giovedì 30 settembre 2021

Alla fine dell'arcobaleno


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Quando Neve mi aveva spiegato il suo piano, aveva omesso di precisare un piccolo dettaglio. Il leprecauno non era, come avevo immaginato e come pareva dalla statuina di ghiaccio che Neve aveva creato per il suo diorama, un folletto basso e grassoccio, con una lunga barba e un cappello ridicolo. Ciò che apparve nel cerchio quando lo evocammo era una donna dal fascino ultraterreno, grandi occhi da cerbiatta e lineamenti delicati, le forme sinuose avvolte in un abito corto e sfilacciato, verde smeraldo e scintillante, che lasciava scoperte le gambe e le braccia. Sul suo volto danzava un arcobaleno, che a volte passava da una guancia all'altra attraverso il naso, e altre saliva a formare un arco sulla sua fronte. Quasi mi sfuggì il quadrifoglio con cui l'avevo evocata per la sorpresa di trovarmi di fronte una figura così diversa dall'immagine classica con cui vengono ritratte queste creature. Lei se ne accorse e tese una mano con gesto fulmineo, e nel farlo l'arcobaleno scese dal suo volto e corse alle sue dita, mentre esclamava: – È mio! Ridammelo!
Non mi scomposi. Come previsto, la sua mano sbatté contro il perimetro del cerchio di sale che la intrappolava, o meglio, contro la barriera che dal sale si elevava a formare un invisibile cilindro. Il leprecauno digrignò i denti.
Neve, che fino ad allora era rimasta alle sue spalle, si mosse per affiancarmi, e dalle sue labbra dischiuse provenne una risata che somigliava in modo inquietante allo scrocchiare del ghiaccio che si spezza.
– Avrei dovuto immaginare che c'eri di mezzo tu – sibilò il leprecauno, fissando la yuki-onna. L'arcobaleno vagava sulla sua pelle senza meta, talvolta attorcigliandosi o strisciando in cerchi e spirali ipnotiche.
Neve allargò le braccia candide. – Io ho solo fornito l'idea, amica mia.
Nonostante l'avesse chiamata in quel modo, nella sua voce stridente non c'era nulla che somigliasse all'affetto.
Il leprecauno tornò a rivolgersi a me. – Dimmi, Infero.
Carezzevole e sensuale, l'intonazione con cui pronunciò quella parola era tutto l'opposto del modo sprezzante, quasi di scherno con cui mi appellava Neve. Eppure, il solo fatto che come la yuki-onna avesse capito cos'ero con una singola occhiata, mi mise in allarme.
– Che cosa ti ha promesso la fredda con cui ti accompagni? – domandò il leprecauno. Poi, dopo una breve risata tintinnante come una cascata di monete d'oro, proseguì: – Non importa. Lei non possiede un tesoro. Lei non ha niente di quello che ho io.
Come fosse stata una top model su una passerella, il leprecauno si girò, raccolse con una mano i capelli bruni e li spostò davanti alla spalla, rivelando una scollatura vertiginosa che le lasciava in vista tutta la schiena. – Segui l'arcobaleno – mi disse, la sua voce calda divertita e sensuale.
Non serviva che lo dicesse, però, perché io non riuscii a staccare gli occhi dall'arcobaleno che le percorreva il centro della schiena, accarezzandole la nuca e la curva delle spalle fino a seguire lento la discesa che portava alla vita sottile, per infilarsi infine sotto al tessuto lucente che le copriva a malapena le natiche, tanto attillato da sottolineare invece di celare le sue forme.
Fossi stato un adolescente in preda agli ormoni, quella palese provocazione avrebbe forse potuto indurmi a correre da lei, e magari con un passo incauto aprire un varco nel cerchio che la conteneva. Ma il leprecauno aveva fatto male i suoi calcoli, perché non ero più un adolescente e la parte di me che era umana, seppure apprezzasse il fascino di una bella donna, era sotto il mio pieno controllo.
– Non ho bisogno del tuo oro – le dissi. – Di nessun tipo di oro che tu possa offrirmi.
Dopo aver indugiato per un po' sulle sue forme perfette, risollevai lo sguardo verso i suoi occhi che mi sbirciavano da sopra la spalla. Ero pienamente in grado di guardare e non toccare.
Il leprecauno celò il disappunto mentre tornava a darmi la schiena, poi si girò a fronteggiarmi – Perché non sai che il mio oro è l'oro dei desideri. La fredda non te lo ha detto? – Scambiò uno sguardo con Neve, prima di proseguire. – Ovviamente no. Altrimenti, non l'avresti aiutata a fare quello che vuole lei.
– Che vuoi dire? – sbottai, perché ero stufo di avere a che fare con creature che cercavano continuamente di manipolarmi. Mi accorsi subito che in realtà ero caduto nella sua trappola.
– Voglio dire – proseguì lei, ignorando Neve che scuoteva la testa, – che i pozzi dei desideri sono solo un inutile passatempo per turisti perché i mortali usano le monete sbagliate. Ma getta una delle mie, e tutto ciò che chiedi sarà realtà. Per che cosa mi hai evocato, Infero? Protezione? Conoscenza? I nomi dei tuoi nemici?
Il leprecauno rise e sulla sua mano tesa apparve, in un bagliore arcobaleno, una moneta d'oro. – Facciamo uno scambio. Il mio quadrifoglio in cambio di tutto ciò che desideri.
Lo ammetto: ero tentato. Sembrava un modo molto più semplice di arrivare alla fine di quella storia, rispetto al complicato piano della yuki-onna.
A quel punto, fu la risata agghiacciante di Neve a riempire la stanza, mettendomi i brividi. Uno strato di brina si diffuse attorno ai suoi piedi, congelando il tappeto. – Ti fidi di un folletto, ma non di me, Infero? Guardala, eccola lì a offrirti il suo premio senza rivelarti il suo prezzo. Un desiderio ottenuto con una moneta di leprecauno ne ha sempre uno. I tuoi ricordi, o il tuo bell'aspetto, o la tua giovane età, o perché no, l'immortalità... perché tu sei immortale, vero, Infero? Se uno di coloro che ti dà la caccia non ti uccide, intendo. Senza contare che occorre sempre prestare attenzione a come si formula un desiderio, per non incorrere in spiacevoli conseguenze.
Mi sentivo un po' come un uomo conteso tra due belle donne: lusingato e confuso. Neve però aveva sia torto che ragione. Aveva torto, perché mi fidavo di più di un'astuta, ingannevole ed egoista creatura del piccolo popolo che conoscevo da qualche tempo piuttosto che di un'astuta, ingannevole ed egoista creatura del piccolo popolo che avevo appena incontrato. Sapevo che entrambe avevano motivazioni che non comprendevano il mio bene, ma quelle di Neve sembravano almeno in parte coincidere con le mie.
– Non ha tutti i torti – replicai all'offerta del leprecauno, scollando le spalle.
L'arcobaleno tornò a danzarle sul volto, che lentamente venne deformato da un ghigno crudele. Il leprecauno rovesciò la mano e lasciò cadere a terra la moneta d'oro. – Allora brucia, Infero!
La moneta divenne rossa, incandescente, e quando toccò il pavimento divampò un'esplosione silenziosa che trasmutò la mia stanza in un inferno di fuoco. In un lampo svanirono le pareti, il soffitto, il tavolino di vetro, gli armadietti di Belial con tutti i suoi talismani e ingredienti magici e la libreria di volumi arcani e ci ritrovammo, tutti e tre, in una terra desolata, di rocce brune e di fiumi di lava ribollente. Sopra si me nuvole di cenere si sfaldavano e si ricomponevano in un cielo di fiamme, e più avanti un arco spezzato, costellato da iscrizioni in una lingua che non aveva nulla di umano, s'innalzava tra due obelischi sormontati da bracieri accesi. Oltre, s'intravedeva tra le nubi fosche una torre dalle forme sgraziate, asimmetriche, incoerenti, talmente impossibili che in una dimensione dominata dalla logica non sarebbe mai potuta rimanere in piedi. Nell'aria rovente, mi si rizzarono i peli delle braccia.
Compiaciuta, il leprecauno annunciò: – Benvenuto alle porte dell'inferno, Infero! – Si beò per qualche istante della paura nei miei occhi, della mano con cui reggevo il suo quadrifoglio che si faceva sudata e scivolosa, e non per il caldo. – Non è casa tua, questa? No? Forse dovremmo chiamare qualcuno, per indicarti la strada...
La sua voce sensuale si fece crudele. Aveva vinto. Non potevo restare lì, allo scoperto. Mi concentrai sul salotto della mia casa nel bosco, protetta da incantesimi contro i miei nemici, ma non riuscii a comparire il quel luogo sicuro come avevo fatto tante volte prima di allora. Non potevo andarmene. Guardai allora Neve, immobile e imperturbabile. Possibile che non provasse a fare nulla per portarci via di lì, per nasconderci, per trovare una soluzione al casino in cui mi aveva messo?
– Non ti angustiare, Infero. Dovresti saperlo che i poteri comuni a tutti i folletti si basano sulle illusioni.
Per una volta, almeno per una volta avrei potuto benedire il modo che aveva di deridermi mentre si rendeva utile. Ma ero un infero, o almeno per metà lo ero, e le benedizioni non erano nel mio stile. In ogni caso, Neve mi aveva chiarito perché non riuscivo a comparire nel mio salotto: perché da lì non ci eravamo mai mossi.
– Adesso basta, leprecauno. I tuoi trucchi non funzionano. – Non a lungo, almeno. Ma non volevo darle la soddisfazione di ammettere che se non ci fosse stata Neve, lei avrebbe potuto fregarmi. – È tempo di parlare di affari. Io ho il tuo quadrifoglio. Se vuoi riaverlo, preparati a fare qualcosa che non ti piacerà.
Fissai un'ultima volta la torre in lontananza, prima che quell'illusione svanisse riportandomi alla realtà del salotto. Impressi bene quell'immagine nella mia mente come monito, perché era lì che la mia vita sarebbe potuta finire, se il piano di Neve fosse fallito.

