lunedì 27 settembre 2021

Luna di sangue


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La notte era viva. Brulicava e strisciava e gemeva e urlava e brancolava nel buio.
In cielo, una luna di sangue arrossava l'oscurità in un bagliore scarlatto.
Una donna, una bella donna, occhi di ghiaccio e un volto graffiato a sangue da chissà quale immonda creatura. Se ne stava in piedi, sopra di me, altera e sprezzante, mentre mi teneva giù con un piede posato sul mio stomaco. La sua forza era immensa, tale da schiacciarmi a terra con una pressione che sembrava essere, per lei, priva di sforzo. Alle sue spalle si allargavano un paio d'ali di pipistrello, cupe e venate da striature rosso sangue, simili a quelle che deturpavano il suo volto.
Aveva combattuto molto, quella donna. I suoi nemici erano morti, lei no. E in quel momento mi sovrastava con la dignità di una regina, come se io fossi stato solo un altro dei tanti avversari che avevano osato sfidarla.
Ma io non ero il suo nemico. Ero suo figlio.
Nel brulicare e frinire e ululare delle creature che erano fuggite da noi al nostro arrivo in quella distesa d'erba seccata dal sole, che ancora non conoscevo con il nome di savana, la donna, una Succuba, si chinò su di me e mormorò con voce sensuale: – Sai perché sei qui, cucciolo.
Ringhiai e ruggii, sollevando le mie mani dalle dita nere, che terminavano in artigli, per cercare di graffiarle la caviglia. Non mi era mai stato insegnato a parlare. Non era necessario che io fossi in grado di comunicare nella maniera degli uomini.
La Succuba non si scompose ai miei tentativi di ferire la sua carne immacolata, dura quanto il granito. Le bastò un colpo con l'estremità uncinata di una delle sue ali per scacciare le mie braccia e provocare un taglio profondo. Il sangue sgorgò copioso, rosso, a tingere l'erba secca della savana. Subito mi portai le braccia al volto, sporcandomi le guance e il mento mentre leccavo la ferita. Tutto quel sangue sprecato.
La Succuba si erse ritta e sollevò il volto alla luna piena, tinta di un macabro rosso. La fissai anch'io, perché quella luna di sangue era il mio unico appiglio. L'unico dettaglio in quel mondo estraneo che mi ricordava il mio mondo, quello in cui ero nato e cresciuto: quella luna così simile alla nostra, mentre tutto il resto era per me alieno. Aliena era la terra morbida sotto le ali che lei aveva straziato, che sentivo cedere come se avesse voluto inghiottirmi; alieni erano i continui strepiti e grugniti e fischi delle innumerevoli creature che non vedevo, ma che sentivo dilaniarmi le orecchie con il loro cacofonico canto; aliena era perfino l'aria, che mi ammorbava le narici con miasmi sconosciuti, tanto da renderla irrespirabile. Era la mia prima volta nella terra degli uomini, e sarebbe stata anche l'ultima. Mia madre mi aveva portato lì per morire.
Tutte le Succube sapevano che i loro figli maschi, gli Incubi, non erano in grado di celarsi agli esseri umani, di apparire come uno di loro così da poter agire indisturbati, sedurre, e uccidere, senza lasciare alcuna traccia nel mondo degli uomini di un intervento soprannaturale. Eravamo rozzi, violenti, incapaci di trattenere i nostri istinti, se necessario, come invece sapevano fare loro. Per questo non ci era permesso di sopravvivere alla nostra adolescenza, e venivamo abbandonati in una zona remota e disabitata del mondo degli uomini, feriti e debilitati, così che quel mondo e le sue fiere compissero ciò che loro non intendevano fare. Nessun Incubo era mai sopravvissuto a quel trattamento.
Prima di me.

Legato e inginocchiato nella sala dei troni delle Succube, in attesa dell'esecuzione di una condanna rimandata troppo a lungo e sconvolto dal ricordo improvviso di una notte che precedeva di anni quella che rammentavo come il mio primo ricordo, finalmente capisco. Il mostro sanguinario che avevo cercato di imbavagliare e sottomettere con la chimica e con le pillole non era un estraneo che invadeva la mia coscienza, lasciandomi al termine di quegli attacchi a dover affrontare le conseguenze di ciò che lui, il mostro, aveva fatto, nelle ore che sfuggivano alla mia memoria. Il mostro, l'Incubo, ero io, e l'umano, Edgar Allen, era la maschera che indossavo per nascondermi nel mondo degli uomini.

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