lunedì 29 ottobre 2018

Sfida numero 9 - Piuma di Fringuello

Continua la serie di sfide a difficoltà variabile, facile, intermedio e difficile. Il meccanismo è semplice: ti proporrò tre livelli cumulativi, con istruzioni man mano più complesse e specifiche. A te scegliere se completare il livello più semplice, aggiungere le indicazioni di quello intermedio o seguire tutte le istruzioni per arrivare al livello difficile.

Se hai perso le prime sfide e vuoi recuperarle, le trovi qui:
Sfida numero 1 - Piuma di Passero
Sfida numero 2 - Piuma di Merlo
Sfida numero 3 - Piuma di Piccione Viaggiatore
Sfida numero 4 - Piuma di Colibrì
Sfida numero 5 - Piuma di Gabbiano
Sfida numero 6 - Piuma di Pappagallo
Sfida numero 7 - Piuma di Gallo Combattente
Sfida numero 8 - Piuma di Corvo


Se sei pronto, si comincia con la sfida di oggi!

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Sfida numero 9

Nanowrimo è dietro l'angolo, quindi... ho in mente una sfida un po' più leggera, senza troppi vincoli. Qualcosa di multiforme e adattabile come le tante differenti specie di fringuelli. Completandola, vincerai una virtuale Piuma di Fringuello, di bronzo, d'argento o d'oro a seconda del livello scelto.

Livello facile: scrivi senza fermarti per quindici minuti. Fai una pausa di cinque minuti. Scrivi per altri quindici minuti senza interruzioni.
Niente tema stavolta, scrivi pure di quello che preferisci. Se ti serve qualche suggerimento, puoi continuare un racconto che hai lasciato da parte, iniziare quella nuova storia che rimandi da tempo, o scorrere tra gli esercizi che ho proposto in passato in cerca di ispirazione. Se ti fermi al livello facile puoi inoltre semplicemente mettere per iscritto i tuoi pensieri, quello che hai fatto oggi, come se scrivessi un diario. Fidati, anche solo riordinare le idee a volte aiuta.

Livello intermedio: scegli due generi letterari per il tuo brano. Per i primi quindici minuti, scrivi la storia come se appartenesse al primo genere. Per i successivi quindici, passa al secondo genere a cui hai pensato.
Fantasy, giallo, romantico, avventura, horror, commedia, fantascienza, drammatico, thriller, favola... tanto per citarne alcuni. Più distanti saranno i due generi tra loro, maggiore sarà la difficoltà, ma... il risultato potrebbe sorprenderti.

Livello difficile: oltre al genere letterario, dopo la pausa cambia anche il punto di vista.
Puoi scegliere come narratori due personaggi diversi, passare dalla prima persona alla terza o viceversa... ricordati solo di andare a capo e di saltare una riga per segnalare a chi legge il cambio della voce narrante.


Aspetto i tuoi commenti, suggerimenti o il brano che questo nuovo tipo di esercizio ti ha ispirato a scrivere. Come al solito avrai la possibilità, se lo desideri, di mettere sotto i riflettori le tue parole nel post di giovedì della settimana prossima. Riuscirci è semplice: ti basta sorprendermi!

sabato 27 ottobre 2018

Uggia

Mi meraviglia scoprire quanti sinonimi di noia esistono, quante sfumature può avere una sensazione, e in particolare questa che pare così unidimensionale e sempre la stessa, noiosa vecchia noia ogni volta che la si prova...

Uggia [ùg-gia] s.f. (pl. -ge) Senso di fastidio e di noia, tedio. || Avere, prendere in uggia qualcuno, averlo, prenderlo in antipatia. | Venire in uggia a qualcuno, diventargli antipatico.

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Per questo brano ho cercato di pensare alla rovescia. Si dice spesso che un giorno di pioggia è uggioso, e oggi piove, e sarebbe stato fin troppo facile estrarre un'immagine dalla realtà che sto vivendo e portarla sulla pagina. Ma se invece a essere uggiosa fosse una bella giornata estiva? Fortunatamente ho proprio il personaggio che fa al caso mio.


– Io mi annoio – si lamentò Vanessa, occhieggiando la tenda di velluto porpora che bloccava ogni traccia di luce dall'esterno. Si appoggiò alle pieghe con la testa, allungò una mano e la tirò verso di sé quel tanto che bastava per disegnare una striscia di sole sul pavimento. Mollò la presa. Sbuffò. – Voglio uscire. Per quanto durerà ancora?
Vanessa si girò verso Dimitri e avvertì l'insofferenza del padre unirsi alla propria. – Cerca di fartela passare – replicò lui in tono scontroso. – La radio non ha previsto pioggia, e io non sono un dannato indovino.
Vanessa sospirò e rimase immobile, abbandonata contro la tenda come una bambola di porcellana in un vestitino di raso e merletti neri. I lunghi giorni d'estate, con i cieli limpidi, il calore e la luce accecante, ammantavano la vita nella casa buia di una coltre d'uggia pesante quanto le tende. Per alleviare il tedio, Vanessa immaginava gole squarciate, e fiotti di sangue, e il sapore di rame che le scendeva in gola, placando allo stesso tempo la sete e il desiderio. Accarezzava il rubino sul suo pugnale e attendeva la notte, quando sarebbe uscita a caccia con il padre.
Dimitri si leccò le labbra, inebriandosi delle fantasie truculente della figlia, prima di porvi freno.
Vanessa alzò gli occhi nel comprendere che il padre le avrebbe negato l'agognato diversivo. – Perché no? – chiese in tono ostile.
– Ho un appuntamento – replicò Dimitri. Dentro di lui, la rabbia di Vanessa si scontrò con un muro di freddezza. – E tu ti sei saziata abbastanza ieri notte. Non fare l'ingorda. Non possiamo permetterci di essere notati.
Vanessa strinse la tenda coi pugni e strillò. Sapeva che l'appuntamento di Dimitri non era cibo, o il padre l'avrebbe portata con sé. No, quella donna era qualcos'altro, era qualcuno che voleva insinuarsi nella loro vita perfetta e cambiarla, qualcuno che si sarebbe messo tra lei e suo padre e glielo avrebbe portato via. Ancora non la conosceva, ma più che averla in uggia, Vanessa sentiva già di odiarla.

