lunedì 29 agosto 2022

Doppio agguato


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Il posto dove Hashum il Lupo mi portò per il nostro primo incarico era anche peggiore del Ritrovo del Ranger, il locale retrò dove l'avevo trovato. Questo aveva in tutto e per tutto l'aspetto di un saloon da film western, dalle porte a ventola sagomate, alla scala che portava al soppalco al primo piano che correva lungo tre pareti, al pianista che suonava nell'angolo in fondo. Dalla balaustra del soppalco si affacciavano sulla sala sottostante signorine in abiti d'epoca provocanti, che di tanto in tanto scendevano le scale come consumate attrici e cercavano di adescare uno degli avventori al bancone, o il vincitore della partita a poker nel tavolo d'angolo. Una di loro era venuta anche per Hashum il Lupo, una nuova senza alcuna ombra di dubbio, poiché una collega più navigata l'aveva poi presa sottobraccio e dirottata verso un gruppetto che scommetteva ai dadi, e dove i soldi cambiavano padrone a ogni grido di giubilo o sconfitta. Hashum il Lupo non aveva certo l'aspetto di uno che navigasse nell'oro, sebbene facesse il Bollatore, uno dei mestieri più remunerativi di Essensis. Ma quella signorina, e la sua compare, non poteva saperlo, dato che sarebbe stato impossibile entrare nel Saloon con le insegne da Bollatore in bella vista. Eravamo lì in incognito.
Hashum aveva perfino cercato di convincermi a rinunciare alla tinta azzurra dei miei capelli, fin troppo riconoscibili, ma io non ne avevo voluto sapere. Così mi aveva avvolto la chioma in un fazzoletto e calcato un cappello da cow-boy in testa, e tra quello e i pantaloni di foggia maschile che mi stavano larghi parevo un ragazzino che avesse preso in prestito i vestiti del padre, mentre Hashum, nel suo soprabito consunto che evidenziava la sua magrezza, faceva la figura di un vagabondo. Quando ci eravamo seduti al bancone, al vederci così male in arnese, il barista ci aveva offerto da bere del whisky scadente, e io ci ero rimasta piuttosto male quando Hashum aveva requisìto entrambi i bicchieri per sé.
Non era il maestro che avrei scelto, se avessi potuto. Ma era l'unico che potevo ricattare con i sensi di colpa e una vecchia promessa fatta a mia madre. Perciò ero lì, al Saloon, con Hashum il Lupo.
Nel chiacchiericcio che animava il locale tra le note del pianoforte era difficile distinguere un bisbiglio, ma Hashum aveva un modo tutto suo di sussurrare da un angolo della bocca senza quasi muovere le labbra, che restandogli accanto avrei udito anche nel bel mezzo di un'esplosione.
– La prima parte del nostro lavoro consiste nell'osservare. – Hashum accennò allo specchio dietro il bancone. Dalla nostra angolazione, potevo vedere un uomo ben vestito dai lineamenti duri e lo sguardo furbo, che sedeva a un tavolo con una bionda che dall'abito che indossava e dai suoi atteggiamenti era chiaramente una lavoratrice del Saloon. – Cerca chi può condurti dalla tua preda, studia posti come questo.
– Mh-mh – mormorai, e mentre era distratto cercai di agguantare uno dei due bicchieri che aveva davanti, ma Hashum spostò il braccio a bloccarmi e l'agguato non mi riuscì.
– Concentrati – mi rimproverò Hashum.
Sospirai e rivolsi lo sguardo allo specchio, distogliendolo di tanto in tanto perché non fosse troppo ovvio, mentre Hashum e io conversavamo con il barista e con i nostri vicini al bancone di tutto e di niente. Da quel che potevo vedere, l'uomo che stavamo puntando aveva l'atteggiamento cauto di chi aveva qualche affare losco per le mani, ma anche tutto il tempo per cedere alle lusinghe della donna, offrirle da bere e restare in sua compagnia. Aveva rifiutato però l'invito di salire di sopra in camera con lei. Per ben due volte.
Alla seconda, Hashum sbuffò. La bionda si volse verso di noi e gli fece un cenno, un segnale appena percettibile, mentre il suo accompagnatore era impegnato a versarle da bere.
– Avevo sperato di parlargli in privato, senza sollevare un polverone – mi sussurrò Hashum nel suo modo, mentre si voltava piano piano sullo sgabello come per rivolgere un'occhiata indolente alla sala. – Ma a volte devi essere pronta a cambiare i tuoi piani e a improvvisare.
Hashum posò un piede a terra, e all'istante le sue movenze accelerarono. In un attimo si lanciò contro l'uomo seduto al tavolo, lo sollevò di peso e lo sbatté contro la parete. La bionda fu altrettanto lesta a dileguarsi, e il cicaleccio degli avventori si interruppe.
– Noi due dobbiamo fare due chiacchiere – gli disse Hashum.
– Se è per parlare di Stoke, potevi risparmiarti di tendermi un agguato, Bollatore – sibilò l'uomo, attirando immediatamente sul mio maestro e su di me le attenzioni di altri loschi scagnozzi. – Non lo vedo da mesi. Il tizio sa di essere finito in lista nera. Ormai è bruciato, e nessuno sano di mente farebbe affari con lui.
Hashum allentò la presa, ma non lo lasciò andare. Stava per fargli una domanda, quando vidi qualcuno sporgersi da dietro le scale, con un'arma puntata contro di lui.
– Hash! – gridai per avvertirlo. Non ebbi il tempo di agire, ma non ce n'era bisogno. Rapido come il vento, Hashum lanciò uno dei suoi coltelli elettromagnetici, che centrò la canna della pistola laser dell'uomo in agguato. L'istante successivo, una scarica elettrica lo convinse a gettarla a terra.
Mi riunii a Hashum, e gli feci notare, con rammarico, che nella concitazione l'uomo dallo sguardo furbo si era dileguato.
– Non importa – mi disse Hashum, mentre già si affrettava a bloccare il suo aggressore, e io recuperavo il coltello elettromagnetico scarico e ormai sicuro da toccare. – Quello non sapeva niente per davvero. Questo invece... – Con un sorriso furbo, Hashum lo strattonò per condurlo fuori dal Saloon, mentre alle nostre spalle la vita e i divertimenti tipici del locale ricominciavano come se nulla fosse accaduto. – ...ci dirà tutto ciò che vogliamo sapere.
Ricambiai il suo sorriso: forse, dopotutto, non avevo scelto male il mio maestro.

sabato 27 agosto 2022

Flessuoso

Flessuoso [fles-su-ó-so] agg. 1. Che si piega con facilità. 2. Che ha forme o movimenti sciolti.

Etimologia: dal latino flexuosus, derivato dal tema di flexus, "piegato", participio passato di flectere, "piegare".



