lunedì 30 agosto 2021

La Rescissione


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Anno 2120. Sono al volante di una Jaguar F Type coupé e sfreccio sull'autostrada deserta a 130 km all'ora. Il vento scivola sul parabrezza e mi scompiglia i capelli, strappandoli alla coda di cavallo in cui li ho legati con un elastico morbido. Il cuore mi batte forte mentre stringo il volante, eppure sono calma, incurante dell'asfalto macinato dalle ruote e del paesaggio che sfreccia ai miei fianchi a quella velocità pazzesca. Sopra di me il cielo si tinge di fuoco, le nuvole bruciano in faville di cenere e nevicano grigie, turbinando nello spostamento d'aria provocato dalla mia auto prima di depositarsi pigramente a terra.
Batto le palpebre e fisso i miei due gatti, Fantàsia e Imago, che sonnecchiano placidi facendo le fusa sopra la loro copertina accanto alla finestra. Sorrido e mi alzo dal divano: il tè è ancora caldo. Stavo solo immaginando. Una cosa talmente semplice, eppure sono rimasta uno dei pochi esseri umani a poterlo fare. Questo perché non ho mai fatto la Rescissione.
Una procedura semplice, a detta dei medici. Un piccolo taglietto di alcuni fasci nervosi nel cervello per eliminare il rischio di sviluppare una patologia mentale come la schizofrenia, per evitare allucinazioni e impedire che un pensiero estraneo al presente, si tratti di una fantasia o di un ricordo, arrivi nei momenti meno opportuni a sovrapporsi alla vera percezione di ciò che si ha davanti agli occhi. Le statistiche parlavano chiaro: dopo l'introduzione della procedura, non obbligatoria ma fortemente consigliata, le azioni violente dovute a un delirio e gli incidenti stradali per distrazione erano nettamente calati. I suoi sostenitori avevano persino affermato che, grazie alla Rescissione, era diventato impossibile mentire, e che la procedura doveva essere obbligatoriamente estesa a tutti, per dare vita a un mondo migliore. Si era scoperto, con il tempo, che non era vero. Era impossibile inventare nuove bugie, certo; ma nulla impediva a chicchessia di ripetere le parole che aveva letto online, nei siti che erano proliferati dopo l'avvento della Rescissione, anche se non riusciva a immaginare come realmente accaduto ciò che diceva. Il bello era che anche chi le ascoltava, se era un Rescisso, non poteva figurarsi quelle parole: perciò, paradossalmente, la scusa "sono stato rapito dagli alieni" aveva la stessa valenza di un più credibile "non ho sentito la sveglia e ho perso il tram". Solo i politici, che per la maggior parte avevano solo finto di fare la Rescissione grazie a medici conniventi, erano ancora in grado di ingannare in maniera convincente e verosimile i loro elettori.
Bevvi un sorso di tè e accarezzai i libri sulla scrivania. Erano diventati oggetti obsoleti, da quando la maggior parte delle persone non era più in grado di immedesimarsi nelle storie che contenevano. Per loro, le parole erano solo parole. A volte, a pensarci, provavo un po' di pietà per i Rescissi. Nemmeno i film erano più gli stessi, da quando la maggior parte dei registi non sapeva far nulla di meglio di un documentario, o un montaggio di riprese che seguivano questo o quell'altro personaggio famoso. "Un anno nella vita di..." era diventato il titolo più gettonato per le nuove uscite al cinema.
Non m'importava: tanto, non potevo frequentarli. Come non Rescissa, le mie possibilità erano state gradualmente ridotte, anno dopo anno. Era cominciato con la revoca della patente e l'impossibilità a svolgere mansioni pericolose, limite giustificato dal fatto che una mia distrazione a causa di pensieri troppo vividi poteva mettere in pericolo gli altri. Poi si era limitato l'accesso ai musei, ai cinema, ai teatri, e a qualunque luogo potesse stimolare in maniera non appropriata la mia immaginazione ancora troppo fervida. Non mi era nemmeno più possibile entrare in luoghi troppo frequentati, discoteche, palazzetti sportivi, ristoranti e qualunque piazza durante una manifestazione, per il timore di un attacco schizofrenico che avrebbe potuto, in teoria, portare me o qualunque altro non Rescisso ad ammazzare un gran numero di persone. In altre epoche, nonostante le stragi che si erano verificate più volte nelle scuole americane, una simile preoccupazione preventiva nei confronti di una persona che non aveva mostrato il minimo sintomo di follia sarebbe parsa ridicola. Adesso era diventata "normale".
C'erano state delle proteste, all'inizio, contro le restrizioni applicate a chi aveva scelto di non sottoporsi alla Rescissione sperimentale e del tutto volontaria. I no-Rex, come erano stati prontamente bollati, erano stati tacciati di favorire lo sviluppo delle patologie mentali, di preferire il manicomio a una procedura semplicissima, indolore e priva di controindicazioni. In quei giorni erano stati accuratamente tenuti nascosti i pochi sventurati che in seguito alla lobotomia, così la definivano i no-Rex, avevano perso ogni capacità di pensiero autonomo e si aggiravano come zombie, in attesa che qualcuno gli dicesse cosa fare e cosa pensare. Il loro numero era tutt'ora sconosciuto. Erano state anche diffuse, tra i no-Rex meno istruiti, teorie strampalate come quella che i medici, approfittando della Rescissione, incidessero nel cervello con i loro bisturi i nomi di prodotti che il paziente doveva acquistare, o i politici per cui doveva votare, il tutto con l'intento di ridicolizzare chi esprimeva una valida preoccupazione per le conseguenze della procedura.
Alla fine, quelli che non erano stati convinti dalla pressione del gruppo o dalle restrizioni sempre più stringenti, erano stati obbligati a portare un segno di riconoscimento nei limitati spostamenti fuori di casa che erano loro concessi. Assaporai un altro sorso di tè e sbirciai con astio la fascia a strisce gialle e nere che dovevo legarmi al braccio prima di uscire dal mio appartamento. La porta non si sbloccava nemmeno se il visore di riconoscimento non la identificava. Gialla e nera, come i colori degli antichi insetti impollinatori, prima dell'avvento dei minidroni che li avevano sostituiti, perché si riteneva che, come quegli insetti, i non Rescissi potessero pungere senza preavviso chi si fosse avvicinato troppo a loro. Le avevo sentite, quelle due signore colme di sussiego, bisbigliare al mio passaggio nel corso della mia ultima uscita che non avrebbero nemmeno dovuto permettermi di andare in mezzo alla gente per bene, e arretrare inorridite alla mia occhiata, mormorando convinte, nel ripetere ciò che era stato loro detto, che potevo impazzire da un momento all'altro e che se trovavo un coltello e le scambiavo per due mostri...
Me n'ero andata prima di sentire il resto. Tanto, lo avevo già sentito altrove. Era una storia già vista, come le tante mamme contente di aver portato i figli a fare la Rescissione appena possibile perché così i piccoli avevano smesso di perdere inutilmente tempo giocando e di fare tutte quelle domande a cui loro non sapevano rispondere. O come le foto dei manicaretti condivise sui social, con la dicitura "non potete immaginare quant'è buono!". Per i tanti Rescissi, quella frase aveva un valore letterale. Ma non per me, io potevo immaginare ogni sapore. 
Ho finito il mio tè, la tazza è ormai fredda. Fantàsia e Imago ancora riposano quieti, non voglio svegliarli. Siedo alla scrivania, afferro la penna, e inizio a scrivere della mia folle corsa con una Jaguar F Type coupé. Un'auto che non si produce più da decenni, e che io stessa non ho mai visto se non nelle vecchie foto, ma che riesco a immaginare in ogni dettaglio, dalla consistenza del volante sotto le mie dita allo scricchiolio dei sedili di pelle, perfino l'odore, quel caratteristico odore di auto nuova mista a un lieve sentore di carburante per il pieno appena fatto. So che nessuno leggerà la mia storia, perché non riuscirà a vedere ciò che io vedo, a sentire ciò che io sento. Ma la scrivo ugualmente, per tutti quelli che non sono più in grado di immaginare un futuro migliore.

sabato 28 agosto 2021

Ignavo

Ignavo [i-gnà-vo] agg., s. 1. agg. Che è indolente, privo di virtù, di forza morale. 2. s.m. (f. -va) Nel significato dell'aggettivo.