giovedì 25 ottobre 2018

Il portadisperazione

(racconto ispirato alla Sfida numero 8. Questa volta l'idea mi è arrivata da una conversazione con un'amica, un gioco di parole su un cofanetto portagioie/portatristezze. Ho deciso di scrivere il racconto come avevo suggerito, con la musica potente di Una notte sul Monte Calvo di Musorgskij, da sola nella mia stanza, a oscurità calata.)


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Quando aprii la porta della cucina, non potevo crederci: la scatola era là, sul tavolo.
– No... non è vero. Non può essere... – balbettai, la voce debole quanto le mie gambe. Mi aggrappai alla maniglia mentre la disperazione calava cupa come un'ombra nel mio cuore.
Me n'ero liberata sette anni prima, nell'unico modo possibile: regalando il cofanetto e la sua maledizione a qualcun altro.
Mia madre aveva tentato per tutto il tempo della mia infanzia, inutilmente, di disfarsi del nefasto dono che avevo ricevuto per il mio battesimo. Io non mi ricordo quante volte lo ha buttato nell'immondizia, o gettato a bruciare nella stufa, solo per ritrovarlo intatto, poche ore dopo, nella mia stanza. Io non me lo ricordo, perché tutto ciò che rammento dei miei primi anni era il dolore. Non era un dolore fisico, non avevo male allo stomaco, o alle braccia, o alla testa. E nemmeno al cuore, non quello dei libri di anatomia, almeno. Ma, nel mio limitato vocabolario dell'epoca, non avevo altra parola per descrivere come mi sentivo ogni minuto di ogni ora di ogni giorno.
Male da morire. Male da voler morire.
La colpa del mio malessere era tutta di quel dannato portagioie... anzi, no: portadisperazione. Così lo aveva chiamato la sensitiva che mia madre aveva invitato in casa nostra, su consiglio di una zia mezza matta. Era stata la sensitiva a suggerire la soluzione, a dirci che non poteva essere distrutto, che era mio per tutta la vita, o finché non lo avessi regalato a qualcun altro.
E così facemmo. Impacchettato e infiocchettato, il portadisperazione si allontanò da me con uno sconosciuto incontrato per strada.
E io cominciai finalmente a vivere.
Questo fino al giorno in cui non aprii la porta e non lo trovai sul tavolo della cucina. Le gambe mi cedettero e scivolai a terra, mi rannicchiai sul pavimento freddo e mi coprii il volto con le mani. Erano passati anni, ma mi sentivo di nuovo come allora: impotente, angosciata, inutile, vuota. L'unica differenza era che avevo imparato le parole per descriverlo. Avvertii a malapena le lacrime che mi bagnavano le guance, i singhiozzi che mi scuotevano. Tra le dita, la mia vista appannata era fissa sul cassetto dei coltelli. Lunghi, seghettati coltelli.
No, le differenze erano due. La me stessa bambina non aveva avuto la forza di mettere in pratica tutte le brutte idee che le passavano per la testa. Io, al mio diciottesimo compleanno, ero grande abbastanza per sapere che lo volevo.
Non ero niente, se non dolore. E allora, avrei preferito non esistere.
Aprii il cassetto dei coltelli. Scelsi il più grande, il più affilato. Mi sedetti a tavola, di fronte al cofanetto, e appoggiai il braccio sinistro col polso rivolto in alto.
– Siamo solo tu e io, com'era una volta – bisbigliai alla scatola. – È questo che vuoi, vero? Mi lascerai in pace... mi lascerai in pace, dopo?
Sollevai il coltello. Ero pronta a farlo.
– Cristina! No! – La voce di mia madre giunse ovattata alle mie orecchie. La sentii abbracciarmi, e la sua mano che forzava il mio braccio di lato, mentre calavo la lama verso il polso.
Il coltello si piantò sul cofanetto e lo spaccò a metà.
Nel giorno del mio diciottesimo compleanno, mia madre mi aiutò a fare a pezzi il portadisperazione e a spargere al vento le sue schegge maledette. Ma io sapevo che non sarebbe servito a niente.
– Tornerà – le sussurrai. – Sono condannata. È mio, ormai, per tutta la vita. Qualunque cosa io faccia, tornerà sempre da me.
Mia madre mi guardò con l'espressione caparbia che aveva sempre avuto, ogni volta che lo gettava tra le fiamme e lo guardava bruciare, e disse quattro parole che scacciarono il vuoto da me. – E noi saremo pronte.

lunedì 22 ottobre 2018

Il rumore della pioggia

(racconto ispirato alla Sfida numero 8. Ho scelto di scrivere questa scena da sola in una stanza con la porta chiusa, ascoltando l'inizio di questo mix di Dark Music World, non ho usato le parole proibite anche se sono quasi scivolata in un "urla di gioia" che ho trasformato in una risata appena me ne sono accorta... e come elemento inquietante apparentemente innocuo ho usato uno dei miei suoni preferiti, il rumore della pioggia.)


