono un brav'uomo. Non ho mai avuto difficoltà ad ammetterlo. Sono un opportunista, e quando quelle creature sono sciamate nelle nostre terre, sono stato tra i primi a piegarmi a loro, a proclamarmi loro sacerdote. Volevano sacrifici di giovani donne per lasciarci in pace, ebbene, da me li avrebbero avuti. Facile quando tua moglie è morta e hai solo figli maschi.
Perciò, quando Kal Tydas ci ha spiegato che cos'erano in realtà, e che cosa facevano alle vittime sacrificali, io sapevo di avere molto da espiare. Non ci ho pensato un attimo. Mi sono unito a loro.
Avevo pugnalato molte vittime sugli altari ai falsi dei, ma è diverso quando il sangue versato te lo devi guadagnare. È più reale.
La fatica è reale, il lezzo che ti imbratta è reale, il peso dei loro corpi che ti cadono addosso è reale. Ed era reale anche quello che Kal ci aveva raccontato, che i mostri che stavamo combattendo erano le nostre donne. Gusci vuoti trasfigurati in incubi e riempiti della volontà di un essere oltre ogni immaginazione. Non si può più dubitare una volta che la loro morte ti rivela la verità.
A ogni diramazione della galleria, il mio gruppo si assottigliava. Ci dividevamo senza chiederci chi tra noi sarebbero stati i fortunati, chi avremmo rivisto e chi stava sparendo per sempre. Dovevamo solo trovare l'essere che aveva dato avvio a tutto questo, ucciderlo, e tutto sarebbe finito. Facile.
L'acqua adesso lenisce il dolore, ottunde i miei sensi e diluisce l'odore di bruciato che ha colpito le mie carni con uno sfrigolio, quando il mostro che stavo affrontando ha evocato il potere del fulmine. Kal mi aveva avvertito, mi aveva detto che combattono non soltanto con la loro forza, ma anche con quella della natura. Sono stati loro a inondare la galleria, spazzando via in un colpo solo il manipolo di delinquenti che mi aveva seguito. Gente che conoscevo, brave persone, a modo loro.
Dovrei continuare anche per loro. Forse. Ancora quella frase, ancora quel pensiero. Gli eroi non si arrendono.
Io non combatto più. Ho fatto la mia parte, posso riposare. Mi lascio andare, abbandono l'ultimo respiro e l'acqua mi riempie i polmoni.
Per mia fortuna, io non sono un eroe.

sabato 18 giugno 2022

Lutulento

Lutulento [lu-tu-lèn-to] agg. 1. lett. Pieno di fango. 2. fig. Moralmente sozzo, immondo; privo di fluidità, impacciato.

Etimologia: dal latino lutulentus, derivato da lutum, "fango, loto", con la terminazione ulentus, indicante "abbondanza".



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Maximilian Secundus Astoren arricciò le labbra nel volgere un'occhiata di sdegno alle creature che si dibattevano nella pozza lutulenta. Distingueva a stento le forme che sguazzavano con risucchi immondi nella melma. Uno dei due doveva essere un tozzo e butterato coccodrillo di palude, a giudicare dalle lunghe fauci irte di zanne che ogni tanto si aprivano al di sopra del marasma di fango in cerca di carne da azzannare. L'altro lo si sarebbe potuto scambiare per un uomo, se Maximilian non avesse giudicato troppo lutulento perfino per i rozzi barbari orientali l'atto di condannare un pover'uomo a una morte così atroce, foss'anche stato il più miserabile dei vagabondi o il più scellerato avanzo di galera. Ma nessun uomo sarebbe stato altrettanto veloce e a suo agio nella fanghiglia quanto l'essere che ci nuotava dentro, si immergeva, riemergeva, e agguantava il coccodrillo balzandogli sulla schiena. Gli arti contorti scivolavano perdendo la presa, ma intanto gli artigli graffiavano la pelle coriacea del coccodrillo e ne spezzavano le squame.
Un mutaforma, senza dubbio. Una delle preziose risorse di quella regione selvaggia, la cui esportazione aveva arricchito le famiglie prive di nome e genealogia che la abitavano.
Attorno alla pozza gli uomini vociavano e scommettevano. Il suo futuro suocero gli domandò se desiderasse puntare su uno dei contendenti, ma Maximilian rifiutò. Non intendeva gettare nel fango appiccicoso il poco che gli restava.
Era questo ciò che passava per divertimento, tra quella gente incivile? Non appena lo aveva visto, Maximilian era stato sul punto di rinunciare al suo piano. Finché il mercante di spezie e veleni con cui intendeva imparentarsi non gli aveva di colpo ricordato, tramite la proposta di una scommessa, quanti debiti avesse ereditato assieme al cognome e alla nobiltà della sua famiglia. Ma questo, né il mercante né la figlia lo dovevano sapere.
– Scommettere? – soggiunse Maximilian, simulando un piacere che non provava. – Perché no?

giovedì 16 giugno 2022

Triangoli


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Foto di Thijs van der Weide da Pexels