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Maipe si chinò e infilò una mano nel barattolo di miele e poi la leccò lentamente, con gusto, proprio come avrebbe fatto un gatto. Era impossibile sbagliarsi. C'era una grazia felina nei suoi movimenti che non era mai appartenuta ai passi impacciati di Natiel. Eppure la mente di Flora si ostinava a percepire in lui la familiarità del volto che aveva amato quando lei stessa era stata poco più che una bambina.
Natiel - no, Maipe - levò lo sguardo verso di lei e infine si alzò con uno scatto flessuoso, che nulla aveva di umano. – È una proposta allettante quella che mi fai, amica mia. Noi due insieme per l'eternità. – La voce infantile strideva con il tono solenne e mellifluo del suo discorso. Maipe proseguì, aggirandola lentamente, in senso orario. – Se solo rapire una fanciulla fosse quello che intendo fare...
– No? – riuscì a dire soltanto Flora, la testa affollata di dubbi e recriminazioni. "Non hai forse graffiato mia figlia?", pensava Flora, mentre si girava a fronteggiarlo per non dargli le spalle. "E al volto, tra tutti i posti possibili?"
Maipe rise. – Hai paura di me, adesso? Davvero non ricordi quanto ci divertivamo assieme?
In silenzio, senza staccargli gli occhi di dosso, Flora raccolse da terra il rametto di betulla che aveva portato, assieme al miele, per ogni evenienza. Il bastone e la carota con cui sperava di persuaderlo a rinunciare alla bambina che aveva segnato come se fosse di sua proprietà. Pronta come una domatrice di fronte a una bestia pericolosa, che però aveva l'aspetto di un innocuo ragazzo, Flora sostenne il suo sguardo e frustò l'aria con il rametto, ottenendo un sibilo soddisfacente.
Sibilo che attirò l'attenzione di Maipe. La creatura dalle sembianze di ragazzo si fermò e si fece avanti, a braccia larghe. – Di questo si tratta? Di pareggiare i conti?
– Io voglio solo proteggerla! – urlò Flora.
Maipe abbassò le braccia e soggiunse, in tono mesto: – Allora siamo in due.

giovedì 25 agosto 2022

La mercante delle necessità


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Metronas di notte è un labirinto di grigi palazzi e di neon scintillanti, di larghe strade sopra le quali sfrecciano le autojet e di oscuri vicoli in cui si radunano le Aberrazioni più pericolose della città, pronte a tagliare la gola o anche a fare di peggio a chiunque osi mettere il naso nei loro affari. Così mi era stato detto, e mi era stato detto inoltre che a Metronas tutto è in vendita, persino i desideri.
Io lo sapevo bene, perché avevo venduto la mia libertà, o meglio, un anno della mia vita, in cambio di una speranza per mio fratello; e anche quando quella speranza era sfumata, avevo comunque dovuto pagare il prezzo.
Alla fine di quell'anno, quando il clan di elfi che possedeva la parte migliore della città non poté più pretendere legalmente che restassi confinato nel loro laboratorio a fare da cavia, prima di tornare da Kàli, da mio fratello e dai nostri amici nella Riserva della Pianura, volli scoprire se quello che mi era stato detto su Metronas era vero. Non il suo aspetto, che avevo già potuto osservare dalle vetrate del mio alloggio, un appartamento che definire regale era dir poco. Uno sfoggio di lusso completo di tutti i migliori gadget tecnologici che il ventiquattresimo secolo poteva offrire, un'allettante trappola costruita per indurmi a prolungare volontariamente la mia permanenza tra le grinfie di quegli infidi orecchie a punta, sapendo che ad attendermi alla Riserva c'era tutt'al più una tenda e il minimo indispensabile di tecnologia obsoleta. Ma tutto il lusso del mondo non mi avrebbe fatto restare un giorno di più, e non importava quanto gli elfi si sforzassero di compiacermi: dissi loro addio senza rimpianti, e camminai per le strade di Metronas per la prima volta da solo dopo mesi. Non avrei più rivisto quella specie di troll che mi accompagnava ai rari appuntamenti che mi avevano concesso con Kàli, sempre in ristoranti esclusivi o in locali riservati all'élite, e che sospettavo mi avessero messo alle calcagna più per assicurarsi che non scappassi che per farmi da guardia del corpo.
Ad ogni modo, non era per provare la famigerata nomea dei vicoli di Metronas che mi ero messo in cammino, e dunque non mi serviva affatto, o almeno così supponevo, il brutto e alquanto massiccio angelo custode che mi aveva tenuto d'occhio nell'ultimo anno.
Quello che volevo vedere era il quartiere dei mercanti.
Avevo studiato le mappe olografiche e sapevo che vi era più di una zona in città adibita ai negozi, ma nessuna era grande come il quartiere dei mercanti. E anche se quelle mappe le avevo dovute lasciare nel mio ormai ex appartamento, non era tanto difficile da trovare. Bastava seguire il rombo delle autojet e le scie delle motojet e le frecce intermittenti dei neon che attiravano fin da lontano i possibili clienti fin nelle tane dei famelici lupi. E lo intendo in senso metaforico, anche se alcuni dei negozianti sono davvero licantropi. Ma questo è un altro discorso.
Vagai tra le botteghe e le bancarelle per ore, trovando merce di ogni tipo. C'era chi vendeva impianti cibernetici di contrabbando e sciamani che mettevano a disposizione a pagamento i propri incantesimi, chi cedeva ricordi e conoscenze tramite connessione corticale o collegamento wireless dei rispettivi nanobot e ciarlatani che promettevano di aiutarti cambiare la tua variante umana.
Se fosse stato possibile, probabilmente a questo punto Metronas sarebbe stata piena di Changeling, un'Aberrazione in grado di assumere la forma di altre varianti umane che si credeva estinta, almeno in questo secolo, prima che arrivassimo io e mio fratello. Se fosse stato possibile, io e mio fratello saremmo tornati dei comuni esseri umani di corsa, perché la gente non pensa mai agli svantaggi della nostra situazione.
Mi stavo quasi per dare per vinto quando vidi un negozio dall'ingresso angusto, senza vetrine, con un'insegna scolorita sormontata da un neon che sfarfallava e sfrigolava. L'insegna recava la scritta "Bottega dei desideri esauditi".
Entrai.
Oltrepassai una tendina di perline che era già pacchiana nel secolo da cui provenivo io, figuriamoci qui, nel lontano futuro. L'interno, però, sembrava decisamente migliore rispetto all'esterno. File di scaffali ordinati riempiti di boccette contenenti liquidi o fumi variopinti, un bancone, e un salottino con divanetti a fiori e un basso tavolino di vetro nell'angolo in fondo. Il tutto illuminato da svariate candele sparse per la stanza o infilate in candelabri alle pareti.
Da una porta che non avevo notato mi venne incontro una donna, scarsamente vestita con qualche brandello di stoffa e le stesse file di perline che formavano la tenda all'ingresso. La sua pelle pareva di plastica, lei stessa sembrava quasi un manichino e come tale l'avrei scambiata non fosse stato per la fluidità dei suoi passi e la nebbiolina rossastra che le danzava sulle braccia. Una sciamana, dovevo immaginarlo dall'assenza di illuminazione moderna e di qualunque altra forma di tecnologia.
Mi schiarii la voce e chiesi: – È questa la bottega dei desideri...
– Non commercio in desideri – m'interruppe la donna in tono stizzito. – I desideri sono deboli, effimeri, volatili. Io preferisco i bisogni, le necessità.
– Ma allora l'insegna...
– È del precedente proprietario – La donna batté un piede a terra. – E sono così stufa di doverlo ripetere che ormai penso che la cambierò, quell'insegna. Il mese prossimo. Forse.
La fissai inebetito. Un'espressione assai poco adatta alle sembianze che avevo assunto per vagare senza problemi tra le vie di Metronas, quelle di un elfo, tra le varianti umane più comuni e anche piuttosto rispettate in questa parte della città, ma gli elfi sono solitamente conosciuti oltre che per le orecchie a punta, per la loro intelligenza superiore.
– Oh, che vuoi, cocco, attira i clienti. Saresti mai entrato nella "Bottega dei bisogni soddisfatti"?
Repressi una risata. – No, non credo.
La donna indicò il salottino. – Vieni, sediamoci. Sono sicura di poter individuare la necessità che solletica il tuo palato. Forse il bisogno di primeggiare? No... tu vorresti avere necessità di riposo? Si dice che quelli come te nemmeno dormano...
– È una leggenda urbana – replicai senza accennare a muovermi. – Ma io non ho mai detto di essere un cliente.
La bottega non era ciò che cercavo, e allo stesso tempo aveva già soddisfatto i residui di curiosità che ancora avevo. Era vero, a Metronas tutto era in vendita. Avrei potuto andarmene a quel punto, ma si stava così bene in quell'angolo di pace, tagliato fuori dal traffico e dal vociare della gente che si udiva attutito attraverso la tendina di perle.
La mercante di necessità socchiuse gli occhi e si fregò le mani. – Capisco, capisco. Allora hai una necessità di cui desideri disfarti.
Le sue parole mi fecero immediatamente pensare al bisogno di respirare il mana presente nell'aria del ventiquattresimo secolo, necessità che impediva a me e a mio fratello di tornare a casa, nel nostro tempo, là dove l'atmosfera ne era quasi del tutto priva.
– È possibile...? – chiesi, senza preoccuparmi di celare il mio interesse.
– Ma certo, ma certo. – La donna prese con delicatezza una boccetta tra le più grandi, che conteneva un liquido rosso. – La vedi questa? È la fame, un bisogno molto, molto potente. L'ho acquisita da un'Aberrazione che desiderava dimagrire, e da allora quella persona non ha più patito la fame.
– Vuoi dire che da allora, l'Aberrazione non ha più dovuto mangiare?
Sembrava troppo bello. Ecco lì, trovata per caso, la soluzione, la risposta a tutti i nostri problemi. Jake e io saremmo stati liberi di scegliere in quale tempo vivere.
Ma la mercante delle necessità rise, spezzando sul nascere le mie belle speranze. – Ma no, sciocchino! Certo che deve ricordarsi di mangiare qualcosa ogni tanto, se vuole continuare a vivere! Ma non sentendone più la necessità, può raggiungere senza sforzi il peso che desidera. Perché, se è presente, la necessità vince sempre sul desiderio, te l'ho detto: è più potente.
Non sarebbe cambiato nulla. Senza mana, saremmo comunque morti. Solo che non ci saremmo accorti di essere in pericolo.
Ringraziai la sciamana e con una scusa lasciai la sua curiosa bottega. Forse no, non era vero: non tutto era in vendita a Metronas. Il futuro che volevamo io e mio fratello, tutto ciò che avevamo perso venendo qui e diventando dei Changeling, di certo non lo si poteva trovare in un banco dei pegni.