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A volte mi illudo che sia stato un incubo. È il ricordo più distante a cui riesca a risalire: non c'è nulla prima, e nulla dopo, per molti mesi.
Ricordo l'acqua che mi scivola tiepida lungo la gola e giù per il petto. Un rumore bianco, simile a quello della pioggia, mi riempie le orecchie. Ho la bocca aperta: devo aver bevuto un po'. Al di fuori del vetro appannato, il mondo è lattiginoso e quieto. Troppo quieto.
Sono rannicchiato sul piano della doccia, perciò devo alzare un braccio per raggiungere la leva del miscelatore e interrompere il getto d'acqua. Spingo di lato il vetro e mi apro uno spiraglio.
Il rumore della pioggia non è cessato: si è solo fatto più debole, e batte sulle finestre allineate sulla parete di destra, come migliaia di dita insistenti che bussano per entrare. Mi tappo le orecchie e guardo fuori dalla doccia. Non c'è nessuno con me nella stanza. Nessuno vivo.
La vasca è piena d'acqua che trabocca rosea sul pavimento, rendendolo umido e scivoloso. Un braccio femminile è adagiato fuori dal bordo, ma riesco a vedere solo dal gomito al polso. Non c'è la mano.
Dall'altra parte, il coperchio del gabinetto è sollevato, e sopra la ceramica spuntano quelli che paiono capelli castani attorno alla lucida sommità di una testa calva. Distolgo gli occhi, non voglio sapere altro. So che non voglio restare lì, intrappolato nella doccia, ad aspettare che chiunque abbia fatto tutto questo ritorni per me.
Scivolo fuori. Sono nudo.
In un angolo, vestiti sporchi e strappati.
Su un armadietto c'è una pila di asciugamani puliti. Me ne avvolgo uno addosso, e lo trattengo con una mano mentre avanzo piano verso la porta. Non voglio scivolare. E non voglio che lo sciaguattìo dei miei piedi sul pavimento possa coprire qualsiasi rumore rivelatore di un'altra presenza. Ma non c'è altro che il tamburellare della pioggia, quell'odiosissima, dannata pioggia, nelle mie orecchie.
Le piastrelle sulla parete di sinistra sono rotte, segnate da solchi paralleli. Allungo il braccio e percorro con le dita allargate una serie di scie più lunghe che segnano tutto il muro, da un angolo all'altro. Che strano. Le mie dita si infilano perfettamente nei solchi.
Con l'alluce, tocco qualcosa di molle, impregnato d'acqua. Esito prima di guardare giù, ma è solo un portafoglio. Dentro c'è la carta d'identità di un ragazzo. Il nome è Edgar Allen. Non ricordo la foto. Forse è strappata, o forse quel dettaglio è sbiadito nella mia memoria.
Ancora oggi non saprei dire se quello è davvero il mio nome, o se ho rubato l'identità di qualcun altro, pur di riempire il vuoto che ho nella testa.
Una cosa però la ricordo. Ricordo di essere arrivato al lavandino, e di avere visto, riflessa nello specchio, la macabra devastazione che era diventata quel bagno. Ricordo l'assurdo sorriso sul mio volto, e il senso di potere e di soddisfazione, la brama sopita che mi piove dentro con ogni ondata che il vento spinge a picchiare alle finestre, e la bestia sotto la mia pelle che risponde al diluvio con una incontenibile risata.
Non ho mai sopportato la pioggia.
La pioggia la risveglia, ed è più difficile, allora, tenerla sotto controllo.

sabato 20 ottobre 2018

Tumido

Ci sono parole che hanno più di un significato, ma fino a un certo punto della tua vita sei incappato sempre e solo in uno. Così è stato per me con questa: la conoscevo nel primo senso, ma ho scoperto il secondo solo oggi.

Tumido [tù-mi-do] agg. 1. Vistosamente gonfio; con riferimento a labbro, carnoso. 2. fig. Ridondante nella forma, ampolloso.

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Ho cercato di fare del mio meglio per sfruttare entrambi i significati della parola, quello che conoscevo e quello che non mi era noto. E, soprattutto, per non associarla alle labbra, l'uso più semplice e scontato del termine, tanto che non ho resistito e ci ho scherzato su.


Viridian era noto come il Mondo Foresta, un nome vecchio di secoli, o di millenni. Ma quando Cinde, Handel e Mod vi misero piede, della lussureggiante giungla che un tempo ricopriva il pianeta non era rimasto che un singolo, altissimo albero.
– Così è questo, il nostro obiettivo – mormorò Cinde. Di fronte a loro, appeso a grosse liane, pendeva un baccello tumido così grande che avrebbero potuto starci dentro tutti e tre.
– Guardate. – Handel pungolò il baccello col fucile a impulsi. – È gonfio quasi quanto le labbra di Cinde.
Cinde lo fissò torva. – Smettila. Abbiamo cose più importanti. Non abbiamo ancora deciso quale ingaggio accettare. – Si girò verso Mod, si toccò la bocca e aggiunse: – E poi le mie labbra non sono così gonfie.
Mod era rimasto in silenzio, gli occhi da rettile fissi sullo schermo flessibile. Quando Cinde gli chiese che ne pensava, lui rispose: – Ho esaminato i contratti. La Società per lo Studio e la Preservazione delle Meraviglie Naturali ci offre un milione di crediti in cambio del baccello.
Handel fischiò. – Abbastanza per un'altra astronave! Non che ne abbiamo bisogno – aggiunse, all'occhiataccia di Cinde.
Mod sollevò un lungo dito. – Ma il loro documento è scritto in uno stile tumido, zeppo di clausole e postille, e non sono certo di aver afferrato tutti i motivi per cui la cifra potrebbe abbassarsi o azzerarsi. Il Collettivo delle Macchine, d'altra parte, è breve, diretto e preciso: il nostro peso in metalli preziosi, suddivisi secondo percentuali prestabilite, per l'annientamento dell'albero e dei suoi semi.
– Non molto etico – commentò Cinde.
– Ma più divertente. Io vado a prendere l'esplosi... – Handel non terminò la parola. Una lancia di legno, retta da una creatura di legno, era puntata alla sua gola.
Altre quaranta creature li circondarono, sciamando dai tronchi anneriti e dai resti delle macchine.
– Io ho un'altra proposta, stranieri – disse una di loro. – Proteggete l'Ultimo Albero fino al tempo della semina, o non ve ne andrete vivi da qui.

