sabato 30 ottobre 2021

Sparuto

Sparuto [spa-rù-to] agg. 1. Molto magro, smunto. 2. fig. Molto scarso di numero, esiguo.

Etimologia: forma antica del participio passato di sparire.



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Prima dell'anno 1798 solo uno sparuto gruppo di persone poteva raccontare di averne vista una, e per la maggior parte si trattava di testimonianze inaffidabili, incontri avvenuti tra i fumi dell'alcol o nel labile stato tra la veglia e il sonno, che tanto spesso produceva immagini fantasiose o mostri irreali.
Quell'anno invece la cosa apparve in pieno giorno, di fronte allo sguardo terrorizzato di quanti festeggiavano nella piazza cittadina la consueta celebrazione in onore della Dama del Fuoco. Ed erano davvero in tanti, poiché nessuno sarebbe mancato a un simile evento, nessuno avrebbe tralasciato di omaggiare uno dei quattro creatori del mondo, perciò non fu più possibile negare che la cosa fosse reale.
Avvenne con le campane che suonavano e i canti che si levavano da ogni parte, e mentre la gioia esaltava i cuori dei bravi cittadini, un basso, cupo, lugubre lamento stridente risuonò strisciando sul selciato della piazza. Non sembrava avere un'origine precisa, perciò tutti udirono in egual misura l'empio grugnito. Poi, su un anonimo muro bianco, una figura scura dai contorni dapprima indefiniti, poi via via più netti, si allungò e si assottigliò fino ad assumere le sembianze di una persona allampanata, dalla magrezza eccessiva, che come il personaggio di un dipinto, sembrava intrappolata sulla superficie su cui si era disegnata. La cosa restò ferma per un istante, poi allungò un braccio sparuto, tutto pelle e ossa, che terminava in una mano dalle dita lunghe, e tra le dita il misero gambo di un fiore appassito. Tra la folla qualcuno urlò, i più vicini alla figura tentarono di scappare, poi la marea umana si aprì e la Dama del Fuoco apparve maestosa, e col suo potere bruciò la cosa.
Da quel giorno, queste cose... queste ombre, come vennero chiamate, iniziarono ad apparire con frequenza sempre maggiore, cancellando con la loro presenza il calore e la luce che i creatori avevano disposto su ogni cosa, fino a soffocarle del tutto nel volgere di appena un secolo.