lunedì 22 agosto 2022

Una sgradevole verità


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Non la conoscevo. Probabilmente apparteneva a un altro battaglione. Ma questo non m'impediva di provare pietà per quello che le stavano facendo.
Anna se ne stava rannicchiata in un angolo a piangere in silenzio, dopo che i suoi aguzzini l'avevano riportata nella cella in seguito alla seconda sessione di tortura. Io cercavo di non guardarla, per non metterla a disagio, mentre esploravo ancora una volta le pareti della cella fetida in cui ci avevano messi assieme. Eravamo entrambi dell'idea che il nemico lo avesse fatto per ascoltarci parlare tra noi di piani e dettagli strategici, perciò avevamo convenuto di non dirci nulla che esulasse dalla situazione presente, a parte i nostri nomi.
La stazione spaziale aliena era in apparenza molto più organica, eppure molto più avanzata della nostra tecnologia. Avevano la gravità artificiale, tanto per cominciare. Ed era ragionevole supporre che possedessero un qualche sistema di tecnologia stealth, perché da quanto mi avevano fatto camminare prima di sbattermi qui, questo posto doveva essere dannatamente grosso, e noi non lo avevamo ancora trovato. Da una vetrata lungo i corridoi mi era parso di vedere Giove, quindi, se mai ne fossi uscito, forse potevo dare una mano ai ricognitori.
– Smettila, Walden, mi fai girare la testa – mormorò Anna in tono stanco, la destra premuta contro la fronte. Il braccio sinistro pendeva inerte al suo fianco, straziato dalla prima tortura, la pelle irriconoscibile avvolta nelle bende che avevamo ricavato dalle nostre camicie. Anna si rifiutava di usare quella mano, sebbene la pelle lì fosse intatta, solo un po' rovinata sul palmo. Sosteneva che quel braccio era disgustoso, e non riusciva a riconoscerlo come il suo. Non potevo che darle ragione.
Raggiunsi la presa d'aria e tentai ancora una volta di strappare la griglia dai suoi supporti. Non c'erano viti o bulloni che la tenessero al suo posto, eppure allentare le sbarre pareva impresa impossibile. Ero certo che dall'altro lato ci fosse un tunnel largo abbastanza da consentirci la fuga, se solo fossi riuscito ad accedervi. Da quella grata proveniva un ronzio continuo, e talvolta una serie di scatti e colpi metallici, o le fredde voci degli alieni che ci avevano catturato, la loro lingua contorta e oscura.
Da quella grata, avevo udito le urla strazianti di Anna. Entrambe le volte.
La cosa strana era che non le avevano mai chiesto nulla, si divertivano a torturarla sadicamente e basta.
Anna me lo aveva raccontato. La legavano su di un lettino, esponevano la pelle del braccio, e le versavano sopra un denso liquido giallastro, simile per consistenza a quello che colava in alcuni punti della nostra cella, che però era grigio. Ce ne eravamo tenuti lontano, tanto per sicurezza.
Anna non aveva sentito niente, all'inizio. Poi, freddo. Infine era giunto il calore, un tepore gradevole in principio, che si era fatto sempre più intenso fino a darle la straziante impressione di bruciare la carne fino all'osso. Era a quel punto che Anna urlava, urlava loro di smetterla, tentava di torcersi e di strappare gli arti dalle catene invisibili che la immobilizzavano. Ma ogni suo sforzo era vano e loro non avevano alcuna pietà.
Erano lucertole, dopotutto. Rettili a sangue freddo. Un nemico che non conosceva empatia.
Dopo quel trattamento la pelle pareva gomma raggrumata, e quegli esseri la strappavano via a brandelli filamentosi dal suo braccio. Anna diceva che a quel punto, la cosa più spaventosa era che non faceva nemmeno più male. Sentiva solo un po' di resistenza, come se fosse stata incollata a quel che c'era sotto, che non era un muscolo sanguinolento, bensì una nuova pelle, anzi, squame, repellenti, lucide squame.
Mentre rabbrividivo al pensiero e mi chinavo per esaminare meglio la grata, sentii da oltre la porta la voce aliena e metallica che sciorinava ordini che non potevo comprendere. Io e Anna ci guardammo spaventati. No. Non poteva essere vero. Non così presto.
Avevamo calcolato che tra la prima e la seconda volta in cui l'avevano rapita dalla nostra cella erano passate diverse ore, l'equivalente di mezza giornata, se non avevamo perso del tutto il senso del tempo. Anna non si era ancora ripresa, non potevo permettergli di portarla via di nuovo.
– Che cosa vogliono? – bisbigliai nell'intervallo tra la voce incomprensibile e la complessa operazione di apertura della porta. Anna scosse la testa, nascosta dal braccio destro, e non rispose.
Insistetti, ma tutto quello che riuscii a cavarle di bocca, dalla sua voce scossa, fu un: – Non ci stanno torturando.
Mi sembrava impossibile che lei li difendesse. Non dopo quello che le avevano fatto.
Quando i clangori all'esterno terminarono e la porta si aprì, mi alzai in piedi e mi frapposi tra gli alieni dalle sembianze di rettili e lei.
Non avevo armi per difenderci, ma sentenziai: – Adesso basta. Non la prenderete stavolta.
Impassibile, la lucertola verde con le ali, che doveva essere il loro capo, indicò me. Gli altri due, uno rosso e uno azzurro, senza ali ma con il muso allungato, mi afferrarono per le braccia. Mi divincolai, strattonandoli, e mi voltai indietro, verso Anna.
– Scappa! – urlai. La porta era aperta e forse, mentre gli alieni erano impegnati con me, lei avrebbe avuto una possibilità.
Anna era in piedi, e la sua voce era fredda, nell'abbassare il braccio destro e rivelare la pelle contorta e raggrumata come una maschera su metà del suo volto: – Ti consiglio di non agitarti. Io l'ho fatto, e una parte dell'acido mi è schizzata sul viso.
Con entrambe le mani, Anna graffiò la fronte, e la guancia, e strappò via la pelle a brandelli, e sotto, il suo viso era ripugnante, squamoso, i tratti spigolosi e inumani come quelli dei nostri nemici. E allora compresi.
Non ci stavano torturando. Ci stavano trasformando.
Ed era giunto il mio turno.