Triskel congiunse gli indici e i pollici di entrambe le mani a formare un triangolo vuoto tra le sue dita. Si concentrò intensamente sulla buca che Rasgan aveva scavato nel terreno gelido, poi soffiò tra le dita le sue parole di potere.
Un bagliore di triangoli lucenti sprizzò dalla buca, e si sollevò crepitando e rilasciando minuscole scintille triangolari nell'oscurità percorsa da un vento ghiacciato. Non era fuoco, il calore che offriva era illusorio, e la luce fioca; ma era già qualcosa. Rasgan tese le mani alle fiamme di triangoli turbinanti.
Non poteva dire di conoscere Triskel da una vita, ma perlomeno, Rasgan lo conosceva da abbastanza da non perdere più tempo in domande futili come "perché proprio i triangoli?", o "quando ti farai passare questa ossessione?". Lo conosceva da abbastanza tempo da sapere a memoria i detti che Triskel ripeteva più spesso, tipo "del triangolo non si butta via niente", "un triangolo è per sempre", o "qualsiasi cosa in natura è formata da triangoli". Se mai qualcuno li avesse trovati lì dov'erano, se li avesse raggiunti in quella landa fredda e desolata, avrebbe potuto considerare bizzarra la veste del mago con le sue figure a tre punte intrecciate in ogni centimetro di tessuto, o il pendente che non toglieva mai, una scaglia lucente con una delle tre punte rivolta verso il basso e le formule magiche inscritte sulla sua superficie, o il suo volto segnato da linee tatuate che formavano la sua figura geometrica prediletta. Per Rasgan, quei dettagli non suscitavano più alcuna meraviglia.
Come ogni volta, quando si fermavano a riprendere fiato, Triskel raccoglieva bastoncini e sterpaglie irrigidite dal gelo. Il surrogato magico del fuoco la cui luce li confortava non aveva bisogno di essere alimentato, Rasgan lo sapeva poiché era stato Triskel a informarlo, la prima volta. Il mago li spezzava fino ad avere tra le mani segmenti della stessa lunghezza, quindi li disponeva sul terreno. Sei triangoli uniti a un vertice e ai due lati formavano un esagono, che a sua volta si espandeva con l'aggiunta di altri triangoli in un complesso e caleidoscopico frattale. Rasgan lo lasciava fare, lui lucidava la spada, controllava l'impennaggio delle frecce e la corda dell'arco, anche se raramente li usava, se non per inchiodare a terra un coniglio rachitico o una pernice tutta piume e ossa, animali affamati quanto loro.
Quella volta, Triskel piantò quattro bastoncini nel terreno e adagiò una contro l'altra le punte sollevate.
– Una piramide – considerò Rasgan, sbirciando oltre le scintille triangolari del fuoco che si elevavano in un cielo buio. – La base però è formata da un quadrato, non da un triangolo.
Pensava di prenderlo in castagna, e invece il mago gli rivolse un sorriso a cui mancava qualche dente, e replicò: – Oh, ti sbagli, amico mio. Te l'ho detto. Tutto è formato dai triangoli.
Triskel afferrò un altro bastoncino e lo dispose in diagonale sul quadrato alla base della piramide, tagliandola in due triangoli rettangoli.
– Non le persone – insistette Rasgan in tono divertito. Avevano già affrontato l'argomento, era più che altro un modo per non sentire in continuazione soltanto il crepitio di quel falso fuoco e l'ululato del vento. Al riparo di una cresta di roccia e ghiaccio, il freddo non era così intenso, ma quel suono costante gli dava sui nervi.
– Anche le persone, sì. Anche le persone – lo contraddisse il mago. Allungò un indice adunco verso la mano di Rasgan, che si era tolto un guanto per poter raddrizzare la penna rovinata di una freccia. – Se potessi ingrandire la tua pelle migliaia e migliaia di volte, sai che cosa vedresti?
– Triangoli? – azzardò Rasgan, nello strofinarsi la mano intirizzita. Anche senza conoscere la risposta, non sarebbe stato poi così difficile indovinare che cosa avrebbe detto il mago, in fondo.
– Esatto! Miliardi di minuscoli triangoli. Ecco di che cos'è fatta la tua pelle, e la mia. Qualsiasi cosa in natura è fatta di triangoli. Nomina qualcosa, quello che vuoi, e te lo dimostrerò.
Rasgan distolse gli occhi dal mago e scorse con lo sguardo la tundra gelata. Ovunque, fin dove la luce del loro fuoco che non era davvero un fuoco si spingeva a sollevare la coltre di tenebre di un cielo senza stelle, era la desolazione, e il nulla. Quella che li circondava era stata un tempo la regione tropicale del loro mondo, una vallata ricca di vita, di calore, di voci. C'era stato un tempo in cui era esistito il giorno, il sole, il fuoco. Sua madre glielo aveva raccontato quando era bambino, ma lui non ne aveva che un vago ricordo.
Ormai era soltanto l'eterna notte, il freddo, la fame e la solitudine. Da quando la Dama del Fuoco aveva abbandonato il loro mondo morente, non era stato più possibile accendere nemmeno una fiammella, e tutto quello che avevano per rimandare l'inevitabile era quell'impossibile fuoco magico fatto di bagliori cristallini, triangolari, che si agitavano come un mosaico liquido e scorrevano gli uni sugli altri nel loro rimestarsi incessante. Non era un fuoco, ma era qualcosa.
Rasgan era stato fortunato a incontrare Triskel. Forse quel vecchio mezzo matto non era la migliore delle compagnie, ma non è che avesse molta scelta. Rasgan si chiedeva spesso se qualcun altro era sopravvissuto, e dov'era, se vagava da solo o in gruppo. Doveva esserci qualcuno come loro, che se lo chiedeva, da qualche altra parte. L'oscurità vivente che aveva invaso e distrutto il loro mondo, e cancellato col suo tocco così tante vite nei primi tempi dalla sua comparsa, ormai non scendeva nemmeno più a cercare gli ultimi superstiti. Non li attaccava. Non dava loro la caccia.
Sapeva di avere già vinto.
Rasgan non voleva deprimere anche Triskel, ma fu più forte di lui. Quando quel pensiero lambì la punta della sua lingua, Rasgan non seppe trattenersi, e nel silenzio rotto solo dal crepitio dei triangoli luccicanti e dalle folate di vento, chiese al compagno di viaggio: – L'Ombra. Anche l'Ombra è formata da triangoli?
Triskel alzò gli occhi al manto di oscurità eterna e non rispose.