Etimologia: dal latino ignavus, "pigro, ignorante", composto da in, "non", e da da gnavus, forma arcaica per navus, "pronto, diligente, sollecito".



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La ragazza del Carpe Diem Café mi aveva sempre visto nei miei momenti migliori, quei giorni in cui non disdegnavo di affrontare un mondo che non mutava abbastanza in fretta da soddisfarmi; non sapevo se ero pronto a farla entrare nella mia dimora e mostrarmi a lei anche nelle giornate in cui la noia accumulata mi pesava troppo perfino per pensare di alzarmi dal letto, figuriamoci uscire dalla porta di casa.
Quei giorni li passavo dormendo, controllando inutilmente i miei investimenti a lungo termine, sebbene fossi al corrente che non ne avrei racconto i frutti nella mia attuale vita, o perdendo tempo in qualunque modo mi venisse offerto dalla moderna tecnologia. Social network e giochi da cellulare non esistevano nelle mie vite precedenti, perciò costituivano una novità sufficiente da offrirmi un momentaneo trastullo, finché anche quelli non mi fossero venuti a noia.
Un'altra donna, in uno di quei giorni, mi avrebbe lanciato un cuscino e mi avrebbe rimproverato, apostrofandomi con un "levati da codeste coltri e premurati di compiere la tua volontà nel globo terrestre, ignavo indegno!". Scherzo, lo avrebbe detto con parole molto meno forbite, considerando la qualità culturale media dell'essere umano odierno.
La ragazza del Carpe Diem Café però non fece nulla di così scontato, né la prima volta in cui mi trovò ancora mollemente adagiato tra i cuscini con il cellulare in mano al suo ritorno dal turno di lavoro, né le successive. Ogni volta faceva in modo di trarmi fuori dalla monotonia che mi affliggeva con una delle sue pazze proposte, dall'ordinare la cena e mangiarla abbandonati sulle lenzuola come antichi romani sul triclinio, all'auto-coinvolgersi nel giochino di quiz che stavo per abbandonare perché troppo semplice, e sfidarmi a chi forniva la risposta più folle e divertente a ogni domanda. La amavo per questo.
Di lei si poteva dire tutto, tranne che fosse una ragazza ignava.

giovedì 26 agosto 2021

Innocenza perduta


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Alice sedeva sui gradini della casa di Miraela. La trovammo così una sera, scarmigliata e con gli occhi spalancati e fissi, incurante della pioggia che le imperlava le ciocche bionde. Accarezzava le ginocchia coperte dalla gonna, come se stesse coccolando un gatto che non c'era. Era la prima volta, anzi, che la vedevamo priva della compagnia di uno dei suoi tanti felini.
– Ho mandato via il gatto – ci disse, non appena si accorse della nostra presenza. La sua voce aveva un timbro stridente, insolito, come se non fosse del tutto lì con noi. – È stato un gatto cattivo, molto cattivo. Perciò ho dovuto cacciarlo.
Sospirai e strinsi a me mio figlio, al riparo dell'ombrello di Clara. Sapevamo che ultimamente il suo angelo era più duro del solito con lei, ma Alice era sempre stata tra le più forti del nostro gruppo.
– Dimmi dove ti fa male, tesoro. Preparo una pozione curativa – si offrì Clara, in tono carezzevole.
Alice però scosse la testa e si voltò verso la porta alle sue spalle. – No. Non il mio gatto. Un altro è stato cattivo.
Ingrid fu la prima tra noi a scattare. Salì i gradini nel poco spazio accanto ad Alice, spalancò la porta ed entrò. Altre la seguirono, ma quando fu il turno di Rosaura, Alice si alzò in piedi e l'afferrò per un braccio, urlando: – No!
Sapevamo tutte quanto Rosaura e Miraela fossero vicine l'una all'altra. Più che migliori amiche, quasi inseparabili sorelle. Era comprensibile che Alice non voleva che vedesse che cosa lui le aveva fatto.
Un grido inarticolato esplose dentro la casa. Rosaura si liberò dalle mani di Alice e corse dentro.
Io, Clara e mio figlio Ethan entrammo per ultime, dietro una stralunata Alice, che vagava precedendosi senza equilibrio, come una sonnambula.
La casa di Miraela era particolare. Lei era stata la più giovane tra le donne rapite da un angelo caduto e riunite su questa sperduta collina. La più timida, la più innocente. Pur essendo una donna, il suo era ancora un animo da bambina, perciò la sua casa era arredata con la stessa meticolosa perfezione di una casa delle bambole. Carta da parati in ogni stanza, tappeti, poltroncine, abat-jour dai ricami floreali, e scaffali a vista all'interno di vetrinette retrò. In più, in ogni stanza erano sistemate bambole sedute sulle poltrone, appollaiate su uno scaffale o al riparo di cupole di vetro, con i loro vestitini vezzosi, i capelli acconciati sotto le cuffiette, le scarpine coordinate e l'espressione per sempre fissata nei volti di ceramica.
Seguimmo Alice, che entrava in cucina. Le altre erano radunate lì, attorno al tavolo, in silenzio. Rosaura piangeva inginocchiata accanto a una sedia. Mi sporsi a guardare oltre le spalle delle altre.
La tavola era preparata in modo impeccabile, sulla tovaglia stoviglie di porcellana riposavano di fronte a ogni sedia, circondate dalle posate allineate secondo la migliore tradizione del galateo di un pasto formale. Le fiamme di un candelabro a centrotavola, sopra la cera era ormai ridotta a moccoli, risplendevano su un liquido pastoso e scuro che riempiva i piatti da zuppa e alcuni dei calici da vino. Mi portai una mano alle narici, mentre con l'altra trattenevo contro di me il bambino che portavo in braccio, per impedirgli di guardare. Quell'odore metallico era inconfondibile.
Seduta a capotavola, come si conveniva a una padrona di casa, Miraela se ne stava immobile, in un vestito elegante con pizzi e merletti, scarpette lucide, e un paio di trecce che spuntavano da una cuffietta, a incorniciarle gli occhi fissi e spalancati sopra un sorriso congelato per sempre nel tempo.
Sembrava una delle sue bambole, altrettanto pallida e rigida, ma lei era una persona, lei avrebbe dovuto respirare.
L'aveva uccisa. Il suo angelo caduto l'aveva uccisa.
Vedere Miraela, quella notte, fu come togliersi un velo dagli occhi. Eravamo state come bambine, tutte noi, prima di allora. Affascinate dalla bellezza dei nostri angeli, attratte dal potere che loro avevano condiviso con noi insegnandoci le basi della magia, le parole di potere e di conoscenza, avevamo minimizzato ogni loro atto di crudeltà, ogni ferita inflitta, ogni volta in cui ci ricordavano quanto a differenza loro noi fossimo deboli, stupide, umane.
Avevamo recitato un gioco d'ombre alla luce di una candela, illudendoci che quella fosse la realtà, l'unica realtà possibile dipinta sulla parete di una prigione. Per Miraela ormai era troppo tardi, ma non lo era per il resto di noi. Era tempo di reagire.
Di riconoscere che quelli non erano angeli, ma demoni.
– Alice – chiamai, rivolta alla donna bionda. – Hai detto che lo hai cacciato. Come hai fatto?
Lei si strinse nelle braccia e mi rivolse un sorriso sghembo. – Il mio, di gatto, mi ha insegnato un rituale. Come fare per bandirlo.
Come me, evitò di pronunciare uno dei loro nomi. Chiamarli per nome significava attirare la loro attenzione. Evocarli, talvolta. Era strano che uno di loro ci avesse fornito un mezzo per mandarli via, ma Alice continuò: – Al mio gatto piace fare un gioco. Gli piace vedere se riesce a prendermi prima che io sia in grado di mandarlo via. Di solito vince lui, ma qualche volta, qualche volta io ho vinto. – Alice sorrise, quindi fece spallucce e concluse: – Però non funziona per sempre. Potete mandare via un gatto, o anche tutti, per un po'. Ma alla fine i gatti tornano sempre a casa.
Annuii. Era un inizio. – Andiamo via di qui. Andiamo a casa di Clara. – Era quella più fornita di erbe e di altri strumenti. Inoltre, era la casa maggiormente difendibile, se si fossero presentati per impedirci di completare il rito. – Alice ci dirà come fare per cacciare i gatti, e tra quello che sappiamo noialtre, vedremo se c'è un modo per renderlo permanente, magari estenderlo all'intera collina.
Ingrid mi si avvicinò furente e indicò il bambino tra le mie braccia. – Dovrai mandare via anche quello, però. È come loro, Maria. Non possiamo fidarci.
Rosaura, al suo fianco, annuiva e tirava su col naso.
Indietreggiai e lo protessi con entrambe le braccia. – No! – sbottai, scuotendo la testa. – No. Ethan è anche umano. Non diventerà come loro, non lo sarà mai.
Clara si fece avanti. – Ingrid, lasciala stare!
Sospirai, grata del suo intervento. Ma Clara continuò in tono duro, rivolgendosi a me: – Può restare, se le altre sono d'accordo. Almeno finché è un bimbo innocente e innocuo. Ma se si azzarda a fare del male a una di noi... allora dovrà andarsene, è chiaro?
Annuii. Mi sembrava ragionevole, allora.
Un semplice rituale, uno soltanto, per liberare per sempre La Tana del Diavolo dal male. Ancora non sapevamo quanto sarebbe stata lunga quella notte.