lunedì 27 settembre 2021

Luna di sangue


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La notte era viva. Brulicava e strisciava e gemeva e urlava e brancolava nel buio.
In cielo, una luna di sangue arrossava l'oscurità in un bagliore scarlatto.
Una donna, una bella donna, occhi di ghiaccio e un volto graffiato a sangue da chissà quale immonda creatura. Se ne stava in piedi, sopra di me, altera e sprezzante, mentre mi teneva giù con un piede posato sul mio stomaco. La sua forza era immensa, tale da schiacciarmi a terra con una pressione che sembrava essere, per lei, priva di sforzo. Alle sue spalle si allargavano un paio d'ali di pipistrello, cupe e venate da striature rosso sangue, simili a quelle che deturpavano il suo volto.
Aveva combattuto molto, quella donna. I suoi nemici erano morti, lei no. E in quel momento mi sovrastava con la dignità di una regina, come se io fossi stato solo un altro dei tanti avversari che avevano osato sfidarla.
Ma io non ero il suo nemico. Ero suo figlio.
Nel brulicare e frinire e ululare delle creature che erano fuggite da noi al nostro arrivo in quella distesa d'erba seccata dal sole, che ancora non conoscevo con il nome di savana, la donna, una Succuba, si chinò su di me e mormorò con voce sensuale: – Sai perché sei qui, cucciolo.
Ringhiai e ruggii, sollevando le mie mani dalle dita nere, che terminavano in artigli, per cercare di graffiarle la caviglia. Non mi era mai stato insegnato a parlare. Non era necessario che io fossi in grado di comunicare nella maniera degli uomini.
La Succuba non si scompose ai miei tentativi di ferire la sua carne immacolata, dura quanto il granito. Le bastò un colpo con l'estremità uncinata di una delle sue ali per scacciare le mie braccia e provocare un taglio profondo. Il sangue sgorgò copioso, rosso, a tingere l'erba secca della savana. Subito mi portai le braccia al volto, sporcandomi le guance e il mento mentre leccavo la ferita. Tutto quel sangue sprecato.
La Succuba si erse ritta e sollevò il volto alla luna piena, tinta di un macabro rosso. La fissai anch'io, perché quella luna di sangue era il mio unico appiglio. L'unico dettaglio in quel mondo estraneo che mi ricordava il mio mondo, quello in cui ero nato e cresciuto: quella luna così simile alla nostra, mentre tutto il resto era per me alieno. Aliena era la terra morbida sotto le ali che lei aveva straziato, che sentivo cedere come se avesse voluto inghiottirmi; alieni erano i continui strepiti e grugniti e fischi delle innumerevoli creature che non vedevo, ma che sentivo dilaniarmi le orecchie con il loro cacofonico canto; aliena era perfino l'aria, che mi ammorbava le narici con miasmi sconosciuti, tanto da renderla irrespirabile. Era la mia prima volta nella terra degli uomini, e sarebbe stata anche l'ultima. Mia madre mi aveva portato lì per morire.
Tutte le Succube sapevano che i loro figli maschi, gli Incubi, non erano in grado di celarsi agli esseri umani, di apparire come uno di loro così da poter agire indisturbati, sedurre, e uccidere, senza lasciare alcuna traccia nel mondo degli uomini di un intervento soprannaturale. Eravamo rozzi, violenti, incapaci di trattenere i nostri istinti, se necessario, come invece sapevano fare loro. Per questo non ci era permesso di sopravvivere alla nostra adolescenza, e venivamo abbandonati in una zona remota e disabitata del mondo degli uomini, feriti e debilitati, così che quel mondo e le sue fiere compissero ciò che loro non intendevano fare. Nessun Incubo era mai sopravvissuto a quel trattamento.
Prima di me.

Legato e inginocchiato nella sala dei troni delle Succube, in attesa dell'esecuzione di una condanna rimandata troppo a lungo e sconvolto dal ricordo improvviso di una notte che precedeva di anni quella che rammentavo come il mio primo ricordo, finalmente capisco. Il mostro sanguinario che avevo cercato di imbavagliare e sottomettere con la chimica e con le pillole non era un estraneo che invadeva la mia coscienza, lasciandomi al termine di quegli attacchi a dover affrontare le conseguenze di ciò che lui, il mostro, aveva fatto, nelle ore che sfuggivano alla mia memoria. Il mostro, l'Incubo, ero io, e l'umano, Edgar Allen, era la maschera che indossavo per nascondermi nel mondo degli uomini.

sabato 25 settembre 2021

Pericope

Pericope [pe-rì-co-pe] s.f. 1. In filologia, breve passo estratto da un testo. 2. lit. Brano della Sacra Scrittura letto durante la messa.

Etimologia: dal latino tardo ecclesiastico pericŏpe, che a sua volta proviene dal greco perikopḗ, "ritaglio", derivato di perikóptein, "tagliare tutt'attorno", composto da perí, "intorno", e da kóptein, "tagliare".