lunedì 13 giugno 2022

Attraverso le fiamme


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– Tu sei tutto matto! – sbottai, dando le spalle al labirinto di giganteschi ingranaggi che scattavano e ticchettavano a ritmo, con l'occasionale cigolio stridente ben più fastidioso delle unghie sulla lavagna. – Non passeremo di qui. No, neanche morti. Ci tengo a restare intera, io.
Quando eravamo saltati giù dalla finestra del palazzo, io stretta a Talon che era l'unico di noi due che aveva le ali, il nostro volo... planata... caduta non troppo veloce non era stata disastrosa come avevo temuto. Certo, non eravamo andati molto lontano, però le ali di Talon avevano retto almeno fin sopra al canale che alimentava quella che secondo le sue parole era una centrale di generazione del vapore.
Avevo trascorso parecchi anni della mia vita su una barca, l'acqua la potevo sopportare.
Dopo la nostra rocambolesca fuga il cielo si riempì di macchine volanti che avrebbero reso Leonardo da Vinci l'uomo più felice di quella terra se solo avesse potuto vederle. Passare dall'alto quindi non era un'opzione, anche se Talon fosse riuscito a portarmi.
Per le strade, l'ordine che senza bisogno di semafori governava il viavai di persone appiedate e mezzi meccanici dalle forme più varie fu guastato dal caos concitato annunciato dal suono dei fischietti e delle grida che avevo già udito prima, "gremlin, gremlin!". Senza più un mantello a coprirgli le ali, Talon spiccava tra la folla ovunque andasse, e dunque il nostro tragitto era rivelato ai nostri inseguitori dalla serie di gridolini e squittii che le dame e i gentiluomini dagli abiti antiquati, ottocenteschi se avessi dovuto paragonarli a quelli di un'epoca della mia terra, emettevano scostandosi da noi ovunque andassimo.
Nemmeno le strade erano più praticabili a quel punto.
Per quel motivo Talon mi aveva trascinato in quello che lui definiva "un vicolo di servizio", e dopo aver girato la manovella a forma di ruota che sovrastava un tombino, lo aveva aperto e mi aveva spronato a scendere la scaletta a pioli che portava nelle viscere cigolanti della città.
Se non potevamo passare sopra, e non potevamo passare attraverso, l'unica via era passare sotto.
Sembrava facile a dirsi.
Ne avevo avute di disavventure da quando Talon era piombato sulla mia barca da un bagliore nel cielo. Si poteva dire che avessi attraversato le fiamme dell'inferno, soprattutto durante i primi giorni quando quella bizzarra creatura non faceva altro che danneggiare la mia Sabrina, che sarebbe il nome della mia barca per intenderci, nei suoi disastrosi tentativi di migliorarla. E quando Talon aveva cominciato ad adattarsi al mio mondo, e a trattenere almeno in parte i suoi impulsi involontariamente distruttivi, le cose non erano migliorate. Semmai erano peggiorate, anche se la colpa non era di Talon, bensì degli altri gremlin che erano venuti a cercarlo e che non eccellevano quanto a discrezione.
Catturarli e convincerli a tornarsene da dov'erano venuti era stata un'impresa.
E la folle idea di fare questo salto nell'ignoto, ricambiare la "cortesia" di Talon ed esplorare il mondo da dove veniva, era stata l'ultima delle sue geniali trovate che aveva messo a repentaglio la mia vita. E in questo caso non potevo nemmeno scaricare su di lui tutta la colpa: tanto per cambiare, era stata la mia curiosità, e non la sua, a farmi finire nei guai.
– Ma che cavolo avevo in mente! – mi lamentai, camminando avanti e indietro sullo stretto passaggio sospeso nel vuoto. – Oh, sarà una bella avventura, quando mai ti ricapita un'occasione del genere, dai, Rachele, si tratta soltanto di un altro mondo, è diverso ma è pur sempre abitato da persone, che mai può capitarti di male?
Talon mi fissò con la testa inclinata e la lanterna sollevata tra di noi. Anche se non ce n'era bisogno, perché a rischiarare la strada, e a scottarmi la schiena con la sua vampa rovente c'era una girandola di fuoco che roteava spinta dai denti di mastodontici ingranaggi.
– Sei proprio, proprio, proprio sicuro che non ci sia un'altra strada? – indagai, dopo aver ripreso il controllo di me e aver esalato un sospiro rassegnato.
– Qui sotto, sì. Fai come faccio io, è facile. Basta solo calcolare bene i tempi e non ti brucerai per nulla.
Talon mi rivolse un gran sorriso e mi superò con passo baldanzoso. Gli artigli delle zampe che aveva al posto dei piedi ticchettavano debolmente sulla passerella di metallo, un rumore lieve soffocato dal continuo cigolare e stridere delle ruote dentate.
– Si può sapere almeno se lo hai già fatto altre volte? – gli chiesi, affrettandomi a seguirlo.
Se dovevo saltare in un cerchio di fuoco, attraversare in sua compagnia fiamme non più metaforiche bensì pericolosamente reali, almeno volevo essere certa che lui sapesse quello che faceva.
– No – ammise candidamente Talon. – Io mai, ma Danger è passato di qui tante volte, e come hai visto è ancora vivo.
Oh, sì, Danger era ancora vivo. Ma certo non deponevano a nostro favore i segni di ustione che gli avevo visto su un braccio e su parte di un'ala, la cui origine lui aveva attribuito a una lotta senza quartiere contro gli umani cattivi del suo mondo, che volevano impedirgli di costruire le sue fenomenali invenzioni sottraendo i pezzi necessari ai loro marchingegni inutili.
Se mai avessi attraversato indenne le fiamme, avrei potuto rinfacciargli quell'ennesima fandonia.

