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Ricordo l'acqua che mi scivola tiepida lungo la gola e giù per il petto. Un rumore bianco, simile a quello della pioggia, mi riempie le orecchie. Ho la bocca aperta: devo aver bevuto un po'. Al di fuori del vetro appannato, il mondo è lattiginoso e quieto. Troppo quieto.
Sono rannicchiato sul piano della doccia, perciò devo alzare un braccio per raggiungere la leva del miscelatore e interrompere il getto d'acqua. Spingo di lato il vetro e mi apro uno spiraglio.
Il rumore della pioggia non è cessato: si è solo fatto più debole, e batte sulle finestre allineate sulla parete di destra, come migliaia di dita insistenti che bussano per entrare. Mi tappo le orecchie e guardo fuori dalla doccia. Non c'è nessuno con me nella stanza. Nessuno vivo.
La vasca è piena d'acqua che trabocca rosea sul pavimento, rendendolo umido e scivoloso. Un braccio femminile è adagiato fuori dal bordo, ma riesco a vedere solo dal gomito al polso. Non c'è la mano.
Dall'altra parte, il coperchio del gabinetto è sollevato, e sopra la ceramica spuntano quelli che paiono capelli castani attorno alla lucida sommità di una testa calva. Distolgo gli occhi, non voglio sapere altro. So che non voglio restare lì, intrappolato nella doccia, ad aspettare che chiunque abbia fatto tutto questo ritorni per me.
Scivolo fuori. Sono nudo.
In un angolo, vestiti sporchi e strappati.
Su un armadietto c'è una pila di asciugamani puliti. Me ne avvolgo uno addosso, e lo trattengo con una mano mentre avanzo piano verso la porta. Non voglio scivolare. E non voglio che lo sciaguattìo dei miei piedi sul pavimento possa coprire qualsiasi rumore rivelatore di un'altra presenza. Ma non c'è altro che il tamburellare della pioggia, quell'odiosissima, dannata pioggia, nelle mie orecchie.
Le piastrelle sulla parete di sinistra sono rotte, segnate da solchi paralleli. Allungo il braccio e percorro con le dita allargate una serie di scie più lunghe che segnano tutto il muro, da un angolo all'altro. Che strano. Le mie dita si infilano perfettamente nei solchi.
Con l'alluce, tocco qualcosa di molle, impregnato d'acqua. Esito prima di guardare giù, ma è solo un portafoglio. Dentro c'è la carta d'identità di un ragazzo. Il nome è Edgar Allen. Non ricordo la foto. Forse è strappata, o forse quel dettaglio è sbiadito nella mia memoria.
Ancora oggi non saprei dire se quello è davvero il mio nome, o se ho rubato l'identità di qualcun altro, pur di riempire il vuoto che ho nella testa.
Una cosa però la ricordo. Ricordo di essere arrivato al lavandino, e di avere visto, riflessa nello specchio, la macabra devastazione che era diventata quel bagno. Ricordo l'assurdo sorriso sul mio volto, e il senso di potere e di soddisfazione, la brama sopita che mi piove dentro con ogni ondata che il vento spinge a picchiare alle finestre, e la bestia sotto la mia pelle che risponde al diluvio con una incontenibile risata.
Non ho mai sopportato la pioggia.
La pioggia la risveglia, ed è più difficile, allora, tenerla sotto controllo.
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