lunedì 23 agosto 2021

Un altro tipo di paradiso


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La villa era immensa. Ne ero entrata in possesso da qualche giorno, e non avevo ancora fatto in tempo a esplorarne ogni angolo, presa com'ero ad adattare alle mie esigenze quella che sarebbe diventata la mia stanza principale e la mia preferita: la biblioteca. L'avevo acquisita ancora con i volumi dei vecchi proprietari e, assieme al resto della casa, a un prezzo incredibilmente basso, poiché la villa aveva la fama di essere infestata e gli eredi per anni non erano riusciti a liberarsi di quella che consideravano una trappola mangia soldi. Perfino affittarla, anche per il breve tempo di un ricevimento, era stato impossibile. Faticavo a crederlo, con il magnifico giardino che la circondava, perfetto per un pranzo di nozze o anche solo come set fotografico. La gente era superstiziosa.
Io no: io ero una strega. Entrando, avevo ringraziato gli spiriti che dimoravano in quel luogo, assicurato loro che l'avrei trattato con rispetto, acceso incensi in loro onore e mi ero resa disponibile ad accogliere qualunque messaggio avessero in serbo per me o per altre persone.
Non c'era stato nessuno degli intoppi segnalati dagli altri acquirenti che nel corso degli anni avevano esaminato la villa, nessuno degli incidenti che li avevano fatti scappare a gambe levate.
O forse ero io che non m'impressionavo al rumore occasionale di passi che si avvertivano al piano di sopra, ai cigolii e agli scricchiolii nelle pareti, e allo sfarfallare delle luci, in particolare durante le serate di temporale. Serate come quella, con il vento che soffiava forte fuori dalle finestre, erano le mie preferite. Avevo acceso il caminetto, e il lieve crepitio delle fiamme, assieme al rimbombo dei tuoni distanti e ai sussurri dei fantasmi tra le pareti della biblioteca, mi rassicuravano e mi facevano sentire meno sola. Seduta sul sofà, guardata a vista da un ritratto appeso sopra al caminetto, quadro che personalmente trovavo orribile ma che non avevo mai pensato di cambiare per non offendere i miei ospiti da altre epoche, esaminavo i testi antichi per capire come integrarli con la mia personale collezione che ancora giaceva in parte negli scatoloni. Come disporre i vecchi saggi e le edizioni rare e tutta una serie di volumi di enciclopedie ormai datate, e dove ricavare lo spazio per i miei romanzi moderni, in versione economica e niente affatto ricercata, e soprattutto per i miei libri di incantesimi, in parte recuperati dai banchi di un mercatino e in parte scritti e rilegati di mia mano, era il problema che mi occupava la mente, la sera in cui chiusi gli occhi e smisi di essere lì.
No, non ero morta, sebbene la prima impressione fu che fossi passata da un paradiso fatto di carta stampata a uno in stile più classico, come lo potrebbe immaginare una persona comune. Mi sentivo leggera, e camminavo sulle nuvole, nuvole di colori mai visti, tinte pastello che sfumavano da un verde acqua a un blu cielo, fino a trascolorare in un rosa antico misto al lilla che digradava nell'indaco. Passai la mano nella nebbia e quella si fece solida, un soffice strato di panna montata che profumava di gigli e di rose e di ogni altro fiore, mutando al variare delle tinte che oltrepassavo. Mi sentivo felice. Completa. Amata.
Lì, niente e nessuno avrebbe mai potuto strapparmi via la gioia.



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Se ci avessi creduto, avrei detto che era davvero il paradiso. Ma quella era un'invenzione cristiana, una meta da agognare per un comune uomo virtuoso, un cielo che avrebbe dovuto essere fin troppo affollato, anche considerando che tra le mete possibili quella fosse la più difficile da raggiungere.
Io invece sapevo di aver già vissuto altre vite, e che altre ne avrei sperimentate in futuro, e che non c'era ad attendermi alcuna eternità tra le nuvole. Solo, tra una vita e l'altra, sarei tornata agli Dei, rimanendo puro spirito talvolta per il tempo necessario a guidare nel cammino qualcuno che viveva, e che come me credeva nelle antiche vie. Ma come fosse questo ritorno alla fonte della vita non ero mai riuscita a immaginarlo, non prima di camminare tra nuvole arcobaleno, e di scorgere tra loro i profili immensi e rassicuranti di figure antropomorfe e d'animali, lievi e cangianti, scolpite nella nebbia.
Aprii gli occhi e mi ritrovai in un altro tipo di paradiso, quello dei libri. Di fronte a me la figura evanescente della mia guida sembrava tenermi le mani, anche se io non potevo sentire il suo tocco spettrale.
– È stato illuminante? – mi chiese, i suoi occhi saggi e bellissimi puntati su di me, senza alcun bisogno di battere le palpebre.
Sbirciai il libro che avevo aperto sul tavolino prima di quell'esperienza. Era un volume che non mi ero aspettata di trovare nella villa, un libro scritto a mano, come i miei. Un libro di rituali e incantesimi.
Un antico Libro delle Ombre vergato da chissà quale mano, e nella pagina che avevo casualmente aperto, lessi: "Sigillo per rendere uno spirito tangibile".
– Sì, molto – gli risposi.
Non sapevo se quello che avevo appena vissuto era stato il ricordo di un tempo in cui ero con gli Dei; ma ero certa che se avessi potuto toccare lui, lo spirito guida che mi seguiva da quando avevo sedici anni, l'anima gemella con cui avevo condiviso molte altre vite, allora mi sarei sentita davvero in paradiso.

sabato 21 agosto 2021

Prodromo

Prodromo [prò-dro-mo] s.m. 1. Fatto, fenomeno che costituisce il segno premonitore di qualcosa; preannuncio, avvisaglia. 2. med. Sintomatologia generica che precede il manifestarsi dei sintomi specifici di una malattia.

Etimologia: dal latino prodromus, "messaggero", derivato dal greco pródromos, "precursore", composto da pro, "avanti", e da dromos, "corsa".