sabato 11 giugno 2022

Zuppo

Zuppo [zùp-po] agg. Completamente bagnato, intriso, madido, fradicio.

Etimologia: participio passato di zuppare, derivato dal gotico suppa, "fetta di pane inzuppata".



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Foto di Teona Swift da Pexels


Quell'autunno ascoltai con attenzione le storie del vento. Cercavo notizie di Zefiro, che era stato il mio Maestro e che mi aveva ceduto all'improvviso tutte le responsabilità di una Sacerdotessa del Vento. Non le avevo mai volute, ciò che bramavo era solo vivere con lui, la mia nuova famiglia, l'unico che potesse comprendermi fino in fondo e insegnarmi quanto ancora dovevo sapere.
Il vento non mi parlò di lui. In compenso, mi rivelò che stava radunando le nubi, e che la pioggia sarebbe arrivata presto. Come avevo predetto, giunse sul finire dell'autunno, e il giorno in cui le prime gocce si precipitarono a impregnare la terra assetata, io e Syuss facemmo a gara a scendere dall'altopiano per correre a rifugiarci sotto gli archi tra le colonne del Tempio del Vento. Mi piaceva il nostro tempio, era diverso dagli altri. Noi non avevamo un tetto, né pareti che impedissero al vento di soffiare, e se da un lato mi sentivo libera come l'aria a vivere lì, dall'altro significava che dopo ogni pioggia mi ritrovavo zuppa come un gattino caduto in uno stagno.
Syuss si lisciava le penne con il becco quando il sole tornava a fare capolino tra le nuvole. Io mi toglievo la veste, la strizzavo e la appendevo alle corde tese tra le colonne, da cui garrivano bandierine colorate con le richieste, le preghiere o i ringraziamenti dei postulanti. Quando il vento aveva asciugato la mia pelle, indossavo una veste pulita da una delle alcove in fondo al tempio, che fungevano da ripostiglio per i miei pochi averi.
Non desideravo le responsabilità di una Sacerdotessa del Vento, ma non di meno giunsero ugualmente. La brezza mi avvisò del suo arrivo prima ancora di vederlo. Scorsi le gocce cadere controvento dalla mia veste appesa, poi volare di traverso, attirate da una forza misteriosa alle mie spalle. Mi voltai al suono di un passo sciaguattante per scorgere un giovane totalmente zuppo, e completamente a suo agio nella veste madida.
– Vengo dal Tempio dell'Acqua – mi disse. – Dobbiamo parlare.

giovedì 9 giugno 2022

Nata dal dolore


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Foto di Bianca Salgado da Pexels


Non ci sono parole per descrivere il dolore di una vita spezzata. Tutto ciò che sarebbe potuta diventare, tutti i legami che aveva stretto, tutti i sogni, le speranze, i desideri, annientati in un singolo istante. Lady Nightingale di Shamyan era morta in quel gelido antro, di fronte agli occhi indifferenti di creature bestiali che nessuno aveva mai visto prima, ma che tutti veneravano come dei. Il suo nome non sarebbe nemmeno dovuto uscire dalle labbra dei sacerdoti: il conte li corrompeva da sempre, per tenere al sicuro le sue figlie. Ma qualcuno lo aveva tradito, e loro avevano indicato lei come la prescelta. Il conte non aveva potuto opporsi.
Così lady Nightingale era stata sacrificata sull'altare, nel cerchio di pietre. Lei era morta quella notte, e al suo posto ero nata io.
L'oscurità della notte, uno spazio vuoto, con una missione.