sabato 20 agosto 2022

Bioccolo

Bioccolo [biòc-co-lo] s.f. 1. Fiocco di lana o di cotone non filato; estens. fiocco, batuffolo. 2. Cera sciolta e colata lungo la candela.

Etimologia: probabilmente dal latino buccula, "ricciolo", sovrapposto a flocculus, diminutivo di floccus, "fiocco".



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Foto di Craig Adderley da Pexels


Amaltea era sdraiata sul fianco, il capo piegato in avanti, e sussultava impaziente al tocco delle due dita con cui Talìa afferrava una ciocca del vello ovino sulla sua schiena, e a quello freddo delle lame che tagliavano vicino alla pelle. Le candele sopra le casse gettavano lunghe ombre, mentre le fiammelle danzavano il tango con la cera.
– Ahi! Lìa, fai piano – si lamentò Amaltea.
– Non ci posso far niente, se non vedo – replicò l'altra, la voce calda come i mari del sud.
Lo facevano di notte, nascoste tra l'attrezzatura, perché Amaltea se ne vergognava. Prima di unirsi alla carovana di Antares, e anche dopo, all'inizio, Amaltea lo faceva da sola, ma il risultato non era dei migliori. Antares di certo lo sapeva, poiché lui sapeva tutto, ma non si sarebbe intromesso se non fosse stata Amaltea a chiederlo, e lei di sicuro non lo avrebbe mai chiesto. E così era andata avanti nascondendo sotto le vesti i ciuffi di lana nei punti che non riusciva a raggiungere, anche se le davano un fastidio pazzesco, soprattutto d'estate. Non aveva problemi a mostrare i piedi a forma di zoccoli caprini, ma il vello sulla sua schiena... quello era più personale.
Talìa era nata nella carovana o quasi. Era stata abbandonata tra i mostri, e non aveva ricordi di una vita diversa. Fin dall'inizio era stata il punto di riferimento di Amaltea e, con il tempo, la sua migliore amica. Era stato allora che Amaltea aveva osato chiedere a lei, sebbene dubitasse che con le sue mani, simili a chele di granchio, Talìa potesse aiutarla. E invece la ragazza l'aveva sorpresa maneggiando lesta un paio di forbici costruite apposta per lei. E se all'inizio Amaltea era nervosa, alla fine parlavano e ridevano, raccogliendo in un secchio i morbidi bioccoli sparsi sul pavimento.
Le fiammelle, stremate dalla danza, crepitavano sugli stoppini dopo aver pianto lacrime di bioccoli sui piattini delle bugie. Le due amiche le spensero, lasciandone una soltanto per rischiararsi la via del ritorno ai rispettivi letti.

giovedì 18 agosto 2022

La storia della madre


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Foto di Flora Westbrook da Pexels


Nelle gelide e oscure notti d'inverno, quando il vento ululava attorno alla nostra casa e l'odore di birra e idromele riempiva le nostre gole e le narici, a volte, solo a volte, era possibile cavargli fuori di bocca questa storia. Quando incominciava, ci raggomitolavamo tutti nelle pelli e nelle pellicce, stretti attorno al fuoco, e non dicevamo una parola, nemmeno una, zitti zitti dall'inizio alla fine per evitare di interromperlo e indispettirlo, che quello era pure capace di alzarsi e andarsene fuori a pisciare e poi sparire, così, senza nemmeno finire la storia.
Era una storia troppo bella per lasciarla a metà.
Nonno Brynjar era stato uno dei guerrieri che avevano partecipato alle scorribande del valoroso Eiríkrinn Rauda, e le storie che aveva da raccontare sul suo conto erano leggendarie, ma mai nessuna poteva superare quella dell'isola d'oro. Era avvenuta nell'anno migliore per il nostro villaggio, quando le navi stavano per tornare cariche di tesori e i nostri guerrieri colmi di gloria. Il vento era favorevole e i rematori non dovevano quasi toccare i remi negli scalmi, che si muovevano da soli: sembrava che gli Dei favorissero i nostri marinai nel loro viaggio di ritorno. Ma Freya, tra tutti, aveva in mente una sorpresa speciale per alcuni di loro, perché ecco apparire nella luce del tramonto un'isola sconosciuta, non segnata sulle mappe, e la sua terra, invece di essere di roccia grigia e di erba verde, riluceva di splendido oro.
Ci fu un certo trambusto al vederla, sulle navi: qualcuno, diffidente, giurava che un istante prima l'isola non c'era, ed era apparsa così, tra i flutti, per opera della stregoneria. Altri sostenevano che i nostri occhi, stanchi e fissi verso casa, erano stati ingannati dal riflesso del sole tra le onde, e che dunque non vi era alcuna isola da raggiungere. Altri ancora erano certi che l'isola fosse lì dove la vedevamo, e che ci fosse un lauto bottino ad attenderci, ma che se ci fossimo attardati troppo saremmo finiti intrappolati tra i ghiacci sulla rotta del ritorno.
Il valoroso Eiríkrinn Rauda, dopo aver ascoltato tutte queste voci, si consultò con i suoi uomini più fidati, e tutti convennero che l'isola d'oro valeva la pena di essere esplorata, e segnata sulle mappe per visitarla ancora la primavera successiva. Così fecero, e tirate le barche in secca sulla spiaggia, gli esploratori prescelti dallo stesso Eiríkrinn Rauda lo seguirono nell'entroterra. Tra costoro vi era anche Brynjar Haraldsson, che come dice, non potrà mai dimenticare il crepitio dell'erba d'oro sotto i suoi stivali, simile a quello delle fiamme in un braciere, e il bagliore che feriva gli occhi nel riverbero del tramonto, e il profumo inebriante che pareva proprio quello dell'idromele.
Giunsero a una casa solitaria, ai margini della foresta, e vennero accolti dalle donne che la abitavano. Non c'erano uomini, dissero, sull'isola, anche se alcune di loro erano madri, con le figlie in braccio o attaccate alla gonna.
Invitarono gli stranieri a entrare, offrirono loro un lauto banchetto e birra a volontà; ma una di loro, una fanciulla di nome Hlìf, si avvicinò a Brynjar e gli sussurrò di non mangiare né bere nulla, e altre di loro, come seppe in seguito Brynjar, avvertirono in uguale maniera i loro favoriti tra i guerrieri.
Nella notte, chi aveva bevuto e mangiato dormiva di un sonno profondo, e le donne vennero e li portarono via, sollevandoli come se fossero stati leggeri come fuscelli. Ma quando Hlìf venne, Brynjar era sveglio, e così gli altri che erano stati avvertiti. E così videro che la frutta del banchetto era marcia, e la carne putrefatta, e la birra acqua stagnante, in cui le streghe avevano versato le loro pozioni. Brynjar Haraldsson, Eiríkrinn Rauda, e tutti gli altri che erano svegli si batterono con le streghe quando vennero a prendere i loro compagni, e all'alba fuggirono, assieme alle fanciulle che li avevano avvertiti, mentre già l'isola d'oro stava svanendo nella bruma del mattino. Mentre correvano, l'erba d'oro si impigliò nei loro stivali, e le foglie dorate degli alberi rimasero incastrate nelle loro barbe e nei loro capelli, e quando presero il mare, o guerrieri scoprirono che l'erba e le foglie preziose che avevano portato con loro non svanivano con il resto dell'isola, e che l'oro era vero, non un'illusione o una stregoneria com'era stato il banchetto.
Tornavano a casa da uomini ricchi, ma il tesoro più prezioso per Brynjar Haraldsson fu la sua adorata moglie Hlìf, discendente della stessa Freya, o così si raccontava, mandata dalla Dea a convincere le fanciulle più innocenti dell'isola d'oro a porre fine ai malefici delle streghe con l'aiuto dei guerrieri prescelti.
Lei fu la madre della nostra stirpe, così forte, così saggia, e il suo nome sarà per sempre tramandato.