giovedì 28 ottobre 2021

Lacrime aride


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Forse avevo sbagliato a lasciare Katouri nell'ignoranza, ma da quando aveva rotto il suo guscio e l'avevo stretta tra le braccia, avevo avvertito l'esigenza di proteggerla da tutto.
Anche dalla verità.
Le avevo raccontato che gli individui spregevoli che terrorizzavano il nostro villaggio, rapendo di tanto in tanto una o due donne in età fertile, non avevano nulla a che fare con noi. Le avevo spiegato che erano estranei, invasori venuti da un mondo al di là del cielo stellato, troppo forti e aggressivi rispetto al nostro popolo pacifico per riuscire a respingerli. L'avevo avvertita che chiunque le diceva altrimenti era in errore, che non ricordava più il mondo com'era prima che loro arrivassero, come eravamo felici, libere e spensierate. Katouri si era fidata di me, e aveva sempre difeso la visione di speranza che le avevo impartito, almeno finché la realtà non era arrivata a renderlo impossibile.
A che cosa era servito, mi chiedevo in quel momento, osservando le punte verdi delle fiamme lambire le ali lucenti di qualche incauta farfavilla che si era avvicinata troppo al nostro misero fuocherello. Eravamo da sole, nella zona selvaggia, senza possibilità alcuna di sfuggire ai cacciatori.
Il volto di Katouri era segnato dalle scie bluastre delle lacrime, che nonostante l'umidità della zona selvaggia, quando giungevano alle sue guance si asciugavano e si disperdevano nell'atmosfera in una polvere sottile. Katouri reggeva tra le dita una boccetta polarizzata per attirare al suo interno le sue lacrime aride: nel contenitore trasparente, la sabbia azzurrina raggiungeva l'altezza di due dita. Erano davvero tante lacrime, pensai, mentre nel silenzio crepitante delle voci dei grillodori scivolavo verso di lei e la stringevo tra le braccia.
Lei mi posò la testa sulla spalla, macchiando la manica candida di quel blu. – Non voglio dimenticare che cosa vuol dire essere triste – mormorò lei, la voce soffocata dal tessuto contro cui premeva il volto. – Non voglio dimenticare che ti voglio bene. Non voglio diventare come loro.
Le accarezzai i capelli con un sospiro. Se solo non avesse visto quella gente sparare alla vecchia Jamari, che dopo aver sfornato sette figlie, non aveva più la forza di produrre un altro uovo. Se non l'avesse vista rialzarsi e ignorare le suppliche delle sue figlie, guardarle come se non le conoscesse, pretendere la sua vendetta nel lottare a mani nude e infine uccidere il vecchio che le aveva sparato, per poi andarsene assieme a loro, come uno di loro, un maschio della nostra specie.
Avevo sempre cercato di tenere Katouri in casa quando venivano, ma quella volta loro avevano voluto che ci fossimo tutte, affinché vedessimo, affinché non dimenticassimo mai chi erano i nostri padroni, e potessimo assistere a quello che loro consideravano un premio.
– Lo so, tesoro. Lo vorrei anch'io – mormorai di rimando, scrutando la notte buia e brulicante di vita. Chissà dove, un Orsatto stava divorando la sua preda, un gufagno che emetteva gli ultimi, flebili lamenti. Questo mondo era troppo crudele per una bambina sensibile come la mia Katouri, e io avevo avuto solo la colpa di volerlo cambiare, almeno per gli anni della sua infanzia, almeno con la fantasia. Non c'era più spazio o tempo per questo, mentre aspettavamo di essere trovate. Non si poteva sfuggire all'inevitabile, come non si poteva fuggire davanti alla verità, non più. – Ma accadrà. Quando morirai la prima volta, qualcosa si spegnerà dentro di te. Diventerai una persona diversa. Ricorderai tutto, almeno questo è ciò che dicono, ma non lo sentirai più. Non come ora – conclusi, sbirciando la boccetta che ancora raccoglieva granelli delle sue lacrime aride. La nostra vita era come la polvere di quelle lacrime, pensai: iniziava unita dall'acqua e scorrevamo insieme, vicine, come parte di un'unica goccia che cadendo lasciava una traccia. Poi l'acqua si asciugava, quello che ci legava scompariva, e fluttuavamo via come individui isolati, frammenti di polvere che guardavano il mondo, la lacrima che erano stati, dall'altezza necessaria a decidere della vita e della morte di chi si erano lasciati indietro senza più provare rimorso.
Sapevo che cosa ci aspettava quando ci avrebbero trovato i cacciatori. Avrebbero ucciso una di noi e ci avrebbero guardato lottare fino all'inevitabile epilogo: una di noi si sarebbe unito a loro, l'altro, morto una seconda volta, non si sarebbe più rialzato. Era la punizione per aver osato fuggire dal villaggio, per aver osato sperare in una vita diversa. Non glielo dissi, ma probabilmente Katouri lo immaginava, ora che sapeva la verità. Loro erano il nostro inevitabile futuro.
– Non voglio morire. Non voglio cambiare – mormorò lei. Tappò la boccetta, ormai tutte le sue lacrime si erano asciugate, e la ripose nella sacca che conteneva i pochi averi che avevamo portato con noi. – Non senza provare a fare qualcosa.
Il suo piano era folle, frutto della speranza che avevo per anni instillato in lei. Aggirare i cacciatori, andare nella cittadella abitata dai maschi della nostra specie, e rubare una delle loro navi per tentare la fortuna su un mondo al di là del cielo stellato. Il luogo da dove le avevo sempre detto venire il terrore, era divenuto in una sola notte il luogo dove si celava forse la nostra libertà e la nostra gioia. La seguii solo perché aveva bisogno di me, lei non era mai stata nella cittadella, non era ancora mai stata scelta per portare un uovo, era ancora troppo giovane. Non mi aspettavo che il piano di Katouri funzionasse, ma che attendessimo lì accanto al fuoco l'inevitabile fine o che facessimo un ultimo, disperato tentativo, la nostra sorte non sarebbe cambiata. E allora tanto valeva provare, alimentare per l'ultima volta l'illusione della speranza che avevo piantato in lei.
Invece, prima che Sarida, la nostra stella, sorgesse sul villaggio, sulla cittadella e sulle terre selvagge, noi eravamo altrove, al di là del cielo, a cercare una nuova sorte sotto un'altra stella.