I miei ricordi sono frammentari. Ma cercherò di scriverli, finché posso. Qui accanto al fuoco, mentre pianifico la mia prossima mossa. Quelle creature mi stanno cercando, lo sento, ma per il momento, almeno per il momento, non sono vicine.
Sarei dovuta morire sull'altare di pietra, così credevo, ma non è in questo modo che funziona. Al mattino le vittime erano sempre sparite, nessuna traccia di loro era mai stata ritrovata, segno che avevamo sempre interpretato come l'ascesa al cielo delle prescelte, per dimorare accanto agli dei.
Inutile dire che ci sbagliavamo.
Nella notte arrivarono loro. Non ricordo con chiarezza, e in questo caso, non perché ho perduto la memoria di quell'evento. Mi ricordo la vista annebbiata, il rumore dei miei rantoli, il graffio delle corde, la stanchezza, la straziante agonia lì dove il sacerdote aveva affondato la sua lama. Continuavo a svenire e a riprendermi, perciò ricordo solo lampi di quel pellegrinaggio nella notte. L'odore del mio sangue mescolato al lezzo della creatura pelosa che mi sosteneva malamente, ferendomi con i suoi artigli. Ormai non sentivo nemmeno più il dolore, ma solo torpore.
All'ennesimo risveglio, le stelle erano state sostituite da un soffitto di pietra, irto di spuntoni acuminati. I miei piedi non strisciavano più sulla morbida terra, ma su rocce e sassi. Un'alito gelido e umido m'investiva soffiando nella galleria, e un ululato inquietante riecheggiava dagli ingressi ad altri antri che superavamo lungo il cammino. Il ruzzolare di un sasso, moltiplicato dall'eco tra le pareti di roccia, s'ingigantiva fino a farsi il rombo di una valanga di pietre. Ero già terrorizzata a sufficienza, ma il peggio doveva ancora arrivare.
Mi lasciarono cadere di fronte a una bestia enorme, spaventosa, seduta su un trono di roccia, di cui le creature che avevo visto non erano che una versione minuscola e distorta, come lo sono le marionette rispetto a un uomo. Il paragone era molto più azzeccato di quanto avessi previsto.
Era quella bestia a muovere i fili di tutte le altre. Lo seppi quando alzai la testa e lo fissai negli occhi, così come venni a sapere di molte altre cose, che preferisco non scrivere. Non sono ricordi che dimenticherò, questo è certo. Perché quelli non sono i miei ricordi, sono i loro.
Fu come una pressione che cresceva sempre di più nella mia testa e sulla mia pelle. Non mi resi conto all'inizio di quello che mi stavano facendo, ma poi lo compresi. Quei nuovi ricordi stavano scacciando via i vecchi, spingendoli contro le pareti del mio cranio, schiacciandoli, sminuzzandoli. Allora opposi resistenza, e fu lì che cominciò a fare male davvero. Come coltelli piantati nella mia testa, chiodi, colpi di martello. Ero sotto attacco di una forza invisibile, e non avrei potuto scacciarla nemmeno se avessi avuto le mani libere.
Tuttavia resistevo, piegata in due, preda di conati di vomito, aggrappata a tutto ciò che ricordavo di me stessa, poiché sapevo quello che sarei diventata se avessi ceduto.
Un'altra di quelle marionette. Non più umana. Non più libera, mai più.
Al limite del mio campo visivo scorsi lampi di luce, vampate di fuoco, e percepii schianti di rocce spezzate. Quelle creature stavano usando il loro potere sugli elementi, un potere che non avrei saputo nemmeno immaginare prima che la mia mente fosse invasa dalle loro conoscenze. E lo stavano usando per attaccare qualcuno.
Non so descrivere la battaglia, poiché io stessa ero impegnata nella mia lotta. Ricordo che mi ritrovai accanto un uomo, uno sconosciuto che tagliò le corde che ancora mi stringevano i polsi e le caviglie, e mi aiutò a rimettermi in piedi. Solo allora riconobbi in lui Moray, il mio maestro di spada.
Quando era stato fatto il mio nome, lui era stato l'unico che aveva osato protestare. Doveva aver seguito quelle creature quando mi avevano preso. Era entrato nelle caverne per me, era venuto a salvarmi.
Un tentativo futile, sciocco. Eravamo in due contro un intero alveare di bestie. Mi aveva portato le mie spade, ma non sarebbero state sufficienti, e non sapeva in che condizioni mi avrebbe trovato.
Temeva di trovarmi moribonda, e invece io ero più forte di quando ero arrivata lì. Ed ero diversa, anche se esternamente non ne portavo i segni.
Usai il fuoco. Usai la terra, l'aria, qualunque cosa pur di respingerli da noi, anticipavo le loro mosse, e loro le mie, combattevo quei demoni con il loro stesso potere, ignorando quella pressione nella mia testa ogni volta che lo facevo, ignorando che più lo sfruttavo, e più perdevo brandelli di me stessa.
Mentre fuggivamo, Moray fu sopraffatto, e non lo vidi mai più. Non so nemmeno se quelle che udii furono le sue ultime parole, o solo frutto della mia immaginazione.
– Addio, mia allieva. Fate buon uso di ciò che vi ho insegnato...
Qualunque cosa fossero, mi spronarono a fuggire, da codarda. Ho avuto molto tempo, da allora, per pentirmene. So che cosa gli hanno fatto, che cos'è diventato.
E so che cosa sto diventando io, giorno dopo giorno, quando loro mi trovano e sono costretta ad affrontarli. È una morte lenta quella che mi aspetta, con la consapevolezza che nel mio domani c'è solo una mente sempre più vuota, e una volontà sempre più debole. Ma resisto. Finché ne avrò la forza.
Io sono Night, e ho una missione. Rivelare il culto degli dei per quello che è, una farsa, e impedire che altre vittime innocenti vadano a ingrossare le schiere di quelle bestie immonde. In una parola, devo fermarli.
Lo devo a una fanciulla sciocca che pensava che il suo rango l'avrebbe tenuta al sicuro e non si preoccupava affatto delle figlie degli altri.
Lo devo a Moray, che ha perduto sé stesso per salvarla, e invece ha trovato me. La notte, uno spazio vuoto, con una missione.
Un giorno lo ritroverò e lo libererò nell'unico modo possibile.