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Per quanto mi facesse piacere non essere più da solo, era arrivato il momento di ammettere che coinvolgerla non era una buona idea. Non avevo chiesto io il suo aiuto. I rischi che correva nello starmi accanto li correva per sua scelta. Io avevo provato a liberarmi di lei, ma quella era testarda. Sapeva dove abitavo, aveva visto lo scantinato e letto il mio diario.
Tutte scuse. Avrei potuto cacciarla facilmente. Ero io che non volevo che se ne andasse.
Bene, era arrivato il momento. Appoggiato alla parete dello scantinato, con una mano sulla tempia e un lancinante mal di testa, tenni a freno la nausea e mormorai con voce roca: – Maria, devi andartene.
Sapevo riconoscere i prodromi dei miei attacchi. Lei no.
Maria alzò gli occhi dagli alambicchi e sbuffò. – Te l'avevo detto che l'ultimo era troppo forte! Ed, devi tener conto degli effetti collaterali nell'imbottirti di questa roba. Ora vieni, siediti, è meglio se ti riposi...
L'infermiera mi accompagnò al letto sgangherato. C'era una cosa che poteva fare per me. Le tesi la mano. – Le chiavi.
Lei esitò.
Cercai di scacciare la nebbia dai miei pensieri. – Tu non sai cosa succede quando le medicine non fanno effetto. Che cosa divento. Non voglio farti del male. Non voglio fare del male a nessuno.
Parlavo a fatica, lentamente. La vidi raggiungere il tavolo, prendere le chiavi delle manette e portarmele, sebbene tentasse di protestare: – Da quello che hai scritto non lo sai nemmeno tu. Forse non è così...
La ignorai mentre stringevo alle caviglie i ceppi di ferro assicurati alla parete da pesanti catene. Poi, prima di riuscire ad aprire quelle per i polsi, le chiavi mi scivolarono sotto al letto. Imprecai. Non riuscivo a raggiungerle. Maria si mosse per aiutarmi, ma alzai una mano per segnalarle di tenersi a distanza. Era ancora lì, e io non ero del tutto legato, e ormai sentivo che non c'era più tempo.
– Scappa! – gridai con gli ultimi barlumi di lucidità, prima di scivolare nell'oblio che era il prodromo della violenza.

giovedì 19 agosto 2021

La figlia del generale


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La figlia del generale era... particolare. Ne avevo sentito parlare, ma fu solo quando la mia famiglia si trasferì nella capitale che ebbi l'occasione di incontrarla. Fu durante un Ballo della Vittoria, uno di quegli esagerati e pacchiani festeggiamenti per la conquista dell'ennesima città-giardino del sud, che posai per la prima volta i miei occhi su Cometh. Ma, all'inizio, non la riconobbi.
Era con suo padre e un gruppo di veterani, e a parte la giovane età avrebbe potuto essere scambiata per uno di loro. Capelli corti e una divisa di gala, identica a quella degli altri ufficiali nonostante non avesse mai combattuto, me l'avevano fatta presumere un uomo. Avevo danzato con qualcuno tra gli scapoli più intraprendenti, i pochi che avevano il coraggio di chiedere la mia compagnia per la durata di un ballo nonostante il mio evidente difetto, ma i miei occhi continuavano a cercare la figura di quel giovane ufficiale. Avevo ormai dimenticato il mio desiderio di conoscere la figlia del generale, e tutto ciò che volevo era che quel giovanotto si liberasse dei suoi impegni e venisse a ballare con me.
E alla fine il mio desiderio si realizzò, e quel ragazzo in uniforme giunse provvidenzialmente a separarmi dal più sgradevole tra i compagni di danza di quella serata, come se avesse capito che avevo bisogno di essere salvata.
– Posso avere l'onore? – disse soltanto, e nemmeno la sua voce, sicura e profonda, fu un indizio sufficiente per capire chi avevo di fronte. Fu solo quando l'indesiderato ballerino cedette il posto e il nuovo arrivato si raddrizzò dall'inchino e aprì gli occhi, che lo compresi.
In una sala dove tutti avevano gli occhi d'argento tipici dei cittadini del gruppo alfa, i suoi erano invece arancio, con una pupilla ovale, molto stretta. Occhi da gatto.
Le sorrisi e allacciai le mani alle sue. Non ci presentammo, perché era chiaro che se io avevo capito che lei era la figlia del generale soltanto guardandola negli occhi, lei doveva aver capito chi ero io guardando i miei. Occhi come i suoi, ma azzurri, e per quanta carne mangiassi, la crolanina semplicemente non si depositava nelle mie iridi, rendendomi diversa da tutti gli altri, ma simile a lei.
Il mio difetto.
Non passò molto prima che Cometh mi rivolgesse di nuovo la parola, e lo fece bisbigliando. – Voglio andar via da tutto questo, tu no?
Annuii e in men che non si dica eravamo sulla sua biruote. Cometh sfrecciava veloce tra le vie della capitale, io mi stringevo a lei, con la gonna azzurra del mio abito elegante che mi frustava le gambe. In poco tempo raggiungemmo le scogliere, e lei si dovette fermare. Dietro di noi, la capitale era uno scintillare lontano nei profili dei palazzi, oscurati solo alla base dal labirinto di baraccopoli dei cittadini gamma. Davanti a noi splendeva immensa nella sua pienezza Lanan Crown, spargendo bagliori d'argento sulle onde.
Ci sedemmo sugli scogli con quello spettacolo di fronte.
Tra di noi esisteva solo lo sciabordio dell'acqua, una lieve brezza fredda e salmastra, e a tratti il frinire delle grachelas. Poi Cometh intrecciò le sue dita alle mie, in un modo goffo, incerto, e io seppi che quella strana attrazione che avevo provato nella sala da ballo, ancora prima di sapere chi fosse, la sentiva anche lei. Eravamo due diversità che si erano incontrate.
Naturalmente sarebbe stato tutto molto più complicato di così. Avremmo avuto altre notti alla scogliera, meno silenziose di quel primo appuntamento, meno impacciate: già allora potevo intravederne qualche attimo con il mio dono. Ma la sua famiglia era pienamente impegnata nella guerra mentre la mia, anche se ufficialmente sosteneva gli sforzi bellici, in realtà si stava già preparando per un futuro di pace, anzi, in segreto cercava di affrettarlo per il bene di tutti. Se fossimo stati scoperti, i nostri sforzi ci avrebbero bollati come traditori.
– Voglio andar via da tutto questo – sospirai, facendo eco al suo precedente invito.
– Scherzi? – chiese Cometh, già più rilassata. – È una notte così bella. Così calma. Io vorrei che durasse per sempre.
Le sorrisi, sapendo che i nostri desideri coincidevano. Ma dovevo stare più attenta, tenere per me i miei pensieri, perché ero consapevole che la verità ci avrebbe separate.