lunedì 25 ottobre 2021

Grosso guaio al Mercato dell'Impossibile


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Al Mercato dell'Impossibile si poteva trovare di tutto. Dalla merce comune potenziata da un pizzico di magia per renderla a detta dei suoi venditori "interessante" alle pozioni create apposta per ogni esigenza, dai patti con i demoni alle creature più inconsuete, vendute a pezzi come cibo esotico oppure vive come animali da compagnia, e poco importava a chi aveva fatto l'affare se il nuovo padrone correva il rischio di finire divorato sulla strada verso casa. Al Mercato dell'Impossibile si poteva trovare di tutto se eri disposto a pagare il prezzo richiesto, che non sempre si esprimeva in denaro.
I passi echeggiavano gravi tra i pilastri del mercato, che s'innalzavano massicci a sorreggere la volta a crociera che sovrastava le bancarelle. Banchi umili, appena un tavolato di legno con sopra la merce disposta alla rinfusa, si mescolavano a tendoni variopinti che ospitavano una moltitudine di gabbie, o un complesso sistema di alambicchi da cui proveniva un gorgoglio sinistro.
Cercai di ignorare i sussurri che mi circondavano mentre sfilavo lungo la via principale del mercato, quella più larga e dal lastricato più consunto per il passaggio nel corso degli anni di numerosi carretti e clienti, quando una discussione animata fatta di gesti convulsi e bisbigli frettolosi attrasse la mia attenzione. Più lontano, il ruggito di chissà quale creatura fece trasalire una giovinetta avvolta in un mantello nero, col cappuccio alzato sulla testa nel tentativo di celare la sua identità. Poveretta, doveva essere la sua prima volta al Mercato dell'Impossibile, fremeva e tremava a ogni cigolio di baule che si apriva e a ogni tintinnio dei ninnoli appesi alla bancarella della Zingara. Le feci un cenno, alla Zingara, non alla giovane tremebonda che già si infilava in uno degli oscuri vicoli laterali per vivere l'avventura della sua vita. Mi fermai nei pressi di una bancarella e mi sfiorai il lobo dell'orecchio destro, mentre sbirciavo in tralice i due litiganti, e subito i loro mormorii divennero chiari come se mi stessero parlando a una spanna dal viso.
Eh sì, ero stata anch'io una cliente del Mercato, ma certi "miglioramenti" erano indispensabili per svolgere il mio lavoro. Quell'incantesimo all'orecchio mi era costato tutta la gioia che potevo provare in un mese, ma ne era valsa la pena.
– Già detto io, già detto, no accetta resi Grande Gulgar – stava dicendo quello che probabilmente era l'aiutante del venditore, se non il Grande Gulgar stesso.
Rapidamente, con enfasi, il cliente ribatté: – Vi prego ve lo dovete riprendere, non... non ce la faccio più, non vivo più, io... io sto impazzendo, vi supplico, riprendetelo e ridatemi quello che vi ho pagato... anche la metà va bene! Anche la metà. Anche la metà, ma riprendetevelo!
– Tu doveva pensare prima. – Il venditore sbuffò, poi lo scorsi gettare in aria le braccia, esasperato. – Tutti cosa qua, prende senza pensare, poi dà colpa a Grande Gulgar. Ma Grande Gulgar no ha colpa se voi è stupidi.
A quell'offesa puntai lo sguardo sul cliente, e attesi la sua reazione. Era mio dovere capire se fosse abbastanza disperato da compiere un gesto avventato di cui si sarebbe largamente pentito, dato che a vegliare su quella zona del Mercato dell'Impossibile c'ero io, e io non ci andavo tanto alla leggera con i facinorosi che turbavano la pace bisbigliante del mercato.
Il Mercato dell'Impossibile era a tutti gli effetti un mercato clandestino, situato in una zona irraggiungibile per chiunque appartenesse alle guardie o ad altri corpi dediti a far rispettare la legge, o addirittura per chiunque avesse in animo di aspirare a un tale incarico o si sentisse in obbligo di far presente la trasgressione in corso a chi la stava commettendo e a chi poteva punirla. Per dire, nemmeno chi tendeva a correggere ogni errore nelle frasi pronunciare da altri poteva sperare di trovare il Mercato dell'Impossibile: tale era l'incantesimo lanciato dai mercanti stessi.
In seguito era diventato evidente che certe controversie non potevano essere risolte pacificamente, o che certi mercanti erano incapaci di controllare la merce più pericolosa che si ritrovavano a gestire, e a quel punto era diventato indispensabile poter ingaggiare qualcuno che se ne occupasse, qualcuno a cui non importasse minimamente di ciò che è lecito o illegale, ma solo di proteggere gli interessi dei suoi committenti. Ed è così che eravamo entrati in gioco io e i miei "colleghi", se tali potevo chiamare quel manipolo di rissosi bastardi che non vedevano l'ora di trovare degli animi caldi su cui potersi sfogare.
Nel lasso di tempo in cui il cliente fissava con astio il venditore, da lontano lo sfidai a provarci
– Dai... tira fuori un coltello. Provaci, ti do un secondo di vantaggio, ma fammi divertire un po'.
Ma il cliente, che ovviamente non poteva sentirmi, si gettò in ginocchio e abbracciò le gambe del venditore, seguitando a supplicarlo. Alzai gli occhi alla volta del soffitto: niente da fare, mi era andata male. A quel punto avvertii un colpetto sulla spalla e mi girai, pronta ad attaccare chiunque avesse osato avvicinarsi così incautamente, ma era solo la Zingara, che boccheggiava muta come un pesciolino. Mi battei un paio di volte sul lobo, maledicendo il mago sensoriale che mi aveva venduto quel miglioramento per non avermi avvertito di quella controindicazione che riusciva sempre a prendermi alla sprovvista. Subito la voce della Zingara tornò, accompagnata da urla in lontananza, e dal verso stridulo e acuto di chissà quale creatura che riecheggiava agghiacciante tra i pilastri di pietra.
– Roni... Roni! C'è del lavoro per te! – stava dicendo la Zingara, che indicò con il braccio la direzione da cui provenivano le urla, mentre da una bancarella vicina si levava un coro di sibili da gabbie in apparenza vuote.
Sentii le mie labbra piegarsi in un ghigno, sebbene il consueto piacere che provavo nel mettermi all'opera non mi scaldò le membra in previsione dell'azione. Stavo ancora finendo di pagare il miglioramento, dannato mago. Dalla quantità delle urla, indovinai che il guaio doveva essere maledettamente grosso, forse il più grande mai affrontato finora.
Mentre i primi clienti in fuga mi oltrepassavano diretti all'uscita, io mi lanciai, armi alle mani, in direzione opposta.

sabato 23 ottobre 2021

Dovizia

Dovizia [do-vì-zia] s.f. Abbondanza, ricchezza di qualcosa.