lunedì 6 giugno 2022

Abitudini alimentari


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Foto di Alexy Almond da Pexels


Non avevo più avvertito la fame da quando avevo mutato la mia natura. Percepivo il bisogno di nutrirmi in maniera diversa, come una sorta di debolezza che m'invadeva le membra, e che mi avvertiva che il mio tempo era pericolosamente vicino alla scadenza, che avevo bisogno di nuova forza vitale, di altro tempo sottratto a una creatura viva.
Non era stato difficile come pensavo adattarmi alla mia nuova dieta. E per la bambina, che era stata troppo piccola per ricordarsi di essere mai stata qualcosa di diverso da una mutaforma, era stato più semplice ancora.
Ci spostavamo spesso, noi tre. Non potevamo correre il rischio di attirare l'attenzione, e d'altra parte non c'era nulla che ci trattenesse in un luogo, nessun legame e nessun obbligo. In particolare, nei primi mesi di vita della bambina, ci tenemmo lontani dai centri abitati, al sicuro dalla curiosità degli esseri umani. Come colui che aveva cambiato le nostre vite, io ero in grado di mantenere la mia forma stabile se mi accorgevo che un estraneo mi stava fissando, ma la bambina non aveva alcun concetto di prudenza, né capiva la necessità di mantenere la nostra natura segreta agli occhi degli esseri umani.
Non ce n'era bisogno con gli animali, perciò vivemmo inizialmente nella prateria selvaggia, ai margini della civiltà. Il profumo dei prati in fiore divenne a poco a poco sinonimo di "casa", tanto più che potevo percepirlo con altri nasi, con olfatti più sviluppati di quello umano e distinguerne ogni sfumatura. Ci spostavamo seguendo i ruscelli gorgoglianti, poiché l'acqua attirava sempre nuove vite, nuove prede per noi. A volte nuotavamo nei ruscelli, mutati tutti e tre in banchi di pesci che si univano e si mescolavano, e catturavamo in quella forma gli insetti imprudenti. Altre volte percorrevamo la prateria nei panni di una famiglia di linci, di volpi o di lupi.
La bambina amava tramutarsi in uno stormo di uccelli, volare assieme ad altri della stessa specie, scambiando cinguettii e trilli canori, e una volta a terra diventare un felino, balzare su uno dei compagni e inghiottirlo intero. Limitato da anni di moralità umana, io non sarei mai riuscito a fraternizzare con una preda, ma lei la considerava una pratica normale.
– Il cibo canterino è con me adesso – mi disse una volta che passeggiavamo in forma umana, quando le chiesi perché volasse assieme agli uccelli prima di mangiarli. – Posso cantare io le sue canzoni. Me le ricordo. È un po' come con le nostre storie. Me ne racconti una?
Avevo iniziato fin da subito a raccontarle delle storie per abituarla ai suoni di una lingua umana e al modo complicato che avevano gli esseri della mia precedente specie di elaborare concetti astratti e associarli a suoni arbitrari. Alcune erano storie inventate, da bambini, metafore della nostra condizione attraverso le metamorfosi nel mondo animale. Altre, invece, riguardavano la nostra vita, il modo in cui eravamo diventati quel che eravamo, e perché tutte le altre creature su questo pianeta, compresi gli esseri umani, erano diversi da noi.
Speravo di prepararla all'incontro con gli esseri umani, al pericolo che rappresentavano per la nostra esistenza, che doveva rimanere segreta, ma non potevo immaginare che quell'incontro sarebbe avvenuto prima di quanto immaginassi.
Il nostro viaggio ci aveva portati forse troppo vicini alle terre abitate, e così mentre noi catturavamo lucertole e le ingoiavamo vive sulla riva del ruscello, inebriati dall'estasi del legame con ogni forma di vita che ci circondava, non ci accorgemmo che la bambina si era allontanata da noi e aveva trovato un gruppo di escursionisti che avevano allestito su di una tovaglia piatti e vassoi di cibo umano.
– No, non lo mangiare quello, è carne morta, poi starai male! – la sentii gridare, mentre accorrevo spronato dal suono della sua voce allarmata. Erano le stesse parole che le avevamo rivolto mesi prima io e il nostro compagno, mentre toglievamo dalla sua bocca di iguana il cadavere di un toporagno che aveva scovato all'ombra di un gruppo di pietre. – Sputalo! Buttalo fuori! Dai... se lo mangi muori!
– Lascia fare a me – mormorai al nostro compagno, innervosito dalla situazione rischiosa in cui la bambina ci aveva messi. Mi avvicinai in fretta alla piccola e la agguantai da dietro con fare giocoso, poi la sollevai in braccio.
– Ehi! Andiamo, non dare fastidio ai signori.
– Non ci dà fastidio – replicò in fretta una donna, mentre l'oggetto del suo rimprovero, un ragazzo con un tramezzino al prosciutto mezzo smangiucchiato, inghiottiva in fretta il boccone sotto lo sguardo atterrito della bambina.
– Devi aiutarlo... – piagnucolò la bambina, nascondendo il volto contro la mia spalla. – Devi aiutarlo o morirà...
– Siamo vegani – mi affrettai a dire, spiegazione che fu accolta con un coro di "ah" e qualche sguardo critico. Sentii alle mie spalle, qualche metro più indietro, la risata del nostro compagno. Non potevo inventare una bugia più lontana dalla verità di quella.
– Abbiamo dei biscotti senza uova e senza latte, se la piccola ne vuole qualcuno – proseguì la donna, tendendoci una confezione di biscotti, probabilmente per consolare la bambina. – A proposito, come si chiama? Abbiamo provato a chiederglielo, ma non vuole dircelo.
Ignorai la domanda, poiché sarebbe stato impossibile rivelarle che sia io che lei avevamo rinunciato ai nostri nomi umani, senza poi dirle che lo avevamo fatto per essere liberi di diventare qualcos'altro. – Grazie, ma non può mangiare glutine – replicai, e nel notare che qualcuno adocchiava delle ciotoline di macedonia, aggiunsi: – Ed è allergica alle fragole... e ad altre cose... è stato un piacere conoscervi, ma ora dobbiamo andare.
Tagliai corto, poiché avevo notato che la bambina aveva allungato una mano verso una farfalla che mi volteggiava attorno alla testa, e avevo il terrore che la creatura si posasse sulle sue dita e lei se la ficcasse lesta in bocca come le avevo già visto fare tante altre volte. Adorava le farfalle, così come io preferivo tra tutte le forme di vita le lucertole, forse perché erano quelle che avevano innescato la nostra metamorfosi, il nostro primo pasto. Ma era di fondamentale importanza non rivelare agli escursionisti le nostre abitudini alimentari, perciò diedi loro le spalle e ci allontanammo in fretta, tutti e tre.
Ci assicurammo di essere fuori dalla portata della loro vista prima di metterci addosso una pelliccia e ficcare i nasi tra l'erba della prateria alla ricerca di pietanze viventi per il nostro personale pic-nic.