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Mia madre era fermamente convinta che per essere delle brave persone, si dovesse andare in chiesa ogni domenica mattina, e alle feste comandate, e anche in altre occasioni speciali, e ascoltare con attenzione la pericope che il sacerdote leggeva con voce impostata, monotona, e una lentezza esasperante. Io ci provavo, perché volevo davvero tanto essere una bambina buona, ma qualche volta il baluginio delle mille candele sulle decorazioni d'oro delle statue dei santi, o i colori vivaci delle scene nelle vetrate mi distraevano, e mi sorprendevo a pensare alle storie d'avventura che Nessa mi raccontava in sussurri impetuosi nella notte, accompagnate da gesti vivaci, mentre io mi rannicchiavo sotto alle coperte, invece di riflettere sulle parabole che il sacerdote ripeteva senza alcun entusiasmo.
Mia madre mi dava uno schiaffetto sulle mani quando mi sorprendeva a fantasticare, e il suo sguardo severo era sufficiente a convincermi a trattenere le lacrime. Non dovevo piangere, perché mia madre era una brava persona, e io dovevo imparare a essere come lei.
Nessa era gentile con me, però quando andavamo in chiesa lei non veniva mai. Una volta, di ritorno dalla cattedrale, chiesi a mia madre se Nessa fosse una cattiva persona.
– No – rispose mia madre. – Ma Nessa è una serva, e deve andare nella sua chiesa.
Mi parve tanto strano, allora. Come se le brave persone dovessero essere brave in modo diverso. Io pensavo che da grande avrei voluto essere anche come Nessa, perché lei conosceva tante belle storie, e sapeva fare tante cose che mia madre non faceva mai. Ma grande non lo sono diventata, perché una notte il fantasma sotto al Tabarro Nero mi ha presa, e io non sono mai più stata una bambina umana. E forse tutte quelle noiose pericopi non mi sono servite a niente, perché da allora non sono nemmeno più stata una bambina buona.

giovedì 23 settembre 2021

Non è tempo di far domande


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Avrei dovuto capire che non era il caso di fare domande quando Jashira lasciò la strada di Circumdeserto per puntare con decisione verso le dune, con la sola guida di una bussola. O meglio, che ormai era troppo tardi per fare domande. Ma non lo capii e quelle domande io le feci lo stesso.
– Ehi, Jashy! Non è che stiamo sbagliando strada?
Sì, lo so. Qualcuno con un po' più di coraggio rispetto a me  non glielo avrebbe chiesto, lo avrebbe direttamente affermato. Ma io sono io, e Jashy aveva pur sempre dalla sua parte due enormi elementali che avrebbero potuto rispettivamente bruciarmi o congelarmi. A quel punto del nostro viaggio, appena all'inizio, prima che quello del ghiaccio si sciogliesse riducendo le sue dimensioni a meno della metà e che quello del fuoco cominciasse a vetrificarsi, quei due erano creature temibilissime.
– L'ago punta sempre verso Timing – tagliò corto Jashira. Una bussola magica: avrei dovuto immaginarlo. – Non possiamo perderci nemmeno se volessimo.
Evitai di dirle che in effetti potevamo perderci, volendo: bastava andare in una direzione diversa rispetto a quella indicata dalla bussola. Ma in effetti, finché avevamo quell'arnese, anche andando volutamente fuori strada era facile tornarci, in qualunque punto di quella distesa sabbiosa ci fossimo trovati. Il vento soffiava quel giorno, sollevando mulinelli di granelli gialli, e sebbene quell'alito battesse rovente sulla mia pelle, la sua sola presenza bastava a mitigare il caldo opprimente e asciugarmi il sudore dalla fronte.
– Sì, ma... Cortodeserto non è da quella parte? – indicai la direzione che avevamo appena abbandonato. Questa volta la domanda era d'obbligo, perché non ero del tutto certo di stare indicando dalla parte giusta. Ah, per chi non fosse mai stato a Timing: Cortodeserto era la strada ufficiale per raggiungerla, una via dotata magicamente di ogni comfort che tagliava dritta tra le dune fino a raggiungere la città di archeologi al centro del deserto.
Jashira, tallonata dalle sue fide guardie del corpo di fuoco e di ghiaccio, sbuffò. – Cortodeserto è da quella parte – rispose, correggendo leggermente le mie indicazioni. – Ma Timing è da quest'altra.
Jashy puntò il braccio dritto davanti a sé. Io guardai avanti, ma tutto quello che vedevo era sabbia, solo sabbia, ancora sabbia, con l'occasionale roccia affiorante dalla sabbia, e dello stesso colore della sabbia, e qualche ciuffo d'erba seccato dal sole vicino alle rocce, che se ne stava lì a morire tra la sabbia. Mandai giù: la mia fervida immaginazione ci aveva messo tutti nella stessa situazione di quei ciuffi d'erba, me, Jashy, e i suoi elementali.
– Sei sicura che ce la possiamo fare, Jashy? Io credo che sia una gran bella, o meglio brutta, scarpinata da qui, tu non credi? – le chiesi ancora, trascinando gli stivali sulla sabbia. I miei piedi stavano bollendo, e li immaginai come le patate che zia Rani buttava intere nell'acqua della zuppa, che lasciava sul fuoco finché non si erano completamente sciolte in una pappetta molle. Già me li sentivo un po' più malleabili quei piedi, e mi chiesi con orrore se con tutto quel caldo non avrei perso le dita.
– Sono sicura – replicò Jashira, caparbia come al solito.
Niente, non stava funzionando. Conoscevo molto bene Jashy, e questo era uno dei motivi per cui avevo formulato le mie obiezioni sotto forma di domanda, perché se le avessi detto chiaro e tondo che non ce la potevamo fare e che dovevamo tornare indietro, lei si sarebbe intestardita ancora di più nella sua idea malsana di attraversare il deserto a piedi. I bagagli di Jashira, che per il momento toccava a me portare in attesa che fosse il suo turno (cosa che, conoscendola, non sarebbe mai arrivata) pesavano parecchio, ma ero certo che non fossero completamente riempiti di acqua e di cibo. Azzardai un'ultima domanda, tanto per precauzione.
– E sei sicura che abbiamo abbastanza da bere e da mangiare per il viaggio?
Avevo sognato per una settimana le favolose oasi disseminate lungo la via di Cortodeserto, fornite di banchetti con ogni prelibatezza a disposizione dei viaggiatori. Ne avevo solo sentito parlare, perciò quando Jashy mi aveva proposto di accompagnarla, avevo accettato con entusiasmo. Non immaginavo che quelle oasi sarebbero rimaste nei miei sogni e basta, e io avrei avuto solo sabbia che si infilava tra i vestiti e mi pizzicava gli occhi, sospinta dal vento.
– Falla finita. Basta con tutte queste domande, cos'è, un interrogatorio? Viaggi in compagnia della migliore maga di tutti i tempi, non hai nulla di cui preoccuparti!
Non sapevo se lei fosse la migliore maga di tutti i tempi. Quello di cui ero certo era che lei lo pensava, e che comunque era la migliore maga che avessi mai conosciuto. Non deponeva a suo favore, però, che all'epoca di maghi io avessi conosciuto solo lei, la guaritrice del villaggio che sapeva giusto infilare qualche incantesimo utile tra i suoi decotti alle erbe, e vari ciarlatani che giravano tra i paesini di campagna.
– È una scorciatoia. Arriveremo prima che tu possa dire "ah". – Jashy, e i suoi due elementali, si girarono verso di me agitando un pugno ciascuno. – Non lo dire – aggiunse Jashira in tono minaccioso.
Non lo dissi. Invece, deglutii. Sapevo che non mi conveniva più fiatare a quel punto, perciò cambiai strategia.
– Va bene – mormorai, cercando di restare calmo mentre una vocina nella mia testa gridava "moriremo tutti!". Poi cercai di assumere un tono entusiasta, sempre a dispetto di quella vocina che aveva preso a urlare e basta. – Questa scorciatoia sembra un'ottima idea!
Di solito, concordare con lei la insospettiva e la induceva a considerare altre possibilità, perché se lei aveva sempre ragione, io ai suoi occhi avevo sempre torto. Invece, stavolta Jashira disse: – Visto? Arriveremo prima di tutti gli altri, segnati le mie parole.
Non le segnai. Avrei dovuto, per rinfacciargliele quando avrei scoperto, molto più tardi, che l'ago della bussola magica non puntava esattamente verso Timing, bensì verso gli oggetti magici che la città conteneva, recuperati dagli archeologi in un deserto che ne conteneva almeno il triplo, se non di più; di certo, abbastanza per far girare l'ago verso ogni oggetto magico sepolto nella sabbia a cui per caso ci avvicinavamo nel nostro girovagare.

lunedì 20 settembre 2021

Un silenzio che non era silenzio

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Foto di Elizaveta Dushechkina da Pexels