giovedì 18 ottobre 2018

La cosa più difficile

Ho una confessione da fare: il post del giovedì subito dopo la sfida è la cosa più incredibilmente difficile da scrivere per me. Ho già raccontato di come le scene d'azione, e di combattimento in particolare, non siano facili quanto un dialogo o una descrizione. Ebbene, questo che sto scrivendo ora è molto più complesso.

Ognuno di noi ha la sua bestia nera in scrittura. C'è chi non sopporta le descrizioni e le evita il più possibile. C'è chi arranca con i dialoghi e ha problemi nel renderli interessanti e verosimili. C'è chi fatica a inventare qualcosa che non esiste o non ha mai visto, e preferisce narrare una versione più o meno romanzata della propria vita. Questi ultimi devo confessare che un po' li ammiro, perché è proprio ciò che non riesco a fare. Spogliarmi di questo scudo che mi sono costruita. Fare un passo avanti e mettermi sotto i riflettori. Che scritto da me è proprio buffo, perché... ecco, ho esitato a scriverlo, ho dovuto interrompermi ma ora prendo coraggio e lo metto qui, nero su bianco: ho seguito un corso di teatro alle superiori. Tutti e cinque gli anni. Ma recitare una parte, ripetere frasi imparate a memoria, è molto più semplice che essere me stessa e improvvisare.

Dire quello che penso su un determinato argomento, anche se si tratta di qualcosa che mi entusiasma così tanto come scrivere e ideare storie (o forse, proprio perché è così tanto parte di me) mi rende nervosa. Ogni volta mi chiedo: questo è davvero così interessante anche per qualcuno che non sono io? Con questa riflessione sono sul serio d'aiuto, o almeno posso dare un punto di partenza su cui chi mi legge può farsi una propria idea? Non è che sto scrivendo cavolate? No, questo è troppo personale, non posso metterlo! Insomma, come se stessi camminando su un letto di spine, ogni frase è una sofferenza. E l'unico conforto che ho, l'unico pensiero che riesce a indurmi a cliccare su pubblica e rendere tutto ciò visibile, è dirmi "tanto ho fatto troppo tardi, a quest'ora non lo leggerà nessuno". Anche se in realtà non lo so, e magari stavolta a qualcuno verrà voglia di contraddirmi.

Riesco a rivelarmi solo nascondendomi. Nelle storie che scrivo, è vero, sono celati alcuni episodi derivati dalla mia esperienza, ma sono circondati da così tante invenzioni della fantasia che è quasi impossibile rintracciarli per chi non mi conosce. È fin troppo comodo scrivere di me così. Ma quando si arriva al dover condividere una breve biografia, come dovrò fare dal momento che sto preparando una delle mie storie per la pubblicazione... lo hai notato che non esiste una sezione "biografia" o "chi sono" in questo blog? Ecco la mia vera sfida. Ciò che più mi spaventa scrivere. Il mio limite. Il territorio al di fuori della mia zona di comfort.

Ho cominciato questo post con una confessione, e voglio finirlo con una promessa. Prometto che scriverò quella biografia, e la renderò pubblica, cosa ancora più difficile, nel prossimo post di questo genere, il giovedì dopo la prossima sfida. Perché non si impara molto scrivendo ciò che riesce già facile, ma solo cercando di superare i propri limiti, di avventurarsi in un territorio inesplorato. E tu che hai letto fin qui, se davvero ci sei, vorrei esserti di sprone. Qualunque sia la tua passione, che sia la pittura, o la musica, o lo sport, o la scrittura, cerca qualcosa che ancora non riesci a fare, che ti sembra difficile ma non impossibile. Qualcosa che almeno un po' ti spaventa affrontare. E impara a farlo. Perché questo è l'unico modo per crescere e migliorarti in  ciò che ami fare.

Bene, e ora che ho scritto tutto, mi dirò che tanto non lo leggerà nessuno, chiuderò gli occhi e cliccherò su pubblica. Spero solo di centrarlo a occhi chiusi. Ma forse è meglio che prima lo rilegga un'ultima volta? Sì, un'ultima rilettura per altri mille dubbi.

lunedì 15 ottobre 2018

Sfida numero 8 - Piuma di Corvo

Continua la serie di sfide a difficoltà variabile, facile, intermedio e difficile. Il meccanismo è semplice: ti proporrò tre livelli cumulativi, con istruzioni man mano più complesse e specifiche. A te scegliere se completare il livello più semplice, aggiungere le indicazioni di quello intermedio o seguire tutte le istruzioni per arrivare al livello difficile.

Se hai perso le prime sfide e vuoi recuperarle, le trovi qui:
Sfida numero 1 - Piuma di Passero
Sfida numero 2 - Piuma di Merlo
Sfida numero 3 - Piuma di Piccione Viaggiatore
Sfida numero 4 - Piuma di Colibrì
Sfida numero 5 - Piuma di Gabbiano
Sfida numero 6 - Piuma di Pappagallo
Sfida numero 7 - Piuma di Gallo Combattente


Se sei pronto, si comincia con la sfida di oggi!