Etimologia: dal latino divitia, "ricchezza", astratto di dives, "ricco", che si riconnette alla radice sanscrita div, "splendere"



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7° giorno di Dorato, Casa dell'Uomo Vanitoso, La Capitale

Non sapevo cosa aspettarmi quando Taliesin mi ha detto ridendo che era ora di tornare a trovare una persona che viveva nella città più importante del mondo. Io non ci ero mai stata, e non capivo se il suo divertimento era a causa di quella persona o della città o di che cos'altro. C'era una dovizia di cose che ancora non capivo del mondo al di fuori del mio bosco.
La città più importante del mondo si chiama La Capitale, e in realtà non è affatto la più importante, ma ai suoi abitanti piace pensarlo. È molto più grande dei villaggi in cui siamo stati finora, ma non è la città più grande del mondo, né la più antica, e nonostante il suo nome non è nemmeno una capitale. Saperlo mi ha impensierito parecchio.
Gli esseri umani sono davvero strani, se danno nomi alle cose che non corrispondono affatto a ciò che quelle cose sono.
La persona da cui dovevamo andare ne aveva tantissimi di nomi, ma Taliesin mi ha detto che per ricordarsi di lui lo chiamava "L'Uomo Vanitoso". Però mi ha raccomandato di non chiamarlo mai così quando siamo in sua presenza, e questa è un'altra delle stranezze umane a cui non mi abituerò mai.
La casa dell'Uomo Vanitoso, all'esterno, è simile a tante altre qui a La Capitale. Dentro siamo stati accolti da una dovizia di statue, busti e ritratti sistemanti ovunque, e tutti raffiguravano la stessa persona, lo stesso viso su forme d'uomo o di donna, su pensatori o atleti, su commensali o fanciulli dormienti. Tra di loro mi è apparso un altro di quei volti, solo che questo era vivo, ed è stato così che ho conosciuto l'Uomo Vanitoso. È stato strano scoprire che lui era incuriosito da me quanto io lo ero da lui, ma nel suo caso voleva solo prendere la misura delle mie ali per aggiungerle in un suo futuro ritratto.
Taliesin era uno degli artisti che l'Uomo Vanitoso impiegava per magnificare la sua figura, e ogni anno chiedeva al bardo di mettere in versi le imprese che in realtà non aveva mai compiuto.

giovedì 21 ottobre 2021

L'ultimo granello della clessidra


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Il suo tempo era scaduto.
Se fosse esistita da qualche parte una clessidra che segnava lo scorrere della sua vita, Anna sapeva esattamente che quello, quel preciso istante, era il momento in cui l'ultimo granello stava per cadere verso il fondo già gremito di sabbia. Non si era mai sentita così inerme, in balia di una forza inarrestabile e tanto più grande di lei, mai, nemmeno quando sulla sommità della torre più alta del castello aveva combattuto contro lo stregone Zohar senza nessuna speranza di vittoria. Nemmeno quando lo stregone nel suo momento di trionfo non l'aveva annientata, scegliendo invece di maledirla con un fato peggiore della morte assieme alla regina che avrebbe dovuto proteggere.
Che ironia, Anna aveva sempre pensato che sarebbe caduta combattendo, e invece il destino aveva in serbo altro per lei che era vissuta con la spada in mano, che aveva sempre lottato contro le convenzioni e contro il mondo intero.
Legata mani e piedi sul freddo pavimento di una caverna, Anna osservava impotente due fuochi gemelli che si avvicinavano, due enormi globi al cui interno bruciava la fiamma e si riversava a illuminare le zanne ricurve e minacciose nella bocca del drago.
Non aveva scampo. Anna lo guardò avvicinarsi, con le larghe spalle e le ali che raschiavano contro le pareti della caverna facendo piovere frammenti di roccia, rassegnata ormai a lasciar cadere quell'ultimo granello. Sentiva che qualunque cosa avesse fatto non poteva andarsene, era incatenata a quel luogo e a quel momento, sempre e per sempre. Bizzarro pensiero, considerando che la sua vita stava per finire in quell'istante e che lei non aveva più tempo.