Gli aruspici questo non l'avevano predetto.
Non ci avevano mai avvertiti che un giorno sarebbe arrivato un predatore senza artigli e senza zanne, un predatore uguale a noi, che avrebbe invaso la nostra casa e arrossato del nostro sangue le caverne.
Sachara aveva organizzato una linea di resistenza all'imboccatura delle caverne, formata dai cacciatori più anziani, quelli per cui la lotta era finita ormai da molte stagioni. Erano stati i primi a cadere, ma non prima di essere riusciti a sfoltire un po' la schiera degli invasori. In loro, nonostante l'età avanzata, c'era ancora lo spirito del guerriero.
Il loro sacrificio aveva dato a Sachara il tempo di armare il resto del clan e sparpagliarci tra i cunicoli e le caverne che si aprivano nelle profondità della montagna. Chiunque sapesse camminare aveva ricevuto almeno un coltello di selce o un bastone, prima di andare a nascondersi. I bambini che ancora non sapevano farlo invece erano con le madri, che li avevano portati nel luogo degli spiriti, la grotta sacra dove solo gli aruspici osavano recarsi.
Gli aruspici, gelosi dei loro segreti, avevano protestato a questa decisione del capo del clan, ma Sachara era stato irremovibile. Il futuro del nostro clan era nelle mani degli spiriti, e solo loro avrebbero deciso se tenerli al sicuro e proteggerli dagli invasori, o se punirli per aver osato recarsi là dov'era proibito.
La ferita che mi aveva impedito di accompagnare i cacciatori assieme a Chu e alle altre sentinelle, se pure mi aveva permesso di essere lì dove c'era più bisogno di me all'arrivo dei nostri nemici e di dare l'allarme, non mi aveva consentito di trovarmi un nascondiglio migliore. Camminare, anche appoggiato all'asta della mia zagaglia, era una sofferenza straziante. Avevo disobbedito agli aruspici restando di guardia, e lo squarcio nella gamba non stava guarendo bene.
Era per questo che mi ero rifugiato nella cava dell'acqua, tra le più vicine allo sperone di roccia su cui fino a poco tempo prima ero appollaiato a osservare la pianura. Era un ambiente vasto, che somigliava alla bocca di un animale per le numerose zanne di roccia che si elevavano da terra e scendevano dalla volta frastagliata. Mi ero nascosto dietro una delle più larghe, spezzata dal tempo così che solo la base rimaneva, formando un rifugio in cui si poteva restare non visti soltanto se si stava seduti o accosciati. Alle mie spalle, la parete di roccia della caverna mi assicurava che nessuno mi avrebbe attaccato alle spalle.
Avevo sentito dire da una delle madri, una volta, che andare a raccogliere l'acqua in quella caverna troppo umida per essere abitata dal clan la inquietava a causa del silenzio che si riempiva d'echi a ogni sospiro. Per me, che fin da bambino avevo i sensi sviluppati di una sentinella, quel luogo non era mai stato silenzioso. Lo stillare delle gocce si ripeteva in ogni direzione, tanto frequenti e numerose che udite tutte assieme sembravano formare lo scroscio di un torrente. Era una pioggia continua, come quando scendeva l'acqua dalle nuvole. In alto, tra le zanne di roccia, abitavano creature alate che stridevano e strillavano nel volo tra i loro nidi. Le sentivo, anche adesso, dare la caccia a insetti ronzanti e ad altri che strisciavano con le loro mille zampette sulle pareti della caverna. Qualunque sentinella sapeva di non essere mai sola lì nella cava dell'acqua.
Il respiro della roccia era l'ultimo tra i rumori che in quel momento mi distraeva. Volevo ascoltare solo i passi dei nostri predatori, i loro suoni gutturali per poterli individuare nel buio e abbatterli a uno a uno, ma quell'alito freddo che sgorgava dai cunicoli in un basso lamento illudeva le mie orecchie. Inspirai l'odore muschiato delle macchie verdi e viscide che ricoprivano la roccia. Gli invasori, prepotenti, non facevano silenzio, al contrario di me, di Sachara che riuscivo a scorgere dietro un dente di roccia quando mi sporgevo cautamente dal mio rifugio, e di Ahru, uno dei bambini che si erano addestrati per la via dei cacciatori. Mancava solo una stagione al tempo della sua prova, e già cominciava a sembrare un adulto.
Gli invasori nella caverna erano rimasti in sei. Gli altri, a gruppi di due, si erano inoltrati nei cunicoli, o erano entrati nelle grotte asciutte. Erano sparpagliati, potevamo farcela. Stavo per dare il segnale ai miei compagni, quando accaddero due cose. La prima, fu che due dei loro esploratori tornarono trascinando una delle nostre madri, che si dibatteva urlando nella stretta di uno di loro. Non era arrivata in tempo al luogo degli spiriti, o aveva preferito non infrangere i divieti degli aruspici, e stava pagando cara la sua remora. Il piccolo era tenuto per i capelli dall'altro, e non emetteva un fiato.
Non capivo se ci stavano cacciando per mangiarci, ma questa era la nostra casa, e non ci saremmo arresi. Sachara, dal suo nascondiglio, era pronta a scattare, anche se i nemici erano diventati più numerosi. Ero pronto anch'io, ma in quell'istante i miei sensi colsero la seconda delle cose che accaddero. Le voci dei nostri compagni cacciatori, i loro richiami allegri risalivano il sentiero verso le grotte, precedendoli. Erano di sicuro carichi della carne delle prede, ingombrati dal loro peso e ignari della trappola che li attendeva nelle caverne. Dovevamo avvertirli.
Non era più tempo di restare nascosti, di fare silenzio. Presi la mia cerbottana dalla cintura e vi infilai un dardo. Presi la mira su uno degli invasori, ma esitai, e infine sollevai la cerbottana verso la volta della grotta e soffiai. Una delle creature volanti precipitò in una pozzanghera con uno spruzzo rumoroso. Fu sufficiente per attirare l'attenzione degli invasori, che si divisero per andare a indagare sulla fonte del rumore. Sachara e Ahru scattarono fuori dai loro nascondigli, e la caverna si riempì dell'eco delle grida. Avrei dovuto aiutarli, ma non potevo. La mia missione era diventata un'altra. Appoggiato alla zagaglia, arrancai più in fretta che potevo verso l'ingresso della caverna e quando vidi i primi barlumi di luce lanciai il grido di allarme che avevo già dato una volta quel giorno.
Intrusi!
Non potevo che augurarmi che Chu mi avesse sentito e i cacciatori corressero al più presto al nostro soccorso, perché già sentivo i passi dei crudeli predatori alle mie spalle e sapevo che ferita o no, entro pochi istanti avrei dovuto voltarmi e difendermi.

sabato 18 settembre 2021

Dinoccolato

Dinoccolato [di-noc-co-là-to] agg. Che ha movimenti sciolti ma poco coordinati, come se avesse le membra disarticolate; che è caratterizzato in tal senso.

Etimologia: participio passato del verbo dinoccolare, letteralmente "dislogare la nuca", dal latino dis, "separazione" e nocca, "nuca, giuntura", nel suo diminutivo noccola.