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Sfida numero 8

Nel mese più spaventoso dell'anno, non potevo non spronarti a muovere qualche passo nel genere horror. Che sia pane per i tuoi denti o no, mettiti alla prova con questo esercizio e vincerai una virtuale Piuma di Corvo, di bronzo, d'argento o d'oro a seconda del livello scelto.

Livello facile: scrivi una scena spaventosa, raccapricciante, o quantomeno inquietante.
Un inseguimento nella notte. La scoperta di un cadavere. Un mostro che minaccia i tuoi personaggi. O forse sono loro i mostri? Le possibilità sono tante, scegli una situazione e buttati... nella scrittura.

Livello intermedio: scrivi di notte (o almeno di sera, a oscurità calata), mentre sei da solo, se possibile con una luce attenuata e ascoltando una canzone o una musica che rispecchi l'atmosfera del tuo brano.
L'atmosfera giusta a volte può aiutare a calarsi nei panni dei personaggi, soprattutto se la scena è raccontata in prima persona. Per la musica, ti suggerisco un classico come "Una notte sul monte calvo" di Musorgskij, o la colonna sonora di un film di Dario Argento. Se mentre scrivi il tuo brano riesci a spaventare anche te stesso sei a cavallo... assicurati solo che la luce sia sufficiente da vedere le parole sulla pagina!

Livello difficile: non usare le seguenti parole. Sangue, morte, paura, terrore, oscurità, buio, notte, mostro, assassino, urlo.
Facile scrivere un horror usando sempre le stesse situazioni e gli stessi termini. Ma pensa se a destare preoccupazione è qualcosa di rosa... forse un innocente peluche, o un tutù, oppure uno di quei fenicotteri di plastica? Immagina se, per una volta, è la gioia a risultare inquietante. E che cosa si nasconde di tanto spaventoso nella luce che i tuoi personaggi cercano a tutti i costi di evitare? Ti sfido a scrivere un horror al contrario, quello che non ti aspetteresti mai da una storia di questo genere.


Aspetto i tuoi commenti, suggerimenti o il brano che questo nuovo tipo di esercizio ti ha ispirato a scrivere. Come al solito avrai la possibilità, se lo desideri, di mettere sotto i riflettori le tue parole nel post di giovedì della settimana prossima. Riuscirci è semplice: ti basta sorprendermi!

sabato 13 ottobre 2018

Serto

Questa me la ricordavo da una canzone che devo aver sentito parecchio tempo fa. Era una riscrittura sulla musica di Kalinka se non erro, che terminava con le strofe: "ti farò un serto di corolle bianche con i fior di bucaneve". Mi è tornata in mente non appena ho scelto la parola di oggi.

Serto [sèr-to] s.m. lett. Corona, ghirlanda.

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Una ghirlanda di fiori mi evoca sempre l'immagine di una fanciulla, magari vestita di bianco, e l'idea dell'innocenza e della primavera. C'è un personaggio che incarna queste caratteristiche, e che è sempre divertente da scrivere perché con lei le cose spesso non vanno come previsto. In più, stavolta pensavo a una specie di... rito funebre, però, appunto, con Alcyone non si può mai sapere come si trasformerà l'idea iniziale.


Non l'avevo mai vista così seria. Così concentrata.
Alcyone danzava con gli occhi socchiusi, agitando il serto di Mirabilis come se avesse avuto tra le mani un cembalo. I fiori bianchi scomparvero nel candore della sua camicetta quando li passò da un lato all'altro, accarezzando le caviglie della principessa addormentata.
Una piroetta e le parole di potere ripresero a fluire dalle sue labbra. E assieme a esse, una luce argentata le percorse le braccia e si riversò nelle corolle sempre più luccicanti. Per una volta, la sua magia non mi disturbava. Era quasi... ipnotica.
Non volevo che smettesse. Ma troppo presto la danza dei suoi piedi nudi la portò all'altro capo del giaciglio, dove su un morbido cuscino riposava la testa della principessa.
Alcyone posò la corona di fiori tra i suoi capelli, poi si chinò a sussurrarle qualcosa. Infine prese una campanella, e con un martelletto batté tre rintocchi accanto all'orecchio della dormiente.
I dignitari allungarono il collo, osservando trepidanti.
Al terzo rintocco, la principessa si strofinò le ciglia e sbadigliò.
– Altre cinque clessidre, mamma – biascicò, e si girò dall'altra parte.
Alcyone fece spallucce. – Oh, beh, io ci ho provato!
I dignitari la scrutarono torvi.
Senza battere ciglio, Alcyone si avvicinò a uno di essi, gli consegnò campanella e martelletto e disse: – L'avete sentita, no? Aspettate cinque clessidre, poi suonate di nuovo la campanella. Sono sicura che a quel punto si sveglierà, e l'incantesimo sarà spezzato. Quasi sicura. Si è fatto tardi. Noi dobbiamo andare!
Alcyone mi prese sottobraccio e ci defilammo verso il Bosco dei Sussurri. Sì, era tornata quella che conoscevo.
Più tardi le intrecciai per lei un serto con i fiori di bosco e glielo posai sulla testa. – Sembri proprio una principessa – le dissi.
Lei sorrise e scosse la testa. – Non voglio essere una principessa. Mi piace chi sono, e quello che faccio. A te no?
Mi guardai attorno, e ripensai alle avventure che avevamo vissuto. – Sì – ammisi. – Suppongo di sì.

giovedì 11 ottobre 2018

Parliamone fuori

(racconto ispirato alla Sfida numero 7. Stavolta ho ripreso e migliorato un vecchio brano, niente armi ma una scazzottata a mani nude nel bel mezzo di una festa. Con un epilogo ampliato per le conseguenze.)