lunedì 16 agosto 2021

Consolazione


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Non so perché Antares l'abbia condotta da me. La donna non ha niente che non vada, posso avvertirlo anche senza toccare le sue mani dallo smalto turchese, che si sfregano strette l'una all'altra. Fuori dal caravan, il cielo brontola e borbotta, crepita ed esplode senza sosta, coprendo il tintinnio lieve delle mie catene mentre le afferro una mano con le mie dita pallide.
– Racconta – è l'unica cosa che mi sento di dirle.
Mia madre si era rivolta a Madame Lu solo dopo che tutti gli altri avevano fallito. C'era sempre un prezzo da pagare per avere l'aiuto di quella che in molti definivano una strega, e non si trattava del denaro che pure lei richiedeva. Ma quando ogni medico mi aveva studiato e sentenziato che non c'era una cura, mia madre si scoprì disposta a pagare qualunque prezzo. Così la vecchia Madame Lu ci aveva fatte accomodare nella sua cucina, aveva agitato un pendolo di fronte a me, mi aveva osservato ben bene le mani, e aveva bruciato un fascio d'erbe il cui fumo mi aveva fatto starnutire. E, alla fine, aveva detto le stesse parole che io, oggi, sono costretta a pronunciare di fronte a questa madre.
– Sono spiacente, ma la condizione di tua figlia non può cambiare.
La donna scoppia in lacrime e scosta con un gesto rabbioso la mia mano. Fuori i tuoni e i lampi si susseguono, il temporale si avvicina ma non si decide a piovere. Peccato. Amo il suono della pioggia sul tetto del mio caravan, mi pare quasi di poterla sentire di nuovo sulla pelle. Mi alzo, prendo da uno stipetto un po' d'olio di lavanda e ne faccio colare qualche goccia nell'acqua del pentolino. Il profumo che si diffonde nel caravan ha il potere di calmarmi all'istante, e mentre torno a sedermi mi auguro che il suo effetto sia così rapido anche per la mia ospite. Non smette di singhiozzare, ma sento il suo respiro che rallenta, e anche il lieve russare della bambina nella cesta accanto a lei si fa più lento.
La donna si asciuga le lacrime, trascina la cesta sulle ginocchia e afferma: – Lo sapevo che era una perdita di tempo. Non mi puoi aiutare.
Mi alzo in piedi di scatto, strappando gemiti metallici alle catene. – Non ho detto questo.
Mia madre non aveva più alcuna fiducia in Madame Lu, ed era stata pronta a trascinarmi fuori di casa sua, quando le parole dell'anziana riaccesero una tenue scintilla di speranza. Non ero nata in quella maniera, mia madre glielo aveva spiegato. Capelli neri, occhi scuri, e una predilezione per i giochi all'aria aperta. Solo negli ultimi mesi i miei capelli erano sbiaditi, il sole aveva iniziato a scottare la mia pelle sempre più pallida, e i miei occhi avevano attraversato le sfumature del verde e dell'azzurro. Non riuscivo più a vedere bene nella luce del giorno.
– Non posso restituirle la vita che aveva. Ma posso insegnarle un'altra vita, posso darle tutto ciò che so per consolarla di quanto ha perso.
È stato così che sono diventata la guaritrice in catene. Il cielo era squassato dal rombo dei tuoni come oggi, la notte in cui mia madre mi lasciò nelle mani di Madame Lu. Lei m'incatenò in una stanza buia per evitare che all'alba fuggissi verso un sole sempre più mortale.
– Va bene. Io... io l'affido a te. Tornerò a trovarla.
Mentre la donna mi spinge tra le mani la cesta e ci volta la schiena, so che non la rivedrò mai più. La donna esce dal caravan, e io mi ritrovo da sola con la piccola. Sembra perfetta, ma scostando la coperta, come la donna mi ha raccontato, scorgo le sue mani con due sole dita, grosse e dure come le chele di un granchio. Al contrario di me, lei è nata così. Penso che sia fortunata, perché non conoscerà mai un'altra vita, e perché fin da subito ha trovato rifugio tra la gente di Antares.
Mia madre aveva mantenuto la promessa. Veniva da Madame Lu due volte al mese, mi chiedeva come stavo e parlavamo dei miei progressi. Ogni volta cercavo di rassicurarla, perché capivo quanto stava male nel vedermi incatenata e sempre più pallida. Lei se ne usciva dalla mia stanza buia piangendo, e finiva che ero io a doverla consolare.
Non mi ha mai detto che aveva avuto un altro bambino, che io avevo un fratello. Mia madre lo portava da Madame Lu, ma non me lo faceva incontrare, forse per paura che io lo spaventassi. Ma io lo avevo visto lo stesso, proiettando la mia coscienza fuori da quella stanza come mi aveva insegnato a fare Madame Lu. Era stato grazie a quella proiezione che avevo guidato Antares da me alla morte della mia mentore, e lui mi aveva offerto un'altra casa, un'altra stanza buia, e la possibilità di viaggiare per il mondo, se avessi usato ciò che sapevo per aiutare la sua gente. Avevo accettato.
In fondo, io ero una di loro. Non c'era altro posto per me nel mondo.
Fuori dal caravan inizia a piovere. Sento le gocce tamburellare sul tetto, dapprima lente e scarse, poi sempre più rapide. Mi concentro e sono fuori dalla mia prigione, almeno con la mente.
Le gocce attraversano il mio corpo fantasma. Posso apparire abbastanza solida da illudere la vista, ma non sentirò mai più la pioggia sulla pelle, la carezza del vento, il profumo dell'erba bagnata.

sabato 14 agosto 2021

Canicola

Canicola [ca-nì-co-la] s.f. I giorni più caldi dell'estate; sole a picco, solleone.

Etimologia: dal latino canicŭla, "cagnolino", diminutivo di canis, "cane". Era il nome dato nell'antichità a Sirio, la stella più luminosa della costellazione del Cane Maggiore, che da fine luglio a fine agosto sorge e tramonta col sole. Questi giorni, i più caldi dell'anno, erano perciò detti dies caniculares.



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La canicola, in città, era opprimente. Non tirava un filo di vento, e quando il sole era alto nel cielo le ombre si rattrappivano contro i palazzi diroccati, quasi avessero paura di mostrarsi a quel giudice impietoso. O forse avevano paura di Karol, pensò Maarit, Proprio come Hilo, che nonostante il caldo le si stringeva addosso, appiccicoso quanto l'asfalto sotto le suole consumate di scarpe troppo strette.
– Avanti, non vi fermate, razza di pelandroni che non siete altro – li spronò Karol.
Maarit si asciugò la fronte con il dorso della mano e accelerò il passo. Un altro rivoletto le colò fastidiosamente tra le scapole, sotto la maglietta e lo zaino che Karol la costringeva a portare. Non ricordava di aver mai dovuto portare nulla prima di allora, erano sempre stati gli adulti a farlo; Maarit preferiva pensare che quella nuova responsabilità significava che era diventata grande, piuttosto che ammettere che Karol fosse semplicemente cattiva. Anche se, a volte, lo era.
– Di qua – la donna li spintonò, costringendoli a oltrepassare una porta sfondata. All'interno, nonostante la penombra, la canicola non era affatto attenuata. L'aria stantia e opprimente sembrava anzi più densa che all'esterno. File di scaffali vuoti rivelavano che quello era stato un tempo un negozio, anche se la parola, che le era stata insegnata dagli adulti, per Maarit significava solo "forse c'è cibo, se non è già stato preso tutto".
– Forza, sapete come funziona – sibilò Karol. Con uno strattone li separò e sollevò Hilo fino agli scaffali più alti.
Mentre si chinava a sbirciare sotto gli scaffali, Maarit lo sentì mormorare: – Qui niente.
Con cautela infilò una mano nel buio. Una volta aveva toccato un topo morto, e Karol l'aveva presa in giro dicendole che era schizzinosa, una bambina viziata, e che quella era pur sempre carne. Stavolta invece fu fortunata: le sue dita incontrarono la sagoma familiare di un barattolo, e Maarit si allungò più che poteva per cercare di afferrarlo.