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Quand'era a terra, Nya marciava in modo sconnesso, lanciando braccia e gambe in tutte le direzioni, mentre le zampe di ragno che le spuntavano dalla schiena si affannavano a tenerla in piedi. Quell'andatura dinoccolata la faceva somigliare a una marionetta strattonata da invisibili fili. La prima volta che la vidi ebbi l'impressione che una forza esterna la muovesse, come se nel suo corpicino magro non ci fosse abbastanza energia per farlo. Mi voltai e chiesi al Ghiottone quale fosse il suo ruolo nel circo. Non riuscivo a immaginarla, sgraziata com'era, a compiere complesse acrobazie, camminare su una fune o far roteare le clavette.
Il ghiottone puntò il bastone in alto. – Durante gli spettacoli, Nya sta là.
Sollevai lo sguardo e cercai di scorgere qualcosa nella penombra che gravava sulla luce delle lanterne.
– Sul trapezio? – chiesi, indovinando la sagoma agganciata a una piattaforma.
– No, principe... – lo disse con un sogghigno, in un tono che mi parve canzonatorio più che rispettoso. Sapevo anch'io che l'essere figlio di mio padre in quel momento non mi dava alcun privilegio: erano rimasti in pochi a non considerarmi un bersaglio o una merce di scambio. Ero stato fortunato che il Ghiottone mi avesse trovato per primo, e lui non faceva che ricordarmelo.
– Nya lavora più in alto – proseguì lui. – Dietro le quinte, per così dire.
Mi avvicinai alla stramba ragazza ragno, le rivolsi un inchino e feci per presentarmi, ma prima di poterlo fare lei pronunciò il nome che il Ghiottone mi aveva assegnato per celare la mia identità.
– Lo sai che a volte sei proprio strano? – mi disse, come se mi conoscesse da sempre. Un lampo di divertimento passò dagli occhi umani ai numerosi occhi di ragno sulla sua fronte. Evidentemente il Ghiottone aveva già informato i suoi di trattarmi come se fossi parte della compagnia da tempo. Era più sicuro così, aveva detto.
Mi lasciai alle spalle la ragazza dinoccolata e seguii il Ghiottone verso quelli che sarebbero diventati i miei alloggi.

giovedì 16 settembre 2021

Un sorriso a primavera


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Foto di Andrea Piacquadio da Pexels


La primavera non era lontana, ma quest'anno sapevo che sarebbe stata differente. Oh, non per le solite cose che associamo alla primavera, no. I fiori ci sarebbero stati lo stesso. E gli uccellini avrebbero cantato dall'alto dei rami come ogni anno, e il sole sarebbe tornato a scaldarmi la pelle mentre le maniche si accorciavano sempre più nella lunga corsa verso l'estate. No, tutto quello che mi piaceva della primavera, il suo profumo da bucato appena steso ad asciugare, le piogge che rendevano l'aria frizzante, di quel freschetto piacevole, le giornate più lunghe, tutto questo ci sarebbe stato, come al solito.
Quest'anno, però, la primavera cambiava qualcosa nella mia vita. Quest'anno, lui sarebbe tornato. Sì, ero eccitata, ero super-eccitata. Ma anche agitata. Più si avvicinava il giorno del suo ritorno, più nervosa io diventavo. Mi stavo sforzando, disperatamente e con tutta me stessa, di non pensare al posto dove aveva passato l'inverno. Io ci ero stata per pochissimo tempo, e qualche volta avevo ancora gli incubi.
Dovevo avere fiducia. Dovevo pensare che lui era forte, e che non avrebbe permesso a quegli esseri di cambiarlo.
Ogni mattina, ancora prima di colazione, mi mettevo davanti allo specchio e facevo pratica di sorrisi. Quello che avrei avuto quando lo avrei rivisto. Quello che gli avrei rivolto mentre ci abbracciavamo di nuovo, per la prima volta, dopo tanti mesi. Quello che avrei esibito nello scherzare sulla natura del mio mezzo diavolo preferito. Ecco, vedi? Dicevo a me stessa. Ethan ancora non è tornato e tu riesci già a scherzarci sopra.
Alcuni giorni, però, mi soffermavo a riflettere davanti al mio riflesso. E allora pensieri cupi, tristi e spaventosi mi invadevano, e il mio sorriso diventava falso e strambo, come una primavera senza fiori e senza sole. E se... e se lui fosse invece davvero cambiato. Se fosse diventato un'altra persona, qualcuno che non sarei riuscita a riconoscere, non tanto nell'aspetto perché ormai lo sapevo che quello cambiava in base alle sue emozioni e ormai non doveva più nascondermelo, ma... se dentro, intendo, non ci fosse più stato quel ragazzo che leggeva in treno. Quella persona che in fondo era buona, anche se aveva tenuto tutti a distanza, ma appunto lo aveva fatto per non far loro del male, perché non voleva essere come quelli da cui era stato per tutto l'inverno, no, lui non voleva. Se non mi avesse abbracciato. Se non avesse scherzato assieme a me, o almeno fatto un piccolo, lievissimo sorriso alle mie battute sceme. Se mi avesse invece ferito, deliberatamente, anche solo con parole dure, come non aveva mai fatto, mai, nemmeno quand'era arrabbiato. Se avesse usato qualcosa di più delle parole per ferirmi. Se. Se. Se.
Il sorriso si incrinava di fronte all'attacco di quei terrificanti pensieri, ma era allora, quando me ne accorgevo, che cercavo di aggrapparmi a un pensiero felice, uno qualsiasi, e di rimettere a posto il volto che mi fissava dallo specchio, perché non volevo che lui mi vedesse così, no, non volevo che mi scoprisse così spaventata e triste. Il mio sorriso diventava in quel momento la mia armatura.
Non avevo mai capito, prima di questa primavera, quanto dolore potesse nascondersi dietro a un sorriso.

lunedì 13 settembre 2021

Il lago delle sventure

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Foto di Pavel Danilyuk da Pexels


La casa sul lago portava sfortuna.
Nel giro di un anno, era già il quinto funerale dei suoi residenti a cui la comunità era stata invitata a partecipare. E, tranne per quanto riguardava un unico caso, non si era trattato di persone anziane, prossime alla fine dei loro giorni. La donna a cui avevamo dato l'ultimo addio giusto quella mattina era giovanissima, anche più di me, e nel pieno della salute. Si era trattato di una fatalità, dicevano.
Era annegata nelle acque scure del lago: una disgrazia pura e semplice. Ma io sapevo che si era trattato di un delitto, poiché quella donna sapeva nuotare benissimo.
Lo sapevo perché quella donna era mia sorella, e quella casa apparteneva alla mia famiglia da generazioni. Secondo gli accordi, io sarei stata la prossima a prenderne possesso, e già la gente del posto mi guardava con sguardi contriti, bisbigliando alle mie spalle, forse scommettendo su quando la sventura avrebbe toccato anche me. Io sbirciavo quei mostri, cercando di non lasciar trapelare alcuno dei miei pensieri. Avevo osservato da lontano la faccenda, per molti mesi avevo seguito, non vista, le vite dei miei predecessori, prima di farmi avanti a reclamare la casa. Ero dunque certa che una di quelle brave persone fosse un assassino. Come poteva essere altrimenti?
Zio Kohl, fulminato da un asciugacapelli, non aveva un solo pelo in testa. La cugina Luyen, vegana convinta al punto da nutrirsi d'insalate d'alghe crude e poco altro, era finita avvolta dalle fiamme di una grigliata. Omnoe, il capostipite della famiglia, non aveva mai visto un medico in vita sua, eppure alla sua morte apparentemente naturale erano state ritrovate moltissime confezioni di farmaci sul comodino, alcune delle quali parzialmente svuotate. Poi c'era stato Ygran, il marito di mia sorella, morto in un incidente d'auto. Non aveva la patente. Neppure l'auto, sebbene a posteriori risultò a suo nome.
E infine mia sorella, che come tutti noi quand'era in acqua era nel suo elemento. Per chi la conosceva, la sua era stata la morte più assurda.
Vederla calare nella terra in una cassa di legno però mi parve ancora più strano. Noi non facevamo così. Mi si strinse il cuore al pensiero che la sua anima sarebbe soffocata laggiù al buio, lontano dall'acqua che aveva tanto amato. Sentii qualcuno mormorare alle mie spalle di quanto dovessi essere insensibile, poiché non avevo versato nemmeno una lacrima durante la cerimonia, e di quanto dovesse essere stata una sventura avermi come sorella per la povera Vesna, che non ero andata a trovare una sola volta, nemmeno alla morte del marito in quella disgraziata fatalità. Non sapevano che era stata lei a venire da me, a confidarmi i suoi sospetti. E io avevo accettato di aiutarla a porre fine a quella serie di sventure.
Presi possesso della casa nel pomeriggio, sistemai le poche cose che avevo con me, e mi concessi una cena leggera a base di pesce: d'altra parte, io non seguivo una dieta estrema come quella di Luyen. La notte calò presto, rendendo il lago uno specchio nero su cui le luci della casa si riflettevano, oscurando le stelle. La voce dei grilli e il gracidare delle rane mi avvolgeva e ovattava il fruscio dei miei passi già di per sé leggeri. Riuscivo a capire come mai la casa sul lago stimolasse così tanto le fantasie della gente del posto. Di giorno, uno stormo di corvi sorvolava i dintorni, lanciando all'improvviso richiami striduli come grida di dolore in lontananza. Di notte era il turno di gufi e civette, che nel buio, chissà dove, parevano sprigionare pianti di bambini, singhiozzi lugubri e acuti, mentre il nero profondo delle acque lambiva le sponde con lievi e umide leccate, seguite da un risucchio.
Avevo lasciato le luci e la televisione accese ed ero uscita dalla porta sul retro. La casa non distava che pochi metri dalle acque del lago, che mi chiamavano irresistibilmente. Ero nuda, ma non fu per pudore che mi mossi tra le ombre, senza far rumore, prima di scivolare infine nell'abbraccio di quelle acque scure. Se qualcuno stava sorvegliando la casa sul lago, non volevo che vedesse il mio corpo ricoprirsi di squame, le creste sul mio capo sostituire i capelli, le branchie aprirsi sul mio collo, la bocca farsi più larga e irta di zanne, e le pelle tendersi tra le dita munite di artigli.
Nuotai verso il centro del lago, fino a quel punto ormai noto da cui potevo tener d'occhio la casa senza timore di essere vista. La trappola era pronta, e chiunque avesse osato entrare di soppiatto avrebbe trovato ad attenderlo una brutta sorpresa. Non avevo mai fatto del male a nessuno, né mai lo avevo desiderato, prima di quel giorno.
Ci chiamavano "mostri della laguna", ma il vero mostro quella notte era chi, sulle sponde del lago, aveva scoperto il nostro segreto e sembrava fermamente intenzionato a sterminarci.