sabato 4 giugno 2022

Arcigno

Arcigno [ar-cì-gno] agg. Severo, immusonito, scostante.

Etimologia: etimo incerto, forse deriva dal francese antico rechigner, "torcere la bocca, fare un viso severo".



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Ero bloccata in quella tana da uomini assieme a un essere spaventoso, mentre fuori pioveva. Sentivo i cani latrare e raspare all'esterno. Non erano più dietro la porta, avevano fatto il giro seguendo il mio odore prima che la pioggia lo cancellasse, e avevano trovato l'asse divelta da cui ero entrata. Per mia fortuna il buco era grande a malapena per me, perciò quelle bestie enormi sarebbero rimaste fuori a bagnarsi e sporcarsi le zampe di fango, ma m'inquietava lo stesso sentirle ringhiare.
Avevo un problema più pressante in quel momento.
L'uomo col fucile che mi fissava arcigno.
Il cacciatore non poteva sapere che io ero la volpe che aveva inseguito e perso tante volte. O almeno speravo che non lo potesse sapere. Mi ero trasformata prima che lui arrivasse, e mi ero messa una di quelle scomode pelli che gli umani usavano per coprirsi il corpo privo di peli, un vestito, mi pareva si chiamasse. Stavo cominciando a capire i loro versi, dopo averli ascoltati di nascosto, ma non avevo mai provato a parlare come loro.
– Tu... – disse l'uomo. – Mi ricordo di te. Nel campo...
Anch'io mi ricordavo di lui. Non il suo aspetto, uguale a quello di tanti altri umani, ma il suo odore. C'era lui a darmi la caccia la prima volta che mi ero trasformata.
Sentii le mie labbra arricciarsi sui denti e un ringhio farsi strada nella mia gola. Lo repressi, e invece modellai la mia faccia a ricalcare l'espressione arcigna della sua. Incrociai le braccia come le donne umane che avevo spiato.
Lui vide il fango sulle mie mani e scattò ad afferrarmi un polso. – Che cos'hai fatto? Nascondi la volpe, tu l'aiuti a scappare, la perdo sempre da queste parti!
L'uomo mi strattonò il braccio. Gli diedi uno schiaffo con l'altra mano, lasciandogli un'impronta di fango sulla guancia. Era una scena che avevo già visto, a parte il fango.
– No! – urlai, e mi sorpresi di riuscire a pronunciare i versi umani. – Fuori di casa mia!
Forse non lo dissi in modo così chiaro, ma l'uomo col fucile recepì il messaggio.