giovedì 12 agosto 2021

Il buio nella mente


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Avevo sognato che il mondo era buio. Strade deserte, avvolte nell'oscurità e nel silenzio. Ero da sola, completamente da sola, sotto un cielo senza stelle, dominato dalla sfera rossastra di un sole immenso che però non spandeva alcuna luce. Chiamai, ma la mia voce non aveva suono.
Avevo freddo, così iniziai a camminare senza meta lungo strade sconosciute, identiche l'una all'altra. Mi stringevo nelle braccia, e speravo di incontrare qualcuno, un qualunque altro essere umano con cui condividere questa bizzarra esperienza che è la vita. Pensavo che sarei invecchiata girando per quelle strade solitarie, e invece ho visto da lontano il suo completo elegante e i suoi occhiali da sole.
Gabriele e io eravamo rimasti ancora una volta alzati fino a tardi a parlare e a infornare biscotti. Il tè di mezzanotte era quasi diventata una tradizione ormai. Lui mi aveva raccontato molte cose del posto da dove veniva, un luogo quasi senza luce, sul lato in ombra del suo pianeta che era in realtà una luna, e del vero pianeta che sembrava un sole rosso nella notte. Mi era stato difficile immaginare quanto dovevano essere diverse le sue città, le sue campagne. Quali piante, quali animali le popolavano. Le sue descrizioni sembravano sempre impossibili sogni, eppure ormai mi fidavo di lui abbastanza da credergli senza battere ciglio: se Gabriele diceva che qualcosa esisteva, da qualche parte, oltre l'immensa oscurità dello spazio, allora era vero.
D'altra parte, avevo già visto molte cose impossibili da quando lui era entrato nella mia vita.
Mi rigirai nel letto, e solo in quel momento mi ricordai di che giorno era. Balzai a sedere di scatto, completamente sveglia, a occhi sbarrati.
– Santo cielo! È oggi, è... oh povera me!
Scesi dal letto di corsa, afferrai la biancheria pulita e il vestito migliore che avevo e mi recai nel bagno avvolta in una vestaglia frusciante. Era così presto che era ancora buio, perciò dovetti accendere le luci. Quando, vestita e pettinata, raggiunsi il salotto in tutta fretta, oltre le vetrate era ancora buio e avevano iniziato a scendere grossi fiocchi di neve, che già stavano imbiancando i campi e gli alberi. In un angolo della stanza un giradischi suonava allegre canzoncine, nel caminetto scoppiettava il fuoco, e il profumo delle candele accese e di una tazza di tè fumante mi attendevano su un basso tavolino di legno accanto al divano.
Avrei dovuto essere felice, era la vigilia di una festa importante, che io non avevo più festeggiato da quando ero rimasta sola al mondo. Eppure, tutto ciò a cui riuscivo a pensare era quel cielo buio, l'oscurità oltre i vetri, che sembrava essersi trascinata fuori dal mio sogno per invadere la realtà.
– Avanti, sole, sorgi – mormorai inquieta, le mani strette l'una all'altra, giunte come in preghiera. Ignorai persino la fame che mi attanagliava, nell'ansia di scrutare fuori dalla vetrata, alla ricerca di una traccia di luce. – Gabriele? – chiamai, ma nessuna voce mi rispose. Possibile che fossi tornata a vivere nel buio e nell'isolamento, in una casa troppo grande? E se lo avessi soltanto immaginato per sentirmi meno sola, se quel mio strano compagno proveniente da un altro pianeta non fosse stato altro che l'invenzione di una pazza? Tutte quelle storie su un mondo oscuro da cui si era allontanato per vivere in una terra così luminosa che gli servivano degli occhiali da sole come protezione, non parlavano forse di me?
Mi voltai lentamente. L'albero decorato, splendente d'oro e di rosso, i pacchetti infiocchettati, le statuine di angeli sulle mensole che avevo sistemato scherzando con Gabriele, i nastri, le decorazioni, potevo anche averle preparate io da sola nei giorni precedenti. Ma non ero stata io ad accendere le candele e il caminetto, a mettere la puntina del giradischi sul vinile, a preparare il tè. No, dovevo scacciare il buio dalla mente, quella vocina che mi diceva che nessuno mai più mi avrebbe amato. Io non ero sola.
Fuori dalle finestre, il sole ancora non si decideva a sorgere. Poi arrivò lui con una spiegazione.
Le sue braccia mi avvolsero. – Buongiorno! O forse dovrei dire: buonasera?
– Sera? – guardai fuori, incredula. Ma certo, il sole non sorgeva perché era già tramontato. La spiegazione era più semplice del previsto.
– Eri molto stanca, così ti ho lasciato dormire. I bambini sono già arrivati, ho accolto io l'ambasciatrice, mi sono occupato di tutto.
Gli rivolsi un'occhiata torva: – Avresti dovuto svegliarmi...
Lui mi zittì con un dito sulle labbra. – Erano solo formalità. E l'ambasciatrice l'hai già conosciuta, no? Non ti sei persa nulla. Allora, sei pronta per incontrare i bambini?
Presi un profondo respiro, mi staccai da lui e m'impettii. Vibravo di gioia: la mia vita stava per cambiare di nuovo, niente più buio, niente più silenzio o solitudine, solo luce, molte responsabilità, certo, ma quella grande casa, e io... non saremmo mai più state un inutile spazio vuoto.

lunedì 9 agosto 2021

Una strada di luci nell'oscurità


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La soffitta aveva le sue regole. Ignorarle significava perdersi, o peggio.
In famiglia tutto l'intricato sistema di regole con cui approcciarsi alla soffitta, e come leggerne i segnali, ci veniva insegnato fin da bambini sotto forma di favola; quando giungevamo all'età in cui ci era permesso di salire le scale, ormai conoscevamo a memoria tutto ciò che avevamo bisogno di sapere, ed era come se quelle nozioni facessero parte di noi né più né meno del sapere come piegare un ginocchio alla volta e sollevare e poi appoggiare il piede più avanti per camminare.
Marta invece no, lei non sapeva come comportarsi. Avrei dovuto guidarla, e fare attenzione, perché ero responsabile anche per lei. Papà non mi avrebbe mai perdonato se avessi perso un estraneo nella soffitta. A dire il vero, in teoria non avrei nemmeno dovuto portarci un estraneo, ma... ormai era fatta, la porta era aperta. Sollevai il braccio alla ricerca del cordino della luce, lo tirai e la lampadina a incandescenza diffuse un bagliore caldo nel raggio di qualche metro, rivelando scatoloni e mobilia accatastati alla rinfusa, che delimitavano cinque sentieri che partivano a raggiera da uno spazio libero attorno alla porta. Marta non lo poteva sapere, ma ogni volta che la porta si apriva, la soffitta era diversa. Al di là del cerchio di luce, un buio così fitto da non lasciare intravedere nulla.
Bisbigliai a Marta di entrare e richiusi la porta dietro di lei.
– Wow. Questo posto è enorme! – esclamò Marta, guardandosi attorno e poi verso l'alto, dove l'oscurità ingoiava ogni cosa al di fuori del nostro rifugio di luce. Sapevo che intendeva: in condizioni normali, una singola lampadina sarebbe stata sufficiente per illuminare, anche se in modo scarso, i muri di mattoni e le travi del tetto.
– Lo è – risposi in tono blando, mentre scrutavo le cinque vie che potevamo imboccare. – Che io sappia, nessuno è mai arrivato a toccare una delle pareti esterne.
Marta mi rivolse un'occhiata scettica. – Mi prendi in giro?
Scossi la testa. Nessun segno di strade da non imboccare o di vie più favorevoli di altre, perciò chiesi a Marta: – Da che parte?
Lei si strinse nelle spalle, poi indicò la quarta stradina. – Di là? Insomma, non lo so, dimmelo tu! Questo posto è tuo.
Mi avviai tra le due cataste di sedie di legno e raccomandai a Marta: – Stammi vicina. Andiamo.
Al limite del cerchio di luce, sollevai la mano per accendere la lampadina successiva. – Resta dove c'è luce. Non andare al buio.
Camminammo così per qualche minuto, io davanti, ad accendere lampadine e bisbigliarle raccomandazioni, e lei dietro, che si guardava attorno con meraviglia, finché non cacciò un grido che mi fece voltare. La trovai inginocchiata, con la vecchia scatola di un puzzle tra le mani.
– Incredibile, ce l'hai anche tu! Io ce l'avevo, proprio questo, e quanto mi piaceva! Poi l'ho perso e...
Marta zittì di colpo. Voltata la scatola, in un angolo, c'era il suo nome scritto a pennarello, con lettere storte e infantili. Mi rivolse un'occhiata di fuoco. – Me lo hai rubato!
Semplice farle notare come allora nemmeno ci conoscevamo, ma lei non voleva sentire ragioni.
– Come hai potuto! Ci tenevo così tanto, non sai quanto l'ho cercato, era il mio preferito!
– Marta, non te l'ho rubato – cercai di spiegarle con tutta la pazienza di cui disponevo. Litigare nella soffitta non era una buona idea: non sapevo come avrebbe potuto reagire. – Quel puzzle è qui perché...
...perché tutte le cose perdute prima o poi finiscono nella nostra soffitta.
– ...mia madre lo ha acquistato al mercatino – mentii. Marta ci aveva già scoperti a fare acquisti al mercatino per nutrire la soffitta, anche se non le avevo spiegato il vero motivo per cui prendevamo tutta la paccottiglia più a buon mercato. Marta mi credette, o almeno smise di scrutarmi con sospetto e di accusarmi.
Mi guardai attorno, era tutto tranquillo. – Senti qualcosa? – le chiesi.
Lei aggrottò la fronte. – Strano che me lo domandi, è da quando ho trovato il mio puzzle che ci sono come... delle campane a vento, o qualcosa del genere. Un tintinnio. Pensavo di essermelo immaginato, ma se lo senti anche tu...
Io non lo sentivo. Ma quello era un segno semplice da interpretare. – Puoi tenerlo, se lo vuoi. In fondo era tuo.
– Scherzi? – Marta scrollò le spalle. – Mi piaceva quando avevo otto anni. Adesso non saprei che farmene.
Con noncuranza lo ributtò nel mucchio e proseguimmo. Superammo qualche diramazione: la soffitta era un labirinto, e se non ci fosse stata la nostra strada di lampadine accese, non saremmo state in grado di ritornare alla porta. Quando tirai l'ennesima cordicella per illuminare il nostro percorso, contemporaneamente un'altra luce si accese, isolata, nel mare di oscurità che si stendeva davanti a noi. Mi fermai, e bloccai Marta con un braccio. Una cosa del genere non era mai successa, perciò non sapevo come comportarmi.
Restammo a fissarla per qualche istante, io in silenzio e lei a farmi domande insistenti. Poi si accese una seconda luce, più vicina.
– C'è qualcun altro in soffitta? – mi chiese Marta.
Una terza luce, davanti alle altre. In effetti, era come se qualcun altro stesse costruendo una strada luminosa come la nostra, solo che partiva dal bel mezzo del nulla. E veniva verso di noi.
Non avevo regole che mi dicevano cosa fare in casi come questi. Mentre riflettevo, si accese una quarta luce, e poi una quinta, con un ritmo sempre crescente. Mi voltai. – Via di qui, presto!
La mia voce incrinata dal panico fu sufficiente a spronare Marta. Spensi l'ultima lampadina che avevo acceso e le corsi dietro, tirando ogni cordino man mano che ci passavo sotto. Mi voltai: chiunque stesse procedendo nella nostra direzione non aveva smesso di accendere una luce dopo l'altra, sempre più vicino. Concentrata nel valutare quanto vantaggio avessimo su chi, ormai era chiaro, ci stava inseguendo, mancai uno dei cordini che pendevano dalle lampade accese.
Mi bloccai e tornai indietro. La regola era chiara: mai lasciare una luce accesa.
– Amelia! – mi chiamò Marta, con disperazione, contagiata dalla mia paura. Si era fermata ad aspettarmi, e scrutava con apprensione l'altra fila di luci. – Dove vai, dobbiamo restare insieme!
Spensi la luce e la raggiunsi. Arrivammo alla porta col fiatone, e con il nostro inseguitore a solo qualche lampadina di distanza. Aprii, spinsi Marta oltre la soglia, spensi la luce e mi tirai dietro la porta nell'uscire sul pianerottolo. L'avevo chiusa da qualche istante soltanto quando avvertimmo un forte colpo che la scosse tutta, seguito da uno scricchiolio sinistro. Strinsi forte la maniglia, trattenendo la porta per sicurezza. Marta mugolò nel silenzio pesante che seguì.
Non so dire quanto attesi, ma alla fine lasciai la maniglia e con la gola secca mormorai: – Non dirlo a mio padre. Che ti ho portato qui sopra.
Lei fece un cenno d'assenso, ancora senza parole. Sapevo che entro domani avrebbe razionalizzato quell'esperienza, magari classificandola come un elaborato scherzo da parte mia, ma per il momento era ancora troppo turbata. Le indicai le scale, che scendemmo in fila indiana per tornare nella mia stanza, ma nessuna di noi riuscì più a studiare.