sabato 11 settembre 2021

Delatore

Delatore [de-la-tó-re] s.m. (f. -trice) Chi, tradendone la fiducia, denuncia qualcuno all'autorità; spia.

Etimologia: dal latino delatorem, da delatus, participio passato del verbo deferre, "portare da un luogo all'altro, riportare la notizia", composto dalla particella de, "di", e da ferre, "portare".



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Foto di cottonbro da Pexels


Non mi fidavo più di nessuno.
Chiunque fosse stato a conoscenza anche in minima parte del piano in cui ero coinvolto poteva farsi avanti e bisbigliare all'orecchio del presidente il mio nome. La testa di Antinoo era già rotolata, il suo sangue ancora fresco, e io sarei stato il prossimo. Ne ero convinto.
Il palazzo brulicava di delatori, arrivisti senza scrupoli, e qualcuno di loro poteva aver notato un dettaglio che mi incastrasse come parte di quel piano.
Dovevo andarmene, fuggire dalle sale opulente della reggia prima di essere annoverato tra i colpevoli. No, non potevo farlo. Scappare avrebbe solo attirato i sospetti su di me. Neron non mi avrebbe risparmiato, ne ero certo. Ormai non riconoscevo più l'uomo che avevo contribuito a mettere al comando. Un tempo ci saremmo guardati le spalle a vicenda, combattuto contro tutto il mondo se necessario. Poi, lui aveva ucciso la mia famiglia. Non potevo provarlo, perché lo aveva fatto in un modo subdolo, indiretto, ma io ero certo che fosse stato lui ad architettare quelle morti. Com'era potuto diventare un uomo così spregevole?
La bestia che teneva incatenata da qualche parte nei sotterranei. Quel mutaforma. In qualche modo, la sua malvagità doveva averlo corrotto, piegato la sua mente, e cancellato ogni traccia di umanità. Dovevo interrompere quel malefico influsso, forse non era tardi per salvare l'ultima persona che mi era rimasta al mondo, mio fratello.
Ma i membri della Resistenza non mi avrebbero creduto, non avrebbero capito. Loro non avevano visto com'era prima di portarsi in casa quella bestia, e come lo aveva cambiato. Dovevo farlo da solo.
Convinsi Neron a inserirmi nelle squadre di interrogatori, fu facile, per il momento si fidava ancora di me. In quel ruolo non avrei avuto problemi a fare domande, a sfruttare lo zelo di un delatore, qualcuno che sapesse dov'era rinchiusa la bestia e quando avrei potuto trovarla da sola, senza sorveglianza e senza testimoni, per poterla uccidere e porre fine a tutto questo.

giovedì 9 settembre 2021

Insania

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Foto di cottonbro da Pexels


– Un lugubre cimitero – mugugnai, sollevando la lanterna a illuminare lapidi oblique che emergevano da riccioli di foschia. – Immerso nella nebbia. Di notte.
Mi girai verso Robert, ed entrambi esclamammo, contemporaneamente: – Un classico!
Xari, che ci precedeva di un passo, ci zittì con nervosismo. Era ovvio che fosse agitata, lei non era tra i protagonisti di questo libro. Anzi, era un personaggio secondario così utile, che ci eravamo meravigliati che fosse sopravvissuta tanto a lungo.
– Sei sicura che si trovi qui?
Xari annuì in risposta a Robert. Ci aveva accompagnato per più della metà di quella caccia al tesoro, aiutandoci a decifrare indizi e a evitare le trappole, da quando il Professore aveva fatto quella malaugurata fine. Robert ed io non ce ne eravamo meravigliati: il Professore sapeva troppo. Il libro sarebbe stato lungo la metà di quello che era, se fosse stato il Professore ad accompagnarci in quella ricerca.
Passai in rassegna con lo sguardo le lapidi più vicine. Alcune erano illeggibili, altre riportavano date e nomi troppo strambi per non essere frutto di invenzione. Xari le oltrepassò e noi la seguimmo in punta di piedi, rabbrividendo nel vento che smuoveva le fronde autunnali che s'innalzavano nel chiaro di luna oltre il muro di cinta. Lontano, da qualche parte, bubolava un gufo, o forse più d'uno. Era tutto perfetto, tranne per un dettaglio.
Diedi una gomitata a Robert quando vidi Xari grattarsi il collo con insistenza, e tentare di allargarsi il colletto della blusa color avorio. – Ho visto! – sibilò Robert con sdegno.
Secondo gli appunti del Professore, quello era uno dei primi sintomi dell'Insania, la strana malattia che trasformava gli uomini, e le donne, in clown psicopatici e distruttivi assetati di sangue. Era seguito dal naso arrossato e da un'inquietante risatina isterica, e quelli erano tutti gli indizi che ci occorrevano per capire che un personaggio secondario stava per diventare un problema da risolvere.
Io e Robert ci avevamo scherzato parecchio quando era comparsa questa svolta nella trama. "Quando uno vuole scrivere una storia di zombie senza usare gli zombie..." era stato uno dei commenti. Oppure: "...chi ha scritto questo libro voleva proprio far morire dal ridere i suoi lettori!"
L'avevamo etichettata come una trovata ridicola finché non ci era capitato di affrontare un manipolo di malati di Insania all'ultimo stadio e di dire addio, nel corso dello stesso capitolo, al Professore in una scena toccante.
– Da questa parte – ci spronò Xari, incamminandosi lungo una fila di lapidi. Noi cercavamo di non starle troppo vicini, dato che l'Insania era contagiosa per contatto. Sarebbe stato ironico arrivare all'ultimo capitolo da protagonisti, garantendoci l'immunità dalle morti stupide che colpivano i personaggi secondari, solo per crepare da eroi.
Xari si fermò e indicò una delle lapidi, mentre uno scenografico colpo di vento ci investì sollevando mulinelli di foglie e turbinii di nebbia. – Eccola. La Cura – pronunciò in tono cupo. Alle sue parole fece seguito una risatina. Io e Robert ci guardammo.
– Puoi... puoi spostarti, per favore? Abbiamo bisogno di spazio, grazie – le chiesi, ma Xari incrociò le braccia e ci fissò da sopra il naso paonazzo con occhi che parevano già folli.
– Sta procedendo in fretta – bisbigliò Robert a labbra strette, proteso verso di me.
– Lo so – replicai, nella medesima maniera. – D'altra parte, ha esaurito la sua utilità... era prevedibile.
Rivolsi a Xari un sorriso forzato, ma molto molto ampio, e le ricordai, indicando me e Robert: – Chi sono i Prescelti Guaritori, qui?
Xari sciolse le braccia e si allontanò di qualche passo, mezzo sbuffando e mezzo ridendo. Una volta sgombrato il campo, noi due ci precipitammo a togliere le erbacce dalla lapide per leggere l'iscrizione al chiarore della luna piena e della lanterna.
– Ma è... – mormorai a Robert, stupito quanto me.
– È la canzone? – completò lui.
– Si direbbe di sì.
– Sai una cosa? Questo libro diventa più ridicolo ogni pagina che passa. Che cosa dovremmo fare, cantarla?
Feci spallucce. – Proviamo.
Fu a quel punto, mentre stavo prendendo fiato per intonare quella cura musicale, che Robert alzò la testa e chiese: – Aspetta un attimo. Dov'è andata Xari?
Mi guardai attorno. Nessuna traccia di lei.
Le campane della cappella in fondo al cimitero emisero un lugubre rintocco, facendomi trasalire. Poi un altro. E un altro ancora.
Fra un rintocco e l'altro, l'eco di una folle risata.
Là, inquadrata nella porta aperta della chiesetta, c'era un clown vestito di colori vivaci, con le vaghe sembianze di Xari sotto al trucco che le impiastricciava il volto. Tra le mani, un grosso martello che però non era affatto di gomma.