Quando il muso del drago fu sopra di lei, con il fuoco che guizzava tra le zanne mentre spalancava l'enorme bocca, Anna provò una fame feroce, tale da costringerla a rannicchiarsi, sdraiata di lato con le ginocchia piegate e le braccia strette contro i fianchi. Le mani, costrette dietro la schiena dalla corda che le legava assieme i polsi, lottarono nell'inutile tentativo di raggiungere il vuoto che sentiva allo stomaco. Da quanto tempo non mangiava? Anna non riusciva a ricordare. Non che fosse importante, dal momento che stava per diventare la cena di qualcun altro.
Il drago per un lungo attimo parve esitare, le fauci sospese sopra di lei che esalavano il suo fiato rovente, e Anna si chiese se non avesse intenzione di darle fuoco prima di divorarla. Il pensiero fu terrificante.
– Ti prego, fa' in fretta – lo supplicò Anna, come se la bestia avesse potuto capirla. Strinse gli occhi e si sentì mancare il respiro. Stremata dalla fame, Anna provò un'immensa tristezza che si faceva strada in lei. Era combattuta tra la fame e quel nuovo sentimento che era in parte dolore e in parte pietà, e che era tanto forte quanto la fame, tanto da farla tremare e strappare le lacrime ai suoi occhi che raramente avevano pianto. – Mi... mi dispiace – mormorò Anna con un filo di voce.
Il calore del respiro del drago si attenuò, e una pioggia di schegge e polvere di roccia cadde su di lei.
Anna aprì gli occhi e al lucore emanato da quelli del drago vide che la bestia aveva sollevato la testa, allontanando le fauci da lei. Anna lo fissò, cercando di ignorare la fame, mentre la curiosità e lo stupore prendevano il sopravvento.
Il suo ultimo granello di sabbia restò in quell'istante sospeso tra la rovina e la salvezza.
Anna guardava il drago e il drago guardava lei. In attesa. Ad Anna parve che la bestia la stesse studiando, aspettandosi qualcosa da lei. Era un'idea bizzarra e impossibile, eppure...
Eppure forse la creatura non solo la capiva, ma stava addirittura comunicando con lei. Tutto ciò che Anna aveva provato da quando il drago si era avvicinato, tutte quelle emozioni, forse non erano le sue, o non completamente. Anna ricordò la sensazione di sentirsi inerme, intrappolata. Secondo le dicerie locali, il drago non avrebbe lasciato la caverna in cui dimorava fintanto che avesse continuato a ricevere offerte, principalmente esseri umani che venivano sacrificati a quello scopo dai villaggi dei dintorni.
Ma forse la verità era un'altra, forse il drago non lasciava la caverna per soddisfare la sua fame appunto perché non poteva lasciare la caverna.
– Sei anche tu un prigioniero? – gli chiese Anna, e un palpito di rabbia le sorse in petto.
Il drago emise un basso ruggito, allungò una zampa e la schiacciò a terra a pancia in sotto.
– Aspetta! Aspetta! – urlò Anna, allarmata da quella mossa repentina. La pietra fredda e ruvida premeva contro la sua guancia mentre girava la testa a cercare di vedere che cosa stesse facendo il drago. Sentì un artiglio graffiarle le mani e all'improvviso le sue braccia furono libere, e subito dopo le sue gambe. Fu quello, più che la pace che era seguita all'ira del drago, a rassicurarla sulle intenzioni della creatura.
Anna si massaggiò i polsi e si alzò in piedi, un po' barcollante. Il drago avanzò fino a stringerla tra la parete e il suo corpo squamoso, impedendole così di correre verso quella che probabilmente era l'uscita della caverna, dal lato opposto rispetto a quello da cui la creatura proveniva. Anna ebbe un moto di stizza e fissò torva il drago. Aveva riavuto il suo tempo, quell'ultimo granello non era caduto, ma a che cosa era servito?
Anna era libera, ma era ancora prigioniera.
Il drago accennò con l'enorme muso al fondo della caverna e Anna si voltò a guardare. Una delle zampe posteriori del drago era stretta da un anello che riluceva d'oro al fuoco dei suoi occhi, e a quell'anello era collegata una catena tanto grande che Anna avrebbe tranquillamente potuto infilare la testa negli anelli da cui era composta.
Di nuovo, il drago era in attesa.
– Mi pare giusto: tu liberi me e io libero te – disse Anna, dando voce al senso di quell'attesa.
Solo che non aveva la più pallida idea di come avrebbe potuto riuscirci e Anna sapeva, perché lo sentiva lei stessa nella sua carne, che il drago aveva ancora fame.