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Il salone era pieno di gente. Signore eleganti in abito da sera, i colli e le mani luccicanti di gioielli. Gentiluomini dall'aria distinta, alcuni dei quali stretti in uniformi cariche di gradi e medaglie.
E in mezzo a quello sgargiante arcobaleno dell'alta società di Penterra stavano i due fratelli Astorenn.
Uno di fronte all'altro.
– Prova a ripeterlo, se hai il coraggio! – sbottò Jasmen, attirandosi sguardi corrucciati dalle coppie più vicine. Dopo una rapida occhiata alle smorfie di un paio di dame, aggiunse: – Anzi, sai che c'è? Andiamo a parlarne fuori.
– Dovrai costringermi – lo sfidò Josiac, con un sorrisetto sornione.
Jasmen si protese in avanti. Lo avrebbe volentieri afferrato per le braccia e trascinato fuori, ma Josiac arretrò e sfuggì alla presa, rischiando di travolgere una donna vestita di verde se il suo cavaliere non l'avesse tratta in salvo appena in tempo. Quest'ultimo rivolse ai due disturbatori un'occhiata indignata, prima di allontanarsi in compagnia della signora per godersi la festa altrove.
Josiac rise, una risata gutturale. Strinse il pugno sinistro. Al contrario del fratello, aveva tutta l'intenzione di "parlarne" lì, quindi andò incontro a Jasmen e gli sferrò un colpo alla mascella.
Jasmen non era preparato. Incassò la botta e avverti una scossa dolorosa che saliva alla sommità della testa e scendeva lungo la schiena, mentre barcollava e si piegava sulle ginocchia. Portò la mano destra al volto. Fissò il fratello, digrignò i denti, e si lanciò contro di lui con un ringhio selvaggio.
Al contrario della folla che li scrutava sempre più numerosa, Josiac non fece una piega quando Jasmen lo afferrò per le spalle. Resistette a un tentativo di buttarlo a terra e lo colpì di nuovo, stavolta allo stomaco.
Jasmen restò in piedi aggrappato alle spalle del fratello e ansimò, riprendendo fiato. – Bastardo! – biascicò non appena riuscì tirare fuori un po' di voce. Poi agì alla svelta, e approfittando della distrazione dell'altro allungò una gamba, agganciò una caviglia di Josiac e si appoggiò alle sue spalle con tutto il proprio peso.
Josiac cadde, e Jasmen gli crollò addosso. Attorno a loro alcune voci femminili urlarono, e un po' di trambusto agitò la folla.
Jasmen si puntellò con una mano e tirò indietro l'altro braccio, le dita strette in un pugno.
Ma a quel punto, Josiac rise. E non era la stessa risata di scherno di poco prima; era più sincera, era genuina e allegra. – Ti rendi conto, caro il mio fratellino, che se sono un bastardo io, lo sei anche tu?
Jasmen esalò i fiato in un'espressione sorpresa. Non rilassò il pugno, ma già sentiva un'identica risata lottare per uscire dalle sue labbra tumefatte quando un energumeno lo sollevò per il braccio. Un altro rimise in piedi Josiac senza troppa grazia, poi i due scortarono i fratelli fuori dal salone delle feste.

– Non posso crederci. Confinati nelle cucine durante l'anniversario della fondazione della nostra casata – si lamentò Jasmen, seduto curvo sopra un tavolo, nel premere una borsa d'acqua ghiacciata contro la guancia. Sentiva solo un torpore pulsante dove Josiac l'aveva colpito.
– Già. Papà era veramente furioso – replicò quest'ultimo, sdraiato sulla tavola. – Buona cosa che avesse assoldato un servizio di sicurezza. Se fosse toccato a lui separarci... stavolta ci avrebbe ammazzati sul serio.
– E sai qual è il colmo? – biascicò Jasmen, girandosi verso il fratello. – Nemmeno ricordo per che cosa stavamo litigando.
– Ah. Una ballerina. – gli rammentò Josiac. – Quella gran...
– Nateni. Giusto – tagliò corto Jasmen. Sollevò la maglia e si tastò lo stomaco, poi sbirciò il fratello, che se ne stava supino a occhi chiusi. Strinse le nocche a pugno e gli assestò due colpi, uno al fianco e uno all'addome. Josiac non reagì, non provò a difendersi, gemette soltanto e aprì gli occhi.
– Te ne dovevo due, fratello – si giustificò Jasmen, prima di sdraiarsi al suo fianco.

lunedì 8 ottobre 2018

Il pacchetto completo

(racconto ispirato alla Sfida numero 7. Mi sono cimentata in un breve duello all'arma bianca, con un paio di parole dal suono onomatopeico, sibilo, tonfo, oltre a ricorrere spesso al suono della esse. E non ho dimenticato di menzionare le conseguenze del duello.)