lunedì 6 settembre 2021

Memorie dal mondo di prima

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Foto di Rodolfo Clix da Pexels


L'edificio pareva reggersi a stento, e non era più una casa da molto tempo. Era comunque meglio che stare allo scoperto.
Shana ci ordinò di seguirla su per le scale, perché ai piani inferiori la costruzione era sventrata come una carcassa spolpata fino all'osso, e offriva tanta copertura tra i suoi pilastri quanta ne davano i tronchi della foresta che era cresciuta prepotente tra le strade della città abbandonata. Il secondo piano, dal lato nord, conservava ancora le pareti esterne, sebbene le finestre fossero ormai solo un ricordo, e al loro posto non erano rimaste che le orbite vuote di un teschio. Il vento vi soffiava attraverso, sollevando la polvere dal pavimento e facendo dondolare i brandelli della vecchia carta da parati strappata.
Calcammo le assi di legno scricchiolante, tendendo l'orecchio a ogni rumore che non provenisse dai nostri passi leggeri, ma il fruscio delle foglie all'esterno, l'ululato del vento, i canti degli uccelli che non si curavano del conflitto in corso e l'occasionale ronzio delle mosche erano sufficienti a distrarci e a coprire il respiro di un eventuale estraneo. Con la punta dello stivale colpii qualcosa tra la polvere d'intonaco piovuta a terra dal soffitto scrostato, mi bloccai e abbassai lo sguardo. Gettate alla rinfusa, come cadute dalla vicina libreria semidistrutta, giacevano a terra un mucchietto di fotografie scolorite dal sole. Un gruppetto di bambini, tanto simili da sembrare fratelli, rincorrevano il tempo tra i vari riquadri, che li vedevano ora in posa, ora rilassati nel gioco, a volte assieme, altre da soli o in compagnia di uno o più adulti. Scostai con il piede le prime foto per sbirciare quelle sottostanti: neonati e adolescenti che erano la stessa persona, frammenti di memoria fissati per sempre nello spessore di un foglio di carta. Quei ragazzini erano adulti ormai, e mi chiesi se almeno qualcuno di loro era stato tra i fortunati che si erano imbarcati su una delle tre Caravelle, le navi generazionali che avevano lasciato la Terra in cerca di mondi più pacifici, o se quelle foto fossero tutto ciò che rimaneva di loro. So che non era una cosa bella da pensare, ma una parte di me sperò di sì, che non fossero sopravvissuti, se mai erano rimasti sulla Terra. Perché ora che avevo visto il loro passato, che mi erano diventati in qualche modo familiari, non avevo alcun desiderio di scontrarmi con loro. Non sarei mai riuscito a farli ragionare.
Non ricordavano più per che cosa stavano combattendo. Gli abitanti del pianeta sapevano solo che c'era un Noi e c'era un Loro, e che quel Loro per forza doveva essere formato da gente ostile e pericolosa, perché Loro erano diversi.
Non ricordavano che una volta eravamo stati dalla stessa parte contro un nemico mortale e inumano.
Walden! Non distrarti!
Sollevai lo sguardo su Shana: il suo pensiero era brusco e autoritario come al solito, e in un istante mi richiamò alla missione. Non scendevamo di frequente sulla superficie, avevamo una nave in orbita che era diventata la nostra base e solitamente le battaglie si svolgevano a bordo di navicelle attorno al pianeta, ma ogni tanto Maedbe o qualcun altro del suo Shanekth individuava una "zona cieca", un vuoto tra i pensieri degli esseri umani sopravvissuti su cui valeva la pena di indagare.  Quei vuoti generalmente ci indicavano la presenza di qualcuno della nostra specie, uno di noi cresciuto come un essere umano, che credeva di essere umano, e che aveva imparato a schermare la sua mente dietro una solida barriera fin da piccolissimo per evitare di impazzire in preda ai pensieri di chiunque altro lo circondasse. E quella era l'ipotesi migliore.
L'ipotesi peggiore, quella che tutti noi temevamo, era che prima o poi coloro che ci avevano dichiarato guerra imparassero a proteggersi dalla nostra capacità di leggere la loro mente. Finora la nostra superiorità in questo campo, l'abilità di anticipare le mosse degli esseri umani, ci avevano consentito di proteggerci limitando i danni in entrambi gli schieramenti. Se avessimo perso quel vantaggio, non saremmo più stati in grado di controllare le sorti di quella guerra inutile.

sabato 4 settembre 2021

Triviale

Triviale [tri-vià-le] agg. 1. Volgare, grossolano. 2. non com. Banale.

Etimologia: dal latino trivialem, da trivium, "trivio, incrocio di tre strade", ovvero un luogo molto frequentato, dove si incontrava il popolo, le persone comuni, i plebei.



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Quelle rare volte in cui Cerre era costretto a mescolarsi alla plebe, si tappava il naso e sbirciava attorno con sussiego. Si sarebbe tappato pure le orecchie, se avesse avuto abbastanza mani, ma non avendole gli toccava sopportare di malavoglia che il suo udito venisse offeso dal berciare dei mercanti e dalle volgarità della folla. Sbuffò avendo cura di non farsi toccare da alcuno dei mendicanti che gli si avvicinavano, notando le sue vesti eleganti, e che venivano prontamente allontanati dai siahta che scortavano il cortigiano.
– Quale rozza sconcezza! – si lamentò quando lo sguardo gli cadde sul davanzale prosperoso di una pescivendola, lasciato in vista da una scollatura profonda. C'era da dire che Cerre si era soffermato a guardare, com'era ovvio, ma non lo avrebbe mai ammesso. – E povere le mie orecchie, che voce sgraziata! Come se questi triviali richiami potessero rendere più fresco il pesce vecchio di giorni, o, o... – Cerre scorse un mercante che litigava con un cliente sulla qualità delle stoffe in vendita. – O trasformare della volgare iuta in preziosissima seta! Umpf!
Le sue esternazioni cominciavano ad attirare attenzioni non volute, perciò Cerre si affrettò ad accelerare il passo. Oltrepassò un oratore in piedi su una cassa che arringava la folla con argomenti triviali, i soliti discorsi sulle tasse troppo alte, la guerra, i prezzi del pane, i delinquenti che le guardie lasciavano liberi per le strade. La gente urlava indignata, ma fortunatamente Cerre era ormai lontano, quasi arrivato a un'anonima porta di legno che si apriva sulla via. Si guardò attorno con circospezione prima di bussare tre volte secondo il codice noto. Dall'interno, il venditore di veleni gli chiese: – Il tuo padrone ti ha mandato a prendere un altro po' della mia medicina, eh? Di chi deve liberarsi stavolta?
– Sta' zitto e fammi entrare, idiota! – borbottò Cerre. Se qualcuno lo avesse notato, la colpa di ciò che Solemestis avrebbe fatto con il veleno sarebbe ricaduta su di lui.