sabato 7 agosto 2021

Contrito

Contrito [con-trì-to] agg. Che è pentito; che denota pentimento.

Etimologia: dal latino contritus, "stritolato", participio passato di conterĕre, "triturare, logorare", composto dalla particella intensiva cum, "con", e da terĕre, "sfregare, consumare, tritare"; figurativamente, attraverso il latino ecclesiastico, si intende come "consumarsi spiritualmente".



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La vedova del secondo più importante magnate dell'industria cinematografica aveva un'espressione contrita nel raccontare come, rientrando convenientemente da un'asta di beneficenza in cui era stata vista da numerose persone, aveva trovato il suo quinto marito steso a terra in una pozza di sangue, violentemente assassinato. Aveva una quantità sufficiente di denaro e di conoscenze tra gli avvocati più in vista da non subire l'onta di venire scortata in un freddo commissariato e interrogata; tanto più che il suo alibi era solido e le sue motivazioni inesistenti. Dopo quattro divorzi da cui aveva guadagnato cifre esorbitanti, era più ricca del defunto marito, e dalle cronache rosa dei giornali emergeva il quadro perfetto di una relazione idilliaca, come a dire, che la quinta volta era quella buona.
Nessuno le fece più di qualche domanda, mentre la scientifica frugava e fotografava ogni angolo della casa. La lasciarono in pace, a singhiozzare in maniera assolutamente verosimile per il suo amatissimo, defunto marito. Non sapevano che lei, pur essendo stata nella sua breve carriera un'attrice mediocre, era una delle poche in possesso di un talento raro: era in grado di piangere a comando.
Mi staccai dal mio angolo e mi avvicinai a lei, facendo attenzione a non incrociare nessuno di quelli che gironzolavano per la stanza. Le sue lacrime di coccodrillo non m'intenerivano. Io sapevo la verità, io ero là quando il suo giovane amante, istigato da lei, aveva accoltellato il vecchio magnate. Ma nessuno pensava mai di interrogare me... d'altra parte, nessuno tranne Thanatos poteva vedermi o sentirmi, a meno che io non lo volessi, ed era da parecchio tempo che non lo volevo. Mi inginocchiai al suo fianco, tenendo lontana da lei la falce, e sussurrai una sola parola: – Tornerò.
Tempo tre settimane, e un difetto del suo cuore di cui lei non sapeva l'esistenza l'avrebbe tradita. Che ironia, per una donna senza cuore.
La prenderò io quando scoccherà la sua ora, e no, non sarò contrito.

giovedì 5 agosto 2021

L'amore non muore


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Per due notti ero andata alla cripta a piangere sulla sua bara e a supplicare il loro aiuto. La terza notte, quando la falce di luna crescente era ormai tramontata, sentii un sibilo graffiante alle mie spalle.
– Vattene a casa. Non tornare, non di notte. Lo faremo.
Trasalii. Non mi voltai: non volevo vedere uno di quei mostri, i Notturni. Anche se la disperazione mi aveva indotto a chiedere di trasformarlo in uno di loro, non volevo vedere che cosa sarebbe diventato.
La mia voce tremò nel chiedere: – Come... come posso sapere che sarà fatto davvero?
– Vieni di giorno – fu la sua risposta. – Tra qualche giorno, ti lascerà un messaggio.
E così avevo fatto, e quasi non avevo creduto ai miei occhi quando, una mattina, avevo trovato un foglio di pergamena sul pavimento della cripta, con la sua scrittura sopra. Non pensavo che avrei mai potuto rivederla, se non nelle lettere che avevo conservato. Mi sedetti sul pavimento per leggerla e piansi.
Era ricominciata così la storia tra noi, proprio com'era iniziata. Lui, troppo timido, lasciava lettere alla porta della mia casa, e io, non sapendo dove e a chi indirizzare la risposta, abbandonavo la pergamena sigillata da ceralacca lì dove avevo trovato le sue lettere. Solo che adesso era presso la sua dimora, l'ultima, che le nostre parole venivano scambiate. Trovavo conforto, e sollievo, nel sapere che lui viveva ancora, anche se non potevamo incontrarci. Io gli raccontavo delle mie giornate, e di quanto nostra figlia crescesse a vista d'occhio; lui raccontava ben poco della sua nuova esistenza, forse per pudore, e preferiva commentare le mie parole, chiedermi notizie, e ricordare i momenti felici vissuti assieme.
Per Ailey, nostra figlia, la sua morte era stata più difficile. Non le avevo detto nulla di lui, delle lettere che ci scambiavamo. Un giorno glielo avrei raccontato, ma era ancora troppo piccola, e non avrebbe capito.
Difficile spiegare a una bambina di pochi anni che avevo preferito fare di suo padre un mostro, piuttosto che lasciarlo riposare in pace in un luogo in cui per ora non potevo raggiungerlo. Non che potessi raggiungerlo così com'era, ma almeno avevo le sue lettere. Pensavo ci sarebbero bastate, ma quella separazione pesava sul mio cuore come un macigno. Conservare ciò che provavo diventava ogni giorno più doloroso: possibile che non avessi lasciato morire lui, solo per scoprire alla fine che stavo lasciando morire il nostro amore?
Me lo stavo chiedendo anche il giorno in cui raccolsi stancamente l'ultima lettera. Mi accorsi subito, però, che era diversa dalle altre. C'era scritto solo: "Sono pronto. Stanotte, con la luna nuova, alla casa nel bosco. Non portare Ailey."
Il mio cuore saltò un battito: lui voleva incontrarmi. Non sapevo se gli altri Notturni gli avessero concesso il permesso, o se aveva chiesto di vederci lontano dal cimitero per sfuggire al loro controllo. Non m'importava, ero felice come non lo ero da tanto.
La casa nel bosco era un vecchio capanno di legno che avevamo cominciato ad ampliare e ristrutturare quando avevamo la folle idea di vivere da soli, lontani da tutto. Poi era arrivata Ailey, e lui era stato chiamato a combattere lontano da noi, e quel progetto era stato abbandonato.
Era stato difficile ritrovarla, tra la pioggia battente che rendeva ancora più fitta l'oscurità attorno alla mia lanterna, e il fango che ingannava i miei piedi. Non so dire quanto tempo ho trascorso a girare in tondo prima di vederla apparire, come dal nulla, fra alberi contorti dal timore della notte.
Entrai, e subito una voce che mi sembrò familiare, seppure distorta, sibilò: – Spegni la lanterna.
Anche se tremavo, obbedii. Mi tolsi il mantello fradicio e avanzai, trasalendo a ogni asse che scricchiolava. Un corvo, che forse aveva trovato rifugio dalla pioggia nella casa, gracchiò sopra di me, ma non sentii lui avvicinarsi. Eppure, all'improvviso, una carezza fredda mi sfiorò una guancia.
Lo udii inspirare per la prima volta da quando ero entrata. Con il tempo, avrei scoperto che non ne aveva bisogno, se non per parlare.
– Non avere paura. Sono io. Solo... non voglio che tu mi veda. Non come sono ora.
Allungai le mani a toccargli il volto. La sua pelle era dura, fredda, e incavata. Non m'importava. Non avevo paura, era lui, era il mio ragazzo timido, com'era stato allora, così era rimasto.
Lo strinsi in un abbraccio e mi addossai a lui, e anche se non trovai calore nel suo corpo, seppi che il mio sarebbe bastato per entrambi.