lunedì 18 ottobre 2021

Il gatto che sapeva il suo nome

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Com'era finita a girovagare tra gli alberi di una foresta, lontano da ogni sentiero conosciuto, questo lei proprio non lo sapeva. Un attimo prima era rintanata in soffitta a leggere, nel suo angolo di pace, lontana dal fratello che l'aveva per l'ennesima volta presa in giro di fronte ai suoi amici perché si perdeva sempre, anche a pochi passi da casa... e l'attimo dopo era persa davvero chissà dove, senza sapere come o quando era arrivata fin lì. Non che le importasse, almeno, non subito. Era così arrabbiata che qualunque distanza la separasse dalla fonte della sua irritazione era la benvenuta. Perlomeno lì suo fratello non sarebbe venuto a bussare alla porta per provocarla.
Allargò le braccia, godendosi il tepore del sole che faceva capolino tra le foglie, e vagò sfiorando squame di corteccia che le graffiavano i polpastrelli e le più morbide e lisce foglie degli steli d'erba e di giovani arbusti, accompagnata da un sonoro e ritmato ciangottare dai rami sopra la sua testa. Più lontano, di tanto in tanto, sentiva un mugghiare sordo che poteva appartenere forse a un cervo, oppure a un orso, ma non c'era da preoccuparsi dato che era a malapena udibile, più distante di quanto lei intendeva spingersi a piedi. Le mancava la sua bicicletta, il suo fido destriero Astro compagno di tante immaginarie avventure nel cortile di casa, ma si rendeva conto che lì, con tanti tronchi contro cui andare a sbattere e le radici sporgenti a intralciare le ruote, quel mezzo di trasporto sarebbe stato poco pratico. Così proseguì calcando la suola delle scarpe da ginnastica sulla terra e sui sassi coperti in parte da vecchie foglie cadute, sebbene le radici fossero un problema in cui incespicava anche senza ruote, e respirò l'aria pura e leggera del bosco, ben diversa dall'atmosfera stantia della soffitta, con quell'odore di vecchiume che era ormai diventato il familiare compagno delle sue letture. Già, chissà dov'era finito quel libro, non ricordava le ultime pagine lette ma aveva l'impressione di aver lasciato la storia proprio sul più bello.
La ragazza si fermò e si guardò attorno, ma non per cercare il libro, che chiaramente non poteva essere lì. Da qualche passo c'era un'altra sensazione che la metteva a disagio, la strana fastidiosa impressione di essere osservata, e non riusciva proprio a capire se fosse solo la sua immaginazione o se davvero ci fosse qualcun altro lì con lei. Di certo non potevano essere gli uccellini cinguettanti a spiarla, si disse alzando gli occhi verso il frastagliato tetto verde.
Nessun pennuto in vista sopra di lei, quelli si facevano sentire ma mai vedere. Però là, su un albero alla sua sinistra, proprio dove il tronco si biforcava separandosi da un ramo più sottile e flessibile, stava abbarbicata una creaturina pelosa che di primo acchito la ragazza scambiò per un folletto dalle orecchie a punta.
– Ehi, tu! – esclamò la ragazza, indicandolo. – Fermo lì, ti ho visto, sai?
Non si aspettava che facesse ciò che gli aveva detto, perché a una seconda occhiata aveva capito cos'era davvero quella piccola creatura pelosa; men che meno si aspettava che le rispondesse. E invece, una volta scoperto, lo spione sporse il musetto da dietro il tronco dove aveva cercato inutilmente di nascondersi e la fissò per qualche istante a occhi sgranati, prima di aprire la bocca dai dentini aguzzi, circondata da lunghi baffi bianchi sotto a un grazioso naso dalla punta rosa.
– Devi dire "tana per il gatto" – miagolò sornione il piccolo felino, poiché proprio di questo si trattava. – Altrimenti non vale.
La ragazza batté le palpebre un paio di volte. Non era insolito per lei immaginare di poter parlare con gli animali, ma mai prima di allora quella fantasia le era parsa così reale.
– Lo so, lo so – proseguì il micetto, sporgendosi un po' di più, ben aggrappato al tronco con le unghie. – "Aiuto, un gatto parlante!" Ma ti sei mai chiesta se forse quella strana non sei, diciamo... tu?
Il gatto parve irriderla nel piegare all'insù gli angoli della bocca chiusa.
La ragazza sbuffò e puntò i pugni sui fianchi. Era già sufficiente che ci fossero suo fratello e i suoi amici a definirla "strana", senza che ci pensasse pure uno sconosciuto felino.
– Senti, tu... – iniziò a dire la ragazza ma il gatto, dopo un agile balzo che lo aveva portato ad atterrare su un solido ramo poco più in basso del suo precedente nascondiglio, la interruppe con fare sornione.
– Per inciso, era un complimento.
Prese a leccarsi una zampa e a quelle parole la ragazza si sgonfiò come un palloncino.
– Io... credo... grazie? – balbettò, in tono poco convinto.
Di nuovo il gatto piegò il muso in un sorriso. – No, è evidente che non ci credi. Ma ci crederai, un giorno. – Il gatto si alzò sulle quattro zampe , la coda dritta e alta, a parte la punta leggermente piegata di lato. – Ma adesso andiamo, Stefania, abbiamo troppe cose da fare, cose più importanti che restare qui in mezzo agli alberi a scambiarci convenevoli.
– Aspetta... come sai il mio nome? – gli chiese la ragazza, come se quel dettaglio fosse la cosa più sorprendente del suo incontro con il gatto parlante.
Il gatto si sedette brevemente sulle zampe posteriori, alzò una delle zampette davanti e la indicò. – Te lo porti addosso.
La ragazza abbassò lo sguardo alla maglietta. A grandi lettere colorate, in un arco tra il colletto e un riquadro bianco al centro della t-shirt, era ben leggibile il suo nome.
– Se non vuoi che la gente e i gatti lo sappiano, forse non dovresti indossarlo, non credi? – miagolò il micio in tono divertito.
Stefania non rispose. Ovviamente per un gatto che sapeva parlare non era insolito che sapesse pure leggere, si disse, preoccupata piuttosto da quel vuoto nel riquadro bianco, che non ricordava affatto. Non c'era stata forse una foto, lì? Forse la foto di un gatto, sì... un gatto su un albero?
Non ebbe il tempo di indagare oltre nella sua memoria più fallace del solito poiché il gatto parlante sopra la sua testa, che già era saltato sul ramo di un albero vicino, la spronava a seguirlo, e non sapendo esattamente dove andare né dove si trovava, Stefania pensò che fosse meglio affidarsi a qualcuno che invece pareva conoscere fin troppe cose. Anche se quel qualcuno era un gatto che non voleva saperne di stare zitto.

sabato 16 ottobre 2021

Periplo

Periplo [pè-ri-plo] s.m. 1. Circumnavigazione di un continente o di un'isola; estens. itinerario circolare, con qualsiasi mezzo sia compiuto. 2. Nella letteratura greco-latina, descrizione di un viaggio marittimo, con dati geografici, tecnici e commerciali su mari, porti e città.

Etimologia: dal latino periplus, derivato dal greco periplous, "circumnavigazione", composto da peri, "intorno", e da plous, "navigazione".



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Foto di Sanndy Anghan da Pexels