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Bellatrix scopriva il fianco destro dopo ogni tentativo di affondo. Era la mia occasione per impartirle una lezione che non avrebbe dimenticato.
La mia spada fendette l'aria con un sibilo, dal basso verso l'alto, ma la sfiorò appena: la mia avversaria si era già spostata con una mezza piroetta, allontanando da me il fianco destro. Sbuffai. Bellatrix teneva la coppia di pugnali come se stesse maneggiando coltelli da cucina.
Indietreggiai e calai la mia Fulmine Blu alla sua sinistra quando Bellatrix mi attaccò da quel lato dopo un sogghigno rivelatore. Intercettai il suo pugnale con la lama e il colpo glielo fece cadere di mano. Bellatrix abbassò gli occhi al tonfo metallico. Approfittai della sua distrazione per spingerla con il braccio destro contro il muro. Poi, mentre la minacciavo con la spada, con la mano libera le sottrassi il secondo pugnale, che infine puntai alla sua gola.
– Game over – le sussurrai all'orecchio. Era finita. Nessuna di noi era ferita, e il suo lieve ansito era eccitante. Vincere era stato facile, ed era stato rapido. Ma non potevo fargliene una colpa: lei non aveva ancora la mia esperienza.
Bellatrix mi rivolse un'occhiata rabbiosa, poi mi offrì la gola. – Hai vinto. Fai quello che devi, Véris.
Fu allora che esitai. Sapevo come finivano tutte le sfide a Duel, ma non immaginavo che sarebbe stato così difficile con lei. Il suo pugnale tremò nella mia mano.
Non potevo ucciderla. Non potevo anche se sapevo che era per finta, che una volta fuori dalla distorsione lei si sarebbe alzata, incolume o quasi, con solo un livido o un graffietto al posto della ferita mortale. Il dolore però era reale, e io lo sapevo bene.
– Saetta Azzurra! – mi esortò Bellatrix. Tenendola bloccata con la spada, gettai il pugnale e abbassai le dita al Simpler agganciato alla mia cintura. Una combinazione di tasti mi permise di resettare la sfida e uscire dalla distorsione, ma non prima di sentirla gridare: – Katrina!
– Mi avevi promesso il pacchetto completo – sbottò Sharona, una volta tornate alla realtà comune, una volta tornate noi. – Mi avevi promesso di farmi entrare nel tuo mondo, con tutte le conseguenze.
Ero pronta a spiegarle che cosa aveva sbagliato durante il duello. Non ero pronta per un litigio.
Pensavo che giocare a Duel assieme ci avrebbe avvicinato ancora di più, invece rischiava di allontanarci. E tutto perché le volevo troppo bene per ucciderla in uno stupido gioco.

sabato 6 ottobre 2018

Rubizzo

Ti è mai capitato di essere assolutamente convinto che una parola abbia un determinato significato, per poi scoprire che la confondevi con un'altra? Ebbene, per me è stato così con questa, che avevo scambiato per rubicondo, che invece significa "di colore rosso acceso".

Rubizzo [ru-bìz-zo] agg. Vigoroso e di aspetto ancora florido, detto specialmente di persona anziana. Arzillo, prestante.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero


Adesso tocca al racconto che scriverò il compito di ricordarmi una volta per tutte che cosa vuol dire rubizzo! E pensando a quale personaggio associare questo termine, quello che mi viene in mente è un mentore. Bastava solo sceglierne uno.


Vesta non era mai stata al Tempio del Fuoco.
Visto da fuori, l'edificio era spaventoso per una bimba della sua età. Era alto, massiccio, con una grande porta e nessuna finestra. Dentro era anche peggio: oscuro, soffocante, con torce che si protendevano dalle colonne emanando uno strano odore d'erba bruciata e crepitanti sussurri. Vesta tossì mentre suo padre la trascinava avanti, verso un vecchio rubizzo che vestiva una tunica rossa dalle ampie maniche.
Il padre di Vesta si fermò e la trattenne di fronte a quell'uomo dal sorriso inquietante che era di sicuro più vecchio di suo padre, vecchio forse quanto i suoi nonni, anche se non lo sembrava. Vesta non lo sentì lamentarsi o scricchiolare quando si piegò su di lei e disse: – Così è questa la bimba di cui tutti parlano.
– Sì – rispose il padre di Vesta. – Ha toccato le fiamme senza bruciare. È una strega, è maledetta. Non ho mai adorato il fuoco, ma solo voi la potete salvare. Vi darò quello che volete in cambio.
– Se dev'essere salvata, intendete. Questo è da vedere – replicò il Custode del Fuoco, muovendosi svelto attorno all'altare. Vesta alzò gli occhi quando si accosciò accanto a lei e mormorò: – Ho una cosa per te, bambina. Chiudi gli occhi e porgimi la mano.
– È qualcosa di buono? – chiese Vesta.
– Oh, lo sarà. Ma voglio che sia una sorpresa. Ti piacciono le sorprese?
Vesta annuì e fece come le aveva detto. Non trasalì quando il Custode trasse dalle lunghe maniche un tizzone e lo depositò sul suo piccolo palmo. Ma quando sentì suo padre trattenere il respiro e il Custode mormorare un ringraziamento a Neerea, Vesta aprì gli occhi e osservò incuriosita quel pezzetto rosso brillante sulla sua mano. Tenerlo la faceva sentire bene, al sicuro, anche se le avevano detto che non doveva essere così.
– L'ho trovata, finalmente. – Il Custode si alzò. – Uomo, tua figlia non è maledetta: è una prescelta dalla Fiamma.
Ancora non sapeva Vesta che avrebbe imparato a chiamare quel luogo spaventoso "casa", e l'uomo rubizzo "maestro".

giovedì 4 ottobre 2018

Perché lo fai?

Oggi vorrei parlare di: motivazione. E non la mia motivazione a scrivere con cui ho aperto questo blog, ma la motivazione che spinge un personaggio ad agire. Perché in fondo loro sono come noi: se non vedono un vantaggio in ciò che fanno, fosse anche solo in termini di divertimento, curiosità o interesse soddisfatto... non muovono un muscolo, e la trama non ingrana.

Di recente ho letto di un personaggio la cui motivazione per fare tutto ciò che gli hanno proposto era così debole che mi è venuto spontaneo chiedermi: ma perché? Perché prendersi la briga di imbarcarsi in quell'impresa se mi hai detto chiaro e tondo che non ti interessa diventare un eroe, che ciò che hai scoperto non era in precedenza tra i tuoi argomenti preferiti, che ti infastidisce il solo fatto di essere lì e che l'addestramento per arrivare a quell'obiettivo è di un tipo che proprio non sopporti? No, "perché il romanzo riguarda questo" non è una motivazione valida.