giovedì 2 giugno 2022

Il figlio della rabbia


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Ruben si terse la fronte con il polso. La polvere rossa era ovunque, e danzava finissima nell'aria al ritmo del suo braccio, nel manovrare avanti e indietro la pialla sulla figura che aveva di fronte, sempre meno grezza. Mescolata al sudore, gli colava sulle palpebre, appannandogli la vista con un velo rosso.
Quando gli avevano portato quel pezzo di legno, Ruben aveva detto che non sapeva che farsene.
– Usalo, tienilo, non ci importa – gli avevano detto. – Noi non lo vogliamo. Questo legno è maledetto, sanguina.
E in effetti, non appena Ruben aveva passato la mano sul legno - incredibilmente liscio, privo di nodi o venature, e di un tenue color carne - gli era rimasta appiccicata quella polvere rossa, impalpabile come cipria. Il falegname lo aveva messo da parte, in un angolo della bottega, ed era andato avanti con il suo lavoro.
Nel corso degli anni, Ruben pensò più volte di buttarlo via, o di farne legna da ardere per il camino; se non mise in atto i suoi propositi, fu solo a causa di sua moglie. Era lei che ogni sera spazzava il pavimento della bottega, raccoglieva i pezzetti di legno più grandi, che potevano essere ancora utili per scaldarsi, e cacciava fuori dalla porta i trucioli più fini e la polvere, compresa quella di colore rosso che quotidianamente veniva prodotta da quel vecchio legno.
– Come sta oggi il mio bambino? – chiedeva la donna nel passargli accanto, e gli assestava qualche affettuosa pacca sull'estremità in alto. Poi rideva, e Ruben con lei.
Sua moglie morì senza dargli un figlio.
Folle di rabbia e di dolore, Ruben si precipitò in bottega e menò fendenti con lo scalpello contro il banco di lavoro e contro le ultime opere in attesa solo di essere terminate o consegnate. Sfregiò la statuina di una fata, distrusse a martellate un teatrino di burattini, si accanì contro un asinello di legno, finché non sollevò il martello contro lo strano dono di tanti anni prima. Allora, il falegname vacillò.
– ...il mio bambino – biascicò con voce impastata il vecchio falegname. Mollò gli strumenti, che piombarono con fracasso sul pavimento, e cadde in ginocchio.
Decise in quell'istante che le avrebbe dato il bambino che loro non avevano potuto avere.
La brava gente del villaggio mormorava che il falegname era impazzito, poiché Ruben non consegnò mai gli ultimi lavori che gli erano stati richiesti, e non ne accettò di nuovi.
Da mattina a sera, non faceva altro che lavorare uno strano pezzo di legno color carne, che qualche taglialegna superstizioso gli aveva consegnato anni prima. Passando davanti alla finestra semichiusa della sua bottega, lo si poteva vedere indaffarato nella stanza in penombra, a battere colpi frenetici con il mazzuolo sullo scalpello, o a lavorare di raspa per lisciare la superficie della sua opera o ancora maneggiare l'una o l'altra sgorbia dalla lama sagomata per incidere i dettagli. Ogni giorno i suoi passi e i suoi sospiri si mescolavano ai colpi sordi e ripetuti, al tintinnare degli strumenti posati o afferrati dal banco, al ritmico grattare del metallo sul legno.
E ovunque, la polvere rossa si librava, volteggiava, riempiva lo spazio densa come la furia del falegname, come il suo livore che non si era mai sopito. La vita era stata ingiusta con lui, gli aveva tolto tutto, senza dargli in cambio nulla. Aveva solo quel pezzo di legno trasfigurato nella statua di un ragazzo di dodici, forse tredici anni, così realistico da togliere il fiato, da non parere nemmeno di legno, da non lasciare sorpresi se un giorno o l'altro avesse deciso di muoversi e parlare.
– Il mio bambino...
Il falegname gli aveva parlato, di tanto in tanto, nel corso della sua creazione. Tossendo per la polvere rossa che gli entrava in bocca, gli aveva raccontato di lei, di com'era stata buona e amabile, e gli aveva raccomandato di essere un bravo bambino, rispettoso, educato e sincero. Non aveva mai ricevuto risposta dalla sua creazione di legno, ma nella sua follia, Ruben si era convinto che la statua del fanciullo lo stesse ascoltando.
Ruben aveva impiegato tutta la sua maestria nella sua creazione più bella. Seduto sul banco di lavoro, con la polvere rossa che gli si depositava addosso e arrossava le gote, Ruben ammirò la perfezione delle dita mollemente adagiate in grembo, e il lieve tremolio dietro le palpebre chiuse.
La statua aprì gli occhi e lo fissò.
Ruben, dopo il primo istante di stupore, fece per spalancare le braccia e abbracciarlo, ma fu raggelato nell'udire la voce roca e astiosa del ragazzo.
– Padre...
La statua afferrò lo scalpello accanto alle sue gambe sul banco di lavoro, contrasse le labbra in un ghigno sadico, e pugnalò al collo il falegname.
La mattina dopo, quando la brava gente del villaggio lo trovò esanime tra la polvere rossa e il sangue raggrumato, e senza più traccia alcuna della bellissima opera su cui lo avevano visto al lavoro dalla finestra, giudicò che qualcuno, probabilmente uno straniero di passaggio - sia mai che il colpevole di un crimine così efferato fosse stato ancora lì in mezzo a loro - lo avesse ucciso per rubare il suo capolavoro.