Non sapevo che cosa fare. A parte l'ovvio e il necessario, ovvero guadagnarmi la fiducia di quella stramba creatura mezza umana quel tanto che bastava per medicare la sua ala ferita. Mi sentivo in colpa per averlo colpito, ma davvero avevo creduto di essere in pericolo prima di scoprire che era solo un ragazzo.
Quella situazione bizzarra mi era letteralmente piombata addosso dal cielo.
Lui mi guardava ancora con diffidenza, sibilando di tanto in tanto nel si trascinarsi indietro, verso prua. Avevo temuto che sparisse così com'era arrivato mentre mi recavo sottocoperta a prendere la cassetta medica, il che avrebbe risolto il mio problema, e invece no, era ancora lì dove l'avevo lasciato.
– Umana cattiva, va' via, lasciami in pace!
Mi guardai attorno. Al di là della battagliola che delimitava il ponte, una distesa increspata di piccole onde verdazzurre fino all'orizzonte.
– Che ti piaccia o meno, siamo incastrati qui assieme – replicai, guardandolo dall'alto a un paio di metri di distanza. Avevo lasciato indietro il mezzomarinaio per dimostrargli la mia buona volontà, ma lui aveva ancora gli artigli sulle mani e sulle zampe... dei piedi. – E questa è la mia nave, al limite sei tu che devi andare via.
Ci stavamo studiando, come due bestie feroci, e io aggiravo la domanda. Era ovvio che lui capiva che ero un essere umano, ma che cosa era lui? Sembrava una di quelle chimere che non avrebbero sfigurato nelle letture dei peripli antichi, nei viaggi di Ulisse o dei suoi contemporanei. Non era certo qualcosa che ci si aspettava di incontrare nella realtà.
Passammo i primi giorni a imparare a conoscerci, e quando giunsi in vista di un'isola preferii proseguire facendo il periplo del promontorio a sud piuttosto che attraccare al porto con un ospite tanto insolito a bordo, come sarebbe stato da programma prima del suo arrivo. Ben presto però la natura distruttiva del mio ospite venne a galla, e io non potei più rimandare la ricerca di un aiuto per le necessarie riparazioni.

giovedì 14 ottobre 2021

Le meraviglie di Madre Natura


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Foto di Irina Iriser da Pexels


Non si può descrivere la meraviglia che i nostri nuovi occhi videro quando i nostri compagni ci guidarono lungo i cunicoli che avevano percorso. Una parte di quelle strade mi erano note per averle esplorate io stesso quando ne avevo ancora la forza, ma non le avevo mai percepite così come mi apparivano in quel momento. La roccia scintillava di bagliori d'oro e d'argento, e sotto i nostri passi, per quanto ci muovessimo più lievemente di quanto avessimo mai fatto, i ciottoli nel ruzzolare emettevano rombi e boati che parevano squassarci fin nel profondo. Ma quei fenomeni inconsueti non erano nulla in confronto al Giardino di Cristallo.
Non immaginavo, prima di lasciar spaziare lo sguardo in quella fantastica alcova, che le forme generate da Madre Natura potessero essere plasmate per mezzo della solida roccia. Cristalli, per la precisione, cristalli azzurri e trasparenti, raggruppati in grappoli di fiori che pendevano da rami di cristallo ricurvi simili ad eterei glicini, mentre spighe floreali della stessa sfumatura cerulea si innalzavano da terra, inframmezzate a formazioni simili a fili d'erba, arbusti, felci e alberi. Non si potevano definire semplici stalattiti e stalagmiti quelle mirabolanti forme, così simili alla variegata vegetazione del mondo al di fuori della nostra tomba sotterranea. Ci incamminammo nell'impossibile giardino, fra lo stupore di chi non l'aveva mai visto e la sicurezza di chi già conosceva la strada.
Ovunque, il cristallo vibrava, un suono limpido che non avevo mai udito, e rispondeva al nostro tocco mentre ci muovevamo con reverenza tra i fiori di cristallo, variando quella musica pura man mano che sfilavamo lungo il sentiero in direzione della fonte. E fu lì, in quell'incanto che pareva provenire da una terra soprannaturale, che ripensai ad Amryn, a quanto desideravo che lei avesse potuto vederlo. Ma Amryn, come tanti altri tra i nostri compagni, non era lì con noi, e non avrebbe mai potuto sperimentare quella gioia, la gioia di sentirsi più vivi di quanto non fossimo mai stati.
Al ricordo, uno schianto spezzò il mio cuore fragile come il cristallo. Mi piegai in due, subito sorretto e rinfrancato dalle mani dei miei compagni, che probabilmente avevano compreso, con quella nuova lucidità che ci aveva donato l'Acqua della Vita, quali pensieri e quali ricordi avevano fiaccato il mio corpo.
Poiché ero stato tra i più deboli tra coloro che attendevano la morte nella grande caverna, io ero stato tra i primi a ricevere l'Acqua della Vita. Il liquido salvifico che gli ultimi esploratori con ancora forza nelle gambe ci avevano portato mi aveva subito rinvigorito. Erano bastati pochi sorsi per schiarire la mia mente annebbiata, per restituirmi anche più della forza e della salute che avevo avuto prima che iniziassimo a razionare il cibo. Aiutai gli esploratori a condividere l'incredibile scoperta, e io stesso ne feci bere qualche sorso ad Amryn, la mia amata compagna, il cui respiro era rimasto il più forte sotto la volta oscura della caverna. Ignorai le grida che si levarono da più parti fin quando quel respiro così forte si affievolì fino a cessare qualche istante dopo che lei ebbe bevuto l'Acqua. Solo uno sciocco avrebbe negato l'evidenza, solo un ingenuo avrebbe potuto affermare che quell'effetto così diverso su di me e su di lei non proveniva dalla stessa causa.
Soltanto allora, con il peso immobile del suo corpo tra le braccia, capii le grida e i pianti che mi circondavano, e seppi che altri tra i nostri compagni non erano stati salvati, bensì uccisi, da quello che avevamo creduto un elisir miracoloso, la fonte dell'eterna giovinezza delle leggende. Non tutti eravamo sopravvissuti a quel prodigio, e noi che lo avevamo fatto avremmo sempre dovuto ricordare coloro che erano scivolati così dolcemente nella morte.
Così pensavo, di fronte a quella fonte che sgorgava dalla roccia, per formare una polla limpida tra i fiori di cristallo che si piegavano, come sospinti da un immobile vento, sulle sue rive. Non ero del tutto certo che fosse stata Madre Natura a creare quell'incantevole orrore, ed ebbi l'impulso di distruggerla, neutralizzare in qualche modo il suo potere, anche se non sapevo come. Ma i miei compagni erano d'accordo nel ritenere che la Fonte fosse la soluzione ai nostri mali, che fosse più saggio condividerla con l'umanità, in previsione del Cataclisma che di lì a poco avrebbe travolto il mondo, perché i benefici, coloro che aveva salvato, erano maggiori dei danni.
Io non riuscivo a chiamare in quel modo coloro che ci eravamo lasciati alle spalle in una tomba di roccia.
La loro idea non venne mai messa in pratica, poiché vagammo ancora per molto tempo in cerca di un'uscita, senza l'ausilio del sole per poter contare i giorni; e quando emergemmo dalla montagna, ci rendemmo conto che quelli che avevamo ritenuto mesi trascorsi con il solo sostentamento dell'Acqua della Vita erano stati in realtà secoli. Scoprimmo che l'umanità era almeno in parte scampata al Cataclisma che aveva modificato il nostro mondo, e lo aveva rinominato Penterra. Immemori dei progressi che i loro antenati avevano compiuto, sopravvivevano in un modo arcaico, ma efficace.
Quanto a noi, eravamo cambiati a tal punto da non poter più essere riconosciuti come loro simili. I nostri corpi erano mutati più lentamente dei nostri sensi e delle nostre menti, ma tuttavia lo avevano fatto. Nell'oscurità del nostro isolamento la pelle si era fatta pallida, il nostro fisico che non aveva più toccato cibo era divenuto asciutto e tornito, e le orecchie allenate a udire la musica dei cristalli si erano allungate verso l'alto in una strana punta. Eravamo divenuti simili alle creature di una favola, e i sopravvissuti all'esterno come tali ci identificarono.
Facemmo voto di proteggere la Fonte e di non rivelare mai la verità ai Vita Breve, e per noi stessi scegliemmo come dimora le foreste candide della terra che ora è chiamata Elara, che Madre Natura dopo il Cataclisma aveva fatto crescere per guarire quelle pianure così simili a noi.