La motivazione non è un optional. La motivazione dei personaggi è il motore della storia, non il colore della sua carrozzeria. Può attirare i personaggi verso qualcosa di gradito o spingerli lontano da ciò che non vogliono. Può essere di molti tipi diversi, personale o meno, forte o debole, consapevole o a livello di inconscio, possono addirittura coesistere più desideri contrastanti all'interno dello stesso personaggio, ma l'importante è che sia sufficiente a superare le seccature e i rischi che il personaggio sta per assumersi. Se la bilancia non pende a suo favore, se non ne vale la pena, tutto ciò che segue perde di credibilità agli occhi del lettore.

La motivazione a volte può essere una spinta ad agire assai curiosa. Due personaggi possono arrivare a compiere le stesse azioni per motivazioni del tutto diverse. Altri due, pungolati dallo stesso desiderio, possono ritrovarsi in situazioni opposte. Perché in fondo un personaggio non agisce mai da solo, il suo percorso non è una linea retta, e il protagonista non è l'unico che deve muoversi in modo coerente a seconda di ciò che lo motiva. Ogni storia è una ragnatela di azioni e reazioni sullo sfondo di una situazione iniziale. Anche i personaggi secondari non fanno qualcosa, specialmente se faticoso o potenzialmente svantaggioso, se non pensano che gli convenga farlo.

Capire le motivazioni dei personaggi nei libri che leggo o nei film che guardo è una parte importante della mia esperienza di lettura o visione. Mi aiuta a comprendere sia la loro psicologia che lo sviluppo della storia. Ed è fondamentale per entrare in empatia con questo o quel personaggio.
Prendiamo ad esempio... Ariel, la sirenetta. Potresti pensare che la sua è fondamentalmente una storia d'amore, ma la sua curiosità nei riguardi del mondo di superficie è precedente al suo incontro/salvataggio del principe Eric. Il fulcro del personaggio quindi non è l'amore romantico, bensì la meraviglia. Ma c'è di più: a queste due spinte positive, la meraviglia nei confronti di un mondo sconosciuto e il conseguente innamoramento per uno sconosciuto di quel mondo, se ne aggiunge una negativa, ovvero un padre che non comprende i suoi interessi e che le impedisce di seguire le sue passioni ed essere se stessa. Se Tritone l'avesse sostenuta, probabilmente Ariel non si sarebbe spinta più in là della sua collezione e di qualche nuotata in superficie. Solo dopo il contrasto con lui Ariel è pronta a rischiare tutto mettendosi nelle mani della strega del mare. Che, dal suo canto, ha le sue motivazioni per fingere di essere la soluzione che Ariel cerca. Ma questa è un'altra storia, o meglio, la stessa storia raccontata da un punto di vista differente.


Ora tocca a te, dimmi: avevi mai riflettuto a fondo sulle motivazioni dei personaggi di cui scrivi o leggi? Ce c'è qualcuno che per le sue motivazioni ti è sembrato poco credibile, o al contrario, coerente fino alle estreme conseguenze? Raccontami cosa ne pensi nei commenti!

lunedì 1 ottobre 2018

Sfida numero 7 - Piuma di Gallo Combattente

Continua la serie di sfide a difficoltà variabile, facile, intermedio e difficile. Il meccanismo è semplice: ti proporrò tre livelli cumulativi, con istruzioni man mano più complesse e specifiche. A te scegliere se completare il livello più semplice, aggiungere le indicazioni di quello intermedio o seguire tutte le istruzioni per arrivare al livello difficile.

Se hai perso le prime sfide e vuoi recuperarle, le trovi qui:
Sfida numero 1 - Piuma di Passero
Sfida numero 2 - Piuma di Merlo
Sfida numero 3 - Piuma di Piccione Viaggiatore
Sfida numero 4 - Piuma di Colibrì
Sfida numero 5 - Piuma di Gabbiano
Sfida numero 6 - Piuma di Pappagallo


Se sei pronto, si comincia con la sfida di oggi!

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 
Sfida numero 7

Per questa settimana e la prossima ti sfido (e mi sfido) a scrivere una delle parti che trovo più difficili in un racconto. Completando l'esercizio, vincerai una virtuale Piuma di Gallo Combattente, di bronzo, d'argento o d'oro a seconda del livello scelto.

Livello facile: scrivi una scena in cui due o più personaggi stanno combattendo.
Che si tratti del frammento di un'epica battaglia su larga scala o di una rissa da bar scoppiata all'improvviso, poco importa. Conta questo: che ci sia azione. Poco pensiero, poca descrizione, quasi esclusivamente la narrazione di ciò che sta accadendo. Fammi vedere la lotta, e se hai scelto come narratore uno dei personaggi impegnati in essa, fammela anche sentire.

Livello intermedio: in almeno due punti del brano, inserisci una parola o una frase con suoni onomatopeici.
Senza arrivare ai boom, crash, bang da fumetto, esistono parole in italiano il cui suono assomiglia a ciò che stanno a significare. Sfrutta la musicalità della lingua per amplificare la sensazione di immersione in ciò che stai raccontando.

Livello difficile: dedica una parte del brano alle conseguenze della lotta.
Che siano fisiche o psicologiche, ogni evento che narri dovrebbe lasciare una qualche conseguenza sui tuoi personaggi. In particolare, se così estremo e impegnativo come un combattimento. Prenditi qualche riga per tratteggiare il dopo, gli effetti di ciò che i tuoi personaggi hanno appena vissuto.


Aspetto i tuoi commenti, suggerimenti o il brano che questo nuovo tipo di esercizio ti ha ispirato a scrivere. Come al solito avrai la possibilità, se lo desideri, di mettere sotto i riflettori le tue parole nel post di giovedì della settimana prossima. Riuscirci è semplice: ti basta sorprendermi!