lunedì 15 agosto 2022

La guerra delle stagioni


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Foto di Oleja Titoff da Pexels


Le stagioni erano in subbuglio. Eco non poteva capire le conseguenze del suo sventurato tradimento, ma io sì. I reggenti Glacies che avevamo scelto di supportare in assenza dei legittimi sovrani avevano congelato ogni conflitto, raffreddato gli animi, portato nel mondo degli esseri umani, che tanto ne avevano bisogno, un po' di pace.
Inverni più rigidi ed estati meno calde erano stati effetti collaterali sopportabili. Non mi ero mai pentito della mia scelta, io che ero in grado di vedere. Nel mezzo della mia maledizione, le visioni nello specchio in cui ero intrappolato si erano rivelate un dono. Specialmente nel momento di crisi in cui i legittimi sovrani, i Divini, erano svaniti dalla Chiave di Volta, dai loro troni, senza lasciare traccia. Ma quella era storia passata, e ormai disperavo di vedere il loro ritorno. Per quanto lo avessi interrogato guardando indietro, nelle profondità misteriose dei suoi recessi che non osavo esplorare, lo specchio non me lo aveva mai mostrato.
Eco non aveva il mio dono, e questa era la sua unica scusante. La sua testolina di vento era beatamente inconsapevole di ciò che stava accadendo nel mondo degli esseri umani, e di quello che sarebbe accaduto nel nostro. Da quando gli Ardentes avevano preso i troni con la forza, scacciando con il loro calore i reggenti Glacies che si scioglievano al loro cospetto, nulla era più stato lo stesso. Gli animi si scaldavano, gli esseri umani reagivano e lottavano scatenati dalla più piccola scusa. L'estate era più calda che mai, le messi si seccavano nei campi, gli inverni non portavano refrigerio.
Non potevo fare a meno di pensare al mio riflesso, la mia amata, intrappolata in un simile mondo. Ma non credo che sarebbe stata più felice, se fosse rimasta con i Floràe.
Io lo vedevo. Vedevo perfino quel pacifico popolo, i figli della bellezza creati solo per essere ammirati, imbracciare le armi e muovere guerra al fulcro del nostro mondo, la Chiave di Volta, e agli usurpatori che l'avevano occupata. Riuscivo a immaginare i selvatici Faunòe, rimasti indifferenti fino a quel momento a chi li comandava, concentrati soltanto su loro stessi, snudare zanne e artigli per difendere la propria casa dalle fiamme degli Ardentes. Ma faticavo a figurarmi l'ombra della guerra sui luminosi prati della primavera.
La regina Rosa che affilava le sue spine. Il dolce Giglio che usava il suo polline e il suo profumo per stordire. Il grazioso Convolvolo che imparava dall'Edera ribelle a strangolare. E Belladonna con il suo veleno a condurre tutti gli altri, perché lei sapeva quanto è facile uccidere.
Non erano stati creati per la battaglia, i miei compagni Floràe, eppure non si sarebbero tirati indietro. Anche se non potevano vincere. E i petali del Ciliegio e del Mandorlo sarebbero stati spazzati via dai rami a ogni folata di vento rovente, bruciati nell'aria prima ancora di toccare terra.
Le lacrime scesero copiose sul mio volto, mentre Eco rideva, apparendo e sparendo attorno a me, deliziata come se avesse fatto uno scherzo.
Gran bello scherzo aveva tirato a entrambi i mondi.
– No, non hai davvero idea di quello che hai fatto, Eco – mormorai in tono solenne, e la sua risata mi parve allora la musica più triste che potessi udire.

sabato 13 agosto 2022

Terreo

Terreo [tèr-re-o] agg. 1. non com. Fatto di terra. 2. Del colore grigio livido della terra.

Etimologia: dal latino terreus, derivato da terra, "suolo, terra", con la terminazione eus, indicante "materia" o "somiglianza".



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Ero nella foresta assieme a Mirto, quando accadde. Entrambi a piedi nudi, entrambi con le scarpe in mano, camminavamo fianco a fianco in cerca di un posto perfetto dove liberare le nostre anime di driadi, che già scivolavano leggere nel terreno a ogni passo, saggiando il suolo alla ricerca di vita. Non parlavamo, non ne avevamo bisogno. Sotto di noi, nella terra, le nostre anime si sfioravano, e io lo sentivo, ed era tutto ciò di cui avevo bisogno.
Finché non vidi quella penna d'uccello sul sentiero. Grigia, terrea. Mi fermai di botto, a occhi spalancati.
Probabilmente anche il mio volto aveva assunto la stessa sfumatura, perché Mirto mi prese la mano e mi chiese: – Tutto bene?
La sua voce sembrò terribilmente lontana. Davanti agli occhi avevo quella stessa piuma, ma stavolta era in una mano tesa, stretta a pugno, che me la porgeva. Dita piccole, affusolate come quelle di un ragazzo nella prima adolescenza.
Non riuscii a vedere il volto dietro la piuma, la sua fisionomia era come sfocata nella mia mente. Sentii però la mia anima che affondava nella terra, e un grido di terrore con una voce che non era la mia, o almeno credo non lo fosse stata.
Quando mi ripresi mi scoprii inginocchiata, intenta a modellare con le mani una seconda penna d'uccello, a incidere con le unghie le linee inclinate che simulavano le barbe di quella piuma terrea.
Mirto era inginocchiato accanto a me. Non ricordavo di aver lasciato la sua mano.
– Lily. Che cosa succede? – mi chiese lui, dolcemente.
– Era una cosa di prima – risposi in fretta, mentre già i dettagli svanivano come un sogno alla luce del mattino. – Una cosa importante di prima.
Prima dell'amnesia. Ma non serviva specificarlo, lo sapevamo entrambi
– Ma non riesco... – mi bloccai e scossi la testa, la fronte aggrottata.
Mirto mi abbracciò e mi lasciò tutto il tempo che mi serviva per riprendermi prima di proseguire.

giovedì 11 agosto 2022

Sotto sotto


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Foto di Deepak Rawat da Pexels


Regola numero uno del trovarsi sotto il diluvio durante uno spaventoso temporale: se vedete un'enorme dimora fatiscente lungo il vostro cammino, per quanto sia allettante ripararsi all'asciutto e cercare aiuto dai proprietari, non entrate. Non avvicinatevi nemmeno. I castelli, le ville, le antiche residenze nobiliari dall'aspetto imponente e lugubre durante una tempesta sono ancora più pericolose del rifugiarsi sotto un albero. I fulmini, almeno, non cercano consapevolmente di spaventarti, né ti rincorrono o provano a mutilarti prima di ammazzarti.
Glielo avevo detto a Robert, ma lui no, non l'aveva voluto capire. E poi, aveva detto quello che non si dovrebbe mai dire in situazioni simili.
– È solo una casa, che vuoi che succeda?
"Che vuoi che succeda".
Certo, fossimo stati nella vita reale, pronunciare o meno quella frase non avrebbe fatto alcuna differenza, quel che doveva succedere sarebbe accaduto comunque. Ma eravamo dentro un cavolo di libro, e qui ogni parola contava, e poteva modificare nel bene e nel male la nostra condizione.
– Sto cercando di mantenerci in vita, ma sembra proprio che a te non importi – gli bisbigliai sottovoce, mentre ci intrufolavamo di soppiatto, dalla porta socchiusa e cigolante, nel salone principale. I nostri passi cauti rimbombarono fino al soffitto, nonostante l'occasionale crepitio di tuono e gli scrosci di pioggia che venivano dall'esterno. Se c'era qualcuno, vivo o morto, di sicuro doveva averci già sentito.
I nostri abiti e i nostri capelli madidi gocciolavano sul pavimento, lasciando una scia facilissima da seguire. Robert illuminò con la fiammella di una candela la penombra dell'atrio.
– Dov'è che l'hai trovata? – gli chiesi.
Strano. Non avevamo una candela con noi, non avevamo niente per accenderle, e anche se avessimo avuto l'una e l'altro, lo stoppino sarebbe stato così fradicio da rendere impossibile appiccarvi una fiammella.
Robert fece spallucce. – Non lo so. Me la sono ritrovata in mano così, all'improvviso. Ringrazia che almeno abbiamo un po' di luce.
– I miei alluci ringraziano – borbottai, restando dietro di lui. C'era un che di sospetto in quella casa, e non pensavo fosse solo la mia immaginazione. Nell'aria un suono costante, lieve, come un sospiro cupo, e talvolta un leggero squittio che mi metteva i brividi. Ma prima che potessi chiedere a Robert se lo sentiva anche lui, lui mi indicò le scalinate in fondo all'atrio.
– Sopra o sotto? – mi chiese.
– Preferirei restare su questo piano, se non ti dispiace.
Avevamo già abbastanza guai a orientarci quasi del tutto al buio senza dover prevedere, in caso di pericolo, una fuga precipitosa rotolando giù dalle scale, o la difficile ascesa di gradini scivolosi mentre il maniaco che sicuramente ci aspettava in cantina ci tallonava con una risata gracchiante.
Robert aprì una porta laterale e si affacciò su un corridoio. Si spostò per lasciarmi guardare.
– Visto? Non c'è nulla di spaventoso. È solo una casa abbandonata...
In quell'istante un lampo illuminò le finestre del corridoio, rivelando sulle pareti una fitta trama di scritte di varie dimensioni e grafie, che circondavano una serie di parole più grandi, tutte identiche, ripetute in più punti con diverse inclinazioni.
SOTTO.
Urlai e mi tirai indietro.
– ...di uno scrittore che ha finito la carta? – concluse Robert, imperturbabile.
Come faceva a restare così calmo in una situazione del genere proprio non lo capivo. C'erano tutti i segnali che eravamo capitati in una storia truculenta, di quelle che andavano sempre a finire male. Mi allungai per tirarlo indietro dalla porta e chiuderla, e fu allora che lo vidi. Proprio in fondo al corridoio.
Una figura luminosa, incappucciata. Un sinistro bagliore cremisi nell'oscurità. E il suo braccio che indicava verso il basso.
– No, grazie. Di qualunque cosa si tratti, passo! – sbottai e chiusi la porta. Mi rivolsi a Robert: – Restiamo il più vicino possibile all'ingresso, niente esplorazioni, niente...
Qualcosa nello sguardo di Robert mi indusse a pensare che le cose si stavano già mettendo male. Aveva la stessa espressione stordita di quando parlavamo di questioni importanti e dopo due minuti lui aveva già dimenticato tutto quello che gli avevo detto nel corso dell'ultima ora di conversazione. Era snervante, perché io ricordavo parola per parola quello che aveva detto lui. Entrambe le parole che lui di solito riusciva a pronunciare. Non era difficile.
– Ma... come...? – mormorò Robert, e seguendo il suo sguardo io mi girai e vidi quello che lui già stava osservando. Ovvero, che non ci trovavamo più nell'atrio, bensì in una stanza più piccola, arredata in modo antiquato, con una serie di candelabri che emanavano un lieve pallore azzurrognolo in fila su una lunga tavola apparecchiata, e più lontano un set di poltroncine e un divanetto su cui stava spaparanzata in modo scomposto la figura incappucciata, traslucida, che risplendeva rossastra nell'oscurità. Sulle pareti, sul soffitto e sul pavimento, la scrittura nervosa, talmente fitta da essere in più punti illeggibile, se non per la parola "sotto" scritta più in grande e ripetuta qui e là, baluginava di una sfumatura rosso sangue tra le ragnatele.
Dal basso venne una voce lugubre, che fu impossibile non attribuire alla figura incappucciata che si girò a fissarci con orbite vuote. – Miei ospiti. Sotto sotto, voi volete restare...
Alle nostre spalle, una porta cigolò e si chiuse con un tonfo.

lunedì 8 agosto 2022

Sputare fuoco


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Foto di David Henry da Pexels