lunedì 11 ottobre 2021

Vacanza... di lavoro

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Foto di Julius Silver da Pexels


A metà del periodo di un anno in cui ero vincolato per contratto quale cavia degli elfi di Metronas, i miei padroni mi concessero una vacanza della durata di un quarto di luna per fare visita a una delle Riserve più grandi e popolose esistenti al mondo, che si trovava da qualche parte su un'isola sperduta nell'oceano, oppure in una fra le tante che in passato erano appartenute alla Grecia. Gli elfi di Metronas non erano stati molto precisi su questo punto, e mi chiesi se lo avessero fatto per evitare che, una volta trascorso il periodo di un anno durante il quale legalmente appartenevo a loro, mi ritirassi tra le Aberrazioni che affollavano quel luogo isolato, invece di tornare alla Riserva della Pianura comodamente raggiungibile dalla città. Persino l'aeroscafo che ci aveva portato fin lì comprendeva soltanto cabine prive di oblò, come se guardando fuori, scrutando il mare fino all'orizzonte, avessi potuto capire in quale direzione stavamo puntando.
Ero sollevato che mi avessero permesso di scegliermi degli accompagnatori invece di mandarmi lì allo sbaraglio da solo, in mezzo a una marea di sconosciuti dalle forme bizzarre, varianti umane che non avevo ancora incontrato, rischiando magari qualche figuraccia come mi era capitato una volta con una cameriera, in un locale di gran lusso a Metronas. Perciò avevo scelto Kàli per farmi da cicerone, e ovviamente anche mio fratello Jake era venuto con noi, perché non mi fidavo a lasciarlo nella Riserva della Pianura, a due passi da quegli infidi elfi mentre io ero probabilmente dall'altra parte del pianeta.
Quando finalmente potemmo uscire all'aria aperta, la Riserva dell'Isola era tutto ciò che una vacanza prometteva di essere. Una serie di casupole dal tetto di paglia che si ergevano su palafitte in mezzo a un mare azzurro e trasparente come un'acquamarina, e alle loro spalle un'isola dominata da un'alta montagna, la cui punta svettava tra le nuvole, e sulle cui pendici si inerpicava una lussureggiante vegetazione. Quel posto da sogno era ben diverso dalla Riserva che era diventata la mia casa, che poteva contare solo un brutto prefabbricato e una casetta di legno circondati da una specie di accampamento indiano sulle sponde di un lago, sul quale si ergeva una rupe a picco poco più impressionante di quella del Re Leone.
Mentre Jake esprimeva tutto il suo entusiasmo con le frasi idiomatiche che facevano parte della lingua di questo secolo, io contai le casupole. – Mi sembrano un po' poche per la più grande Riserva al mondo...
– Questo è solo il quartiere degli acquatici. Il resto è nell'entroterra – mi spiegò Kàli.
Non ebbi modo di chiederle altro, perché Jake aveva già mutato il suo corpo per imitare le squame e le branchie di Kàli, e prima di tuffarsi esclamò: – Chi arriva ultimo è un'aringa secca!
Con un sospiro adattai anche il