giovedì 2 settembre 2021

Senza respiro

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Non era la prima volta.
La sensazione era sempre la stessa: avvertivo un peso sul petto, un sigillo che mi serrava le labbra. Nonostante il freddo, e il vento gelido che risuonava come un ululato nelle mie orecchie, non una sola nuvoletta di vapore si condensava dinnanzi ai miei occhi. In quel sogno, o mondo parallelo, io non respiravo affatto.
La prima volta era accaduto per caso. Era stata una giornata pesante, avevo saltato il pranzo, e faceva veramente tanto caldo. Sono svenuta, così mi ha raccontato la mia amica Carly - Carlotta, sulla carta d'identità, ma guai a chiamarla in quel modo! - e lei che mi aveva soccorso racconta che si era spaventata parecchio, non sentendomi respirare. Avevo visto un prato in fiore, quella volta, e la sponda di uno stagno, ma non avevo fatto in tempo a specchiarmi nelle sue acque che già ero tornata indietro, nel mio corpo.
Era un miracolo, dopo lo spavento che si era presa, che fossi riuscita a convincere Carly ad aiutarmi a rimettere piede in quell'altra realtà. Avevamo provato diverse combinazioni di meditazioni, candele e cristalli e tutta quella roba New Age, finché non avevamo trovato quella giusta che mi aveva permesso di riprodurre lo svenimento e l'assenza di respiro. Carly vegliava su di me e mi svegliava, dapprima dopo pochi istanti, poi sempre più tardi.
Mi guardai attorno. Se la sensazione era sempre la medesima, il luogo mutava ogni volta che vi facevo ritorno, e non avevo ancora capito se si trattasse di dimensioni diverse, o di zone differenti della stessa terra. Di fronte ai miei occhi, fiocchi di neve volteggiavano lievi nel blu notturno, al di là di una serie di finestre bifore e trifore, alte e strette e prive di vetri. Mi avvicinai per affacciarmi: sembrava di essere molto in alto. La luna piena rischiarava le cime degli alberi e una terra completamente imbiancata, giù in fondo. Mi trovavo in una torre.
Portai ma mano al petto, pur sapendo che la sensazione di oppressione, per quanto fastidiosa, non mi avrebbe uccisa. Mi voltai per indagare cosa contenesse il resto della stanza, e trasalii a un movimento che mi apparve improvviso davanti. Mi tirai indietro di fronte a un'onda bianca che sembrò aggredirmi, come se il vento impetuoso avesse soffiato una tempesta di neve verso di me. Dopo qualche istante, però, mi accorsi che si trattava di una civetta bianca, appollaiata sul davanzale di sinistra, che ogni tanto batteva le ali silenziosissime. Avrei sospirato di sollievo, se mi fosse stato possibile; tutto quel che potevo fare era sollevare le spalle.
Voltai la schiena alla civetta e al candelabro dalle fiamme ballerine che cercava inutilmente di rivaleggiare con il chiarore della luna. Da solo, quest'ultimo era sufficiente per permettermi di vedere le file di colonne blu dai motivi a spirale, che dal mio angolo sembravano ripetersi, una dietro l'altra, all'infinito. Non riuscii a vederne la fine, né il soffitto immerso nell'oscurità, però almeno il pavimento di mosaico sembrava abbastanza solido da permettermi di esplorare l'immensa sala. Mi inoltrai tra le colonne, consapevole che non potevo perdermi, perché in fondo io nemmeno ero lì. Al momento opportuno, Carly mi avrebbe riportato indietro, perciò non avevo nulla da temere.
Bastò poco, giusto un'eco, per smentire quell'affermazione e incrinare la mia sicurezza.
"...Isa, ...Isa, ...sa, ...sa, ...a."
– Chi va là? – urlai, improvvisamente spaventata. Sembrava che l'eco avesse ripetuto il mio nome, ma no, non era possibile. Tante parole finivano in quel modo. Precisa, ad esempio. O divisa. Indecisa, recisa, condivisa, derisa... uccisa.
– Narcisa – disse una voce diversa, maschile.
Se non fossi stata già con il fiato trattenuto, al suono di quel nome avrei smesso, anche solo per un istante, di esalare il respiro. Era così... giusto, anche se non era il mio.
Colsi un movimento con la coda degli occhi e mi girai di scatto, ma non c'era niente. Poi dall'altro lato, e poi di nuovo alla mia sinistra, ma ogni volta che mi giravo, non riuscivo a scorgere quell'elusiva figura. L'eco ripeté sprazzi di una risata di donna, e io mi chiesi se non fosse di nuovo la civetta, che mi aveva seguito e aveva preso a volteggiare tra le colonne come in cerca di una preda. Le colonne...
Ecco dov'era.
Fissai la più vicina delle colonne lucidate a specchio, e lo vidi. Era come il mio riflesso, ma diverso. La somiglianza era impressionante, ma lui non era me. Ed era in tutte le colonne, a dire il vero, pareva come intrappolato all'interno di quelle spirali ascendenti ma non avevo dubbi che fosse la stessa persona, perché ognuno di loro eseguiva lo stesso movimento, sincronizzato. Mi avvicinai alla colonna che avevo davanti e tesi la mano, ma lui indietreggiò e si allontanò dalla superficie lucida, scuotendo la testa.
In quell'istante, ripresi a respirare.
Non vedevo nulla, ma la sensazione di oppressione al petto era sparita; sotto di me avvertivo la coperta stesa sul pavimento e il cuscino che mi sosteneva la testa. Aprii gli occhi e mi alzai a sedere di scatto. Il quarzo posato sulla mia fronte scivolò via e mi atterrò in grembo.
– Ok, ok, piano campionessa – mi disse Carly, inginocchiata al mio fianco con un cronometro in mano. – Respira... prenditi tutto il tempo... Come ti senti, Isa? Tutto bene?
Sbirciai divertita la sua pantomima: Carly, come avesse avuto paura che non sapessi più come si faceva, accompagnava le sue parole con profondi respiri e ampi gesti delle mani. Le sorrisi, e annuii.
– Quanto sono stata via, stavolta? – indagai.
Carly mi mostrò il cronometro. – Trentatré minuti e cinquantasette secondi. Comincio a credere che tu non sia umana.
– Comincio a crederlo anch'io.
Carly mise da parte il cronometro e si sedette a gambe incrociate. – Allora, racconta. Dove sei stata stavolta?
Lo facevamo sempre. Ogni volta che tornavo da uno di quei viaggi - li chiamavo così, in mancanza di un termine migliore - le raccontavo ogni cosa. Ma quella volta aggrottai la fronte, cercando di riacciuffare dettagli nebulosi che si facevano sempre più distanti.
– Sai che... sai che non lo so? – confessai infine. – È strano, ma non riesco a ricordarmi niente.
Carly mugugnò. Si allungò a toccarmi la fronte, poi sbirciò il cronometro, e infine sentenziò. – Forse ci stiamo avvicinando al tuo limite. Io direi di non rischiare, e la prossima volta fermarci prima della mezzora.
Concordai con lei. Quei viaggi erano divertenti, ma non ci tenevo affatto a smettere di respirare in maniera permanente. Riponemmo tutti i cristalli, le candele, gli incensi e il resto del materiale, e una volta che mi fui cambiata per uscire, ce ne andammo a fare un po' di sano e normalissimo shopping.