– Il mio bisnonno sapeva sputare fuoco per davvero.
Lo dissi senza pensarci, stordito dai bip bip e dalle musichette elettroniche che provenivano dappertutto attorno a me, mischiandosi in una cacofonia confusa, mentre il personaggio sullo schermo che avevo di fronte saltava e sparava palle di fuoco dalla bocca al comando del mio joystick e del mio palmo che batteva furiosamente sui pulsanti. Accanto a me un ragazzino più grande, circondato da un seguito di ammiratori che io cercavo inutilmente di impressionare, stava facendo la stessa cosa.
– Sì, come no. E mia nonna era una carriola – ribatté il ragazzino, e gli altri giù a ridere.
Mi arrabbiai e mi misi a manovrare il joystick con rinnovata furia, ma non gli dissi che la sua era una palese bugia, mentre io avevo detto la verità. Non avrebbe mai creduto a quella che per me era una cosa ovvia, che nella mia famiglia scorreva sangue di drago. Non avrebbe mai creduto nemmeno al fatto che probabilmente eravamo coetanei, anche se io sembravo un po' più piccolo. I ragazzini come lui mi sottovalutavano sempre, per quello.
Non era la prima volta che i miei genitori mi parcheggiavano in una sala giochi mentre loro erano fuori a fare il loro spettacolo. Numeri con il fuoco, ovviamente: anche se il sangue di drago si era annacquato generazione dopo generazione, e già mio nonno non era più in grado di emettere fuoco dalla bocca, potevamo ancora controllare e plasmare il fuoco di una torcia, ad esempio, o di un accendino come quello che tenevo sempre nella tasca dei pantaloni.
I primi anni stavo fuori con loro. Mi piaceva guardare mio padre che soffiava quei getti di fiamma. Nessuno sapeva che non usava i trucchi degli altri mangiafuoco, nessun liquido infiammabile tenuto in bocca o altri mezzucci tipicamente umani. La sua era pura e semplice magia del fuoco. Vera magia.
Ma erano passati i tempi della superstizione e nessuno ci avrebbe mai creduto. Perciò, quando fui più grande e cercai di unirmi allo spettacolo durante una serata particolarmente movimentata, mia madre, che era soltanto umana anche se fin dall'inizio conosceva il nostro segreto, decise che era troppo pericoloso per me assistere agli spettacoli, che rischiavo di esagerare e fare qualcosa che non sarebbe mai apparso naturale e spiegabile agli occhi degli spettatori, e da quel giorno iniziarono a darmi qualche moneta e a parcheggiarmi nelle sale giochi. Poco male: lì inscenavo il mio spettacolo personale e guadagnavo qualche spicciolo per la famiglia anch'io.
L'ho già detto che sembravo più giovane e che gli altri ragazzini mi sottovalutavano? Merito di quella goccia di sangue di drago che era arrivata generazione dopo generazione fino a me. Era facile apparire come un moccioso inesperto, allettarli con le monete che mi rimanevano, e indurli a puntare le loro. Vita dopo vita, quei bulletti che si credevano tanto furbi perdevano sempre. Probabilmente anche i miei riflessi più rapidi mi venivano da quella goccia di sangue di drago, ma se lo avessero saputo, mi avrebbero accusato di aver imbrogliato.
Non tutti sapevano perdere. Come il ragazzino con la nonna-carriola.
Quando il suo minuscolo saltatore sputafuoco cadde lungo tutto lo schermo, e nel suo angolo in alto lampeggiarono le zero vite e la richiesta insistente della macchinetta di inserire un'altra moneta, il mio ancora proseguiva baldanzoso su e giù per le piattaforme di quel paesaggio elettronico abbattendo nemici a destra e a manca. Gli rivolsi un'occhiata sprezzante e allungai una mano verso il suo mucchietto di monete incolonnate, ma lui fu più svelto di me a intascarle.
– Ehi! – sbottai. – Una scommessa è una scommessa!
Ecco, quello era uno dei momenti in cui odiavo la mia voce acuta da pulcino e la mia bassa statura, che impedivano agli altri ragazzi di vedere la mia vera età e di prendermi sul serio.
Il ragazzino mi sputò addosso, e disse: – Io non faccio scommesse con i bambini. Buu-huu, vai a piangere dalla mamma!
Lo disse in un tono lamentoso, e scimmiottò anche il gesto di asciugarsi gli occhi con le mani a pugno, il tutto per far ridere la sua combriccola di ammiratori. Fino a un attimo prima, però, era stato ben disposto a prendersi le monete di un bambino, se avesse vinto la scommessa.
Mentre ancora ridevano, mi pulii la sua saliva dal viso. Ero furioso. Sbirciai nei dintorni, ma tra i bip elettronici dei videogiochi e i flash delle immagini sugli schermi non vidi né sentii alcun adulto che potesse intervenire a fermarmi.
Io non sapevo sputare fuoco come mio bisnonno, ma avevo un accendino nella tasca dei pantaloni e la magia del fuoco che pulsava forte nelle mie vene e chiedeva a gran voce di essere liberata.

sabato 6 agosto 2022

Ingollare

Ingollare [in-gol-là-re] v.tr. (ingóllo ecc.) [sogg-v-arg] Inghiottire qualcosa in fretta o avidamente; trangugiare, ingoiare.

Etimologia: derivato dal latino ingulare, derivato da gula, "gola", incrociato con collum, "collo".



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Foto di Alex Green da Pexels


Era inutile che me ne stessi per ore ai fornelli se poi Katrina si limitava a ingollare tutti i manicaretti che le avevo preparato senza nemmeno assaporarli. Questo, di lei, mi dava sui nervi. Avrebbe dovuto saperlo quanto ci tenevo, in fondo ci eravamo incontrate a un corso di cucina.
E invece no, lei proprio non capiva che si era messa con una cuoca.
– Ho un appuntamento – si giustificò lei con la bocca piena, cosa che mi fece agitare il mestolo in aria con stizza.
– Ah sì? Spero sia con la tua prossima coinquilina, se continui così.
Qualcosa nella mia espressione dovette allarmarla, perché Katrina smise di trangugiare bocconi di arrosto e mi rivolse uno sguardo colpevole.
– Sono solo affari – biascicò, abbassando gli occhi al piatto. Poi si alzò e mi diede un bacio dal sapore speziato. – Lo sai che non potrei mai scambiarti con nessun'altra. Insomma, dove la trovo un'altra così brava in cucina... e in camera da letto?
Scossi la testa. Per quella battuta le avrei volentieri tirato un frustino per le uova, se lo avessi avuto a portata di mano.
Katrina si rimise seduta e ingollò in pochi istanti il resto della cena, prima di prendere il soprabito, quel sacco informe che lei definiva "borsa", e uscire di corsa dal nostro appartamento. La sua fretta, e il suo sorriso sornione nel salutarmi quando chiudeva la porta, la facevano assomigliare a una bambina che se ne andasse a giocare con gli amici.
Mi ci vollero mesi per scoprire in cosa consistevano i suoi appuntamenti, e quanto quella immagine che credevo metaforica fosse in realtà azzeccata.

giovedì 4 agosto 2022

Come fiori recisi


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Foto di Eva Bronzini da Pexels


All'inizio eravamo in tre. Vivevamo in una grande casa scura, con pesanti tende di velluto alle finestre, così il sole non ci avrebbe scottato. I pavimenti di marmo, i quadri antichi, la scalinata di mogano, i saloni, i tappeti, gli arazzi alle pareti... quello era tutto il mio mondo.
E io ero felice.
Papà era nella mia testa sempre, e io nella sua. Pensavamo le stesse cose. Volevamo le stesse cose. Non c'era nemmeno bisogno di parlare, tra noi. Eravamo uguali.
La mamma era diversa. Lei sapeva di cose buone da mangiare, ma non le avrei mai fatto del male. Quand'ero troppo piccola per uscire a caccia con mio padre, ricordo che si tagliava un dito di proposito e me lo offriva. Io leccavo il sangue dal suo polpastrello, ma non prendevo mai più di quanto lei potesse dare. Nessun altro lo avrebbe fatto per me, lo sapevo già allora.
Tutti gli altri erano solo prede, questo mi diceva papà, e per avere il gustoso liquido rosso da loro avrei dovuto tagliare io, con il coltello dalla gemma di rubino che lui mi avrebbe regalato, come promesso.
Alla mamma piacevano i fiori. Li andava a prendere fuori, di nascosto, e li metteva in un vaso nel salone; ma forse perché li aveva tagliati, forse perché non amano il buio, i fiori morivano presto. Impallidivano, appassivano, morivano. E lei ci restava male ogni volta.
Il sole non scottava la sua pelle, ma da quando viveva con noi, nella casa scura, anche mamma era diventata pallida come noi. A me non dispiaceva se ci somigliavamo un po' di più, ma una sera sentii lei e papà discutere. Mamma era appena tornata dal mercato, dove prendeva cose buone da mangiare per lei che non cacciava come me e papà. La gente del paese diceva delle cose su di noi, che eravamo strani, che eravamo pericolosi. E avevano iniziato a pensare che lo fosse anche lei.
Papà diceva che era arrivato il momento di andare via, ma lei non lo voleva.
Pioveva, la notte in cui cambiò tutto.
Mamma e io stavamo sistemando dei nuovi fiori nel vaso in salotto. Avevamo aperto le tende, perché era buio e mi piaceva vedere la pioggia battere sui vetri nel bagliore delle candele, e i lampi di luce improvvisi che non mi scottavano la pelle, né mi ferivano gli occhi. Contavo fin quando non ne udivo il fragore.
Prima che finissi di contare, però, qualcuno bussò alla porta.
Era strano, non veniva mai nessuno da noi.
Mamma mi disse di chiudermi in camera mia, ma io feci solo finta di andare, e mi fermai in cima alle scale. Non avevo mai visto un estraneo. Volevo vedere com'erano.
Mamma aveva ancora un mazzo di fiori sottobraccio, avvolto nella carta marrone. Quando gli estranei entrarono e lei cadde all'indietro, la carta si aprì, i fiori si sparpagliarono sul pavimento e le corolle si tinsero di rosso.
C'era un così buon odore lì nell'ingresso, che mi alzai e scesi qualche scalino senza nemmeno pensarci.
Uno degli estranei si accorse di me, mi indicò e gridò: – Mostro!
Sentii la rabbia di mio padre, la sua furia mentre si precipitava su di loro e squarciava le gole con il suo pugnale. Caddero a terra come tanti fiori recisi, e poi fui tra di loro anch'io, e bevvi, e mi saziai come non avevo mai fatto nella mia vita. Il sangue degli estranei, il sangue di mia madre, non c'era più alcuna differenza, era solo il liquido rosso così tanto buono da bere.
Sentii l'urgenza nella mente di mio padre, dovevamo andarcene, casa nostra non era più sicura.
Un'altra casa ci attendeva altrove, altre pesanti tende di velluto, altri pavimenti di marmo, altri quadri alle pareti; ma non saremmo più stati in tre, mai più.
O almeno, questo era ciò che credevo allora.

lunedì 1 agosto 2022

Sara senza morte


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Foto di Marta Dzedyshko da Pexels


In principio fu una giornata di gioia. Gaudio e lietezza risuonarono in tutte le stanze della dimora natia, e un banchetto fu preparato, e doni vennero offerti, perché era il suo sedicesimo compleanno e Sara, l'adorata figlia, sorella, nipote, non sarebbe morta quel giorno com'era stato invece predetto. Non l'attendeva una bara e una tomba, né la putrefazione di un fiore ancora in boccio colto troppo presto.
Ma non l'attendeva nemmeno la vita, non quella vita che le giovani donne sognano, a cui le loro madri le hanno preparate. Sara la vedeva per tutte le altre, quella vita: la vedeva per la cugina Aurelia e il suo futuro sposo non troppo gentile da cui aveva cercato di metterla in guardia; la vedeva per sua sorella, già maritata come l'indovina aveva predetto, alla quale rivelò in che notte avrebbe dovuto giacere con il marito per generare un figlio; e la vedeva anche per Bettina, la terzogenita dei vicini di casa che la madre desiderava mandare in convento a farsi suora, e che invece di lì a pochi mesi sarebbe scappata con un giovanotto del paese. Tutte loro si sarebbero fatte donne, e avrebbero avuto una famiglia, e alla fine sarebbero morte. Sara vedeva così chiaramente le possibilità e le scelte che le avrebbero condotte incontro al loro destino, i mutamenti che il tempo avrebbe inevitabilmente prodotto, così come vedeva che per lei non ce ne sarebbero stati.
Era senza destino, un essere al di fuori del tempo, non morta, ma nemmeno più viva.
Se ne rallegrò, in principio. Le regole a cui gli altri dovevano sottostare per lei non valevano, niente e nessuno avrebbe più potuto nuocerle. Come se avesse avuto un ritratto in soffitta a patire al suo posto, Sara si tolse tutti gli sfizi in cui non aveva mai osato indulgere. Si accorse ben presto che quei piaceri non la soddisfacevano, e d'altra parte vedeva, interrogando la sorte chiusa nei suoi occhi, come avrebbero ridotto la gente comune.
Con l'andare del tempo, tutto si riduceva a putredine e marciume. Anche la sua famiglia. Anche la sua casa natia.
Sara se ne allontanò. Scelse di farlo prima che la sua innaturale, eterna giovinezza diventasse troppo evidente. Una mattina prese la via dei boschi e non tornò più indietro. Costruì una casupola lì, nel bosco, accanto al gorgoglio del torrente che scorreva in zampillanti cascatelle. Ma non lo fece da sola.
All'epoca, tra i suoi familiari, tra gli amici di famiglia e persino tra la servitù, già c'era chi non le rivolgeva più la parola, considerandola portatrice di sventura da quando aveva rivelato una sorte avversa; altri, invece, a cui aveva parlato di bei momenti, o che avevano saputo evitare i pericoli grazie alle sue parole, la cercavano con insistenza, dipendendo da lei come da un benevolo oracolo. Uno di costoro era Teodosio, il garzone, che la seguì nel bosco.
Sara sapeva che lo avrebbe fatto. Sapeva anche che l'avrebbe aiutata a costruire quella che sarebbe stata nei secoli a venire la sua dimora. E conosceva le parole che lo avrebbero indotto a non tornare, una volta finito il lavoro.
Così, quando lui le chiese che cosa le fosse accaduto da indurla a isolarsi a quel modo, lei gli spiegò con parole che poteva comprendere: – Ero come una mela che marciva sul ramo di un albero, non destinata ad essere colta, solo a cadere quando il mio tempo sarebbe giunto, e stava per giungere, quel tempo. Ora invece sono il dipinto di una mela ritratta nell'istante della pienezza, non avvizzirò mai, ma sarò d'ora in poi solo un'immagine, mai più una cosa vera. Per questo devo andare via, e tu non dovrai nutrire speranze, né dire ad altri dove mi trovo, né tornare quando la casa sarà finita. Perché là fuori c'è qualcuno che ti aspetta, e che ti renderà molto felice, ma non sono io.
Era la sola bugia che Sara dei Sortilegi avesse mai detto, o che avrebbe mai detto finché sarebbe esistita; ma erano anche le sole parole che avrebbero potuto allontanare per sempre da lei Teodosio.