lunedì 2 agosto 2021

Presentazioni clandestine

Conclusa l'esperienza sui luoghi nelle storie, ho scelto di cambiare ancora una volta il tipo di contenuto di questo blog, e voglio farlo fin dal primo giorno, quindi niente post di premesse o spiegazioni come facevo di solito per la prima settimana di un nuovo "capitolo". Giusto un preambolo brevissimo, questo.
Voglio tornare a scrivere racconti in modo rilassato, senza perdere troppo tempo a fare ricerca. Per avere almeno una base di partenza, un suggerimento con cui affrontare la pagina bianca, userò di volta in volta una parola chiave con cui cercare un'immagine che mi ispiri, e che se appropriata per il racconto che ne risulta farà parte del titolo. L'ultimo ingrediente è un tappeto sonoro della durata di un'ora, che scandisce il tempo che ho per scrivere e aiuta a immergermi nell'atmosfera della storia, e via! Quel che ne viene, bello o brutto, completo o no, sarà il mio racconto improvvisato del giorno. Un racconto in un'ora, due giorni la settimana, per tenermi in allenamento e darti qualcosa di veloce da leggere. E se ti è piaciuto, lasciami un commento o un like: mi aiuterà a capire se sono sulla strada giusta. Grazie!



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Ovviamente, pioveva.
Ero in piedi davanti alla finestra, nella stanza deprimente di un motel di terz'ordine presa in affitto per una notte, ma non avevo affatto intenzione di dormire. Aspettavo una persona.
No, non è come sembra. Se scrutavo il vicolo illuminata da un lampione, in cerca di sagome che si affrettassero a trovare riparo nel mio stesso edificio, non era per il desiderio carnale di consumare un fuggevole incontro clandestino. Clandestino era la parola giusta, ma era di tutt'altra natura l'incontro che avevo in programma per quella sera. E a dire il vero, coinvolgeva più di una persona; ma era stato deciso di affittare a coppie stanze diverse, per non dare troppo nell'occhio, prima di riunirci tutti dove mi trovavo in quel momento.
Un piccolo e tondo orologio sul muro scandiva la mia impazienza, battendo un ritmo più regolare delle gocce di pioggia sulla finestra, quando tra gli scrosci d'acqua notai un'ombra in un mantello nero e fradicio correre verso la porta d'ingresso, un piano più in basso e due stanze più a destra della mia finestra. Non sapevo chi fosse, non avrei potuto capirlo nemmeno se quella donna, o uomo, avesse attraversato la strada a volto scoperto, in pieno giorno. Non ci eravamo mai incontrati di persona.
Indossai la mia maschera e mi girai verso la porta della stanza. Al mio fianco un vecchio modello di comunicatore, una grossa scatola ingombrante e goffa se confrontata con i più eleganti e moderni ologrammi, ronzava mostrando una serie di scariche statiche, il risultato di una chiamata con destinatario errato. Lo avevo impostato io così, per assicurarmi che nessuno potesse inserirsi nell'apparecchio e spiare quella riunione con una chiamata silente.
La precauzione non era mai troppa. In fondo, stavamo cospirando contro il presidente della nostra nazione, e quel folle aveva già dimostrato di essere pronto a tutto pur di restare al potere.
Qualcuno bussò alla mia porta. Mi schiarii la voce.
– Sei tu amore mio? – chiesi, spostandomi subito dopo di un passo a sinistra, quanto più silenziosamente possibile. Avevamo deciso di usare parole d'ordine che conservassero l'illusione che il nostro fosse un banale incontro galante; ma nel caso in cui dietro la porta non ci fosse stata chi attendevo, era meglio evitare che costui usasse la mia voce per individuare la mia posizione e fare qualcosa di poco piacevole come spararmi.
– Sono io! – rispose una voce femminile oltre la porta. – Apri, mio marito non sospetta nulla.
Tirai un sospiro di sollievo e andai ad aprire la porta. Anche lei aveva già indossato una maschera che le copriva il volto. La feci entrare, poi richiusi la porta alle sue spalle, le strinsi la mano e mi presentai: – Piacere di conoscerti. Come concordato, io sono Solis.
Non usavamo i nostri nomi. Non li avevamo mai usati, nemmeno nei primi contatti che avevamo avuto tramite comunicatore, con le nostre immagini criptate. L'idea di scegliere i nomi delle antiche divinità di Terrana come alias poteva sembrare pretenzioso, ma colui contro il quale stavamo per sollevarci usava per sé il nome di una divinità straniera, dunque ci era sembrato di buon auspicio combattere un dio invasore nel nome delle tradizioni della nostra terra, del nostro popolo.
Non avrei mai immaginato, qualche mese fa, che ci saremmo incontrati di persona, e forse fu per questo che le tenni la mano più a lungo di quanto fosse prescritto dall'etichetta.
– Albarea – si presentò lei con il suo nome in codice, sfuggendo al mio tocco. – Ma questo già lo sai, capo. Gli altri?
Scossi la testa mascherata. – Siamo i primi. E, comunque, niente capo: siamo tutti fratelli, qui, tutti abbiamo lo stesso obiettivo.
Forse lei sorrise dietro la maschera. Dalla sua voce allegra, immaginai che lo avesse fatto: – È solo l'inizio. Questa cosa crescerà oltre le tue aspettative: non hai idea di quanti sopportano in silenzio le vessazioni di questo tiranno, ma sarebbero pronti ad alzare la testa e combattere per la libertà, se solo trovassero qualcuno disposto a guidarli. Sarai tu quel qualcuno? Dipende solo da te, ma se ne sei davvero convinto, dovrai scegliere stanotte, e non esitare. Quel che dirai, deciderà le sorti del nostro...
Albarea s'interruppe: altri colpi alla porta, altri ospiti. La nostra riunione clandestina da rivoluzionari stava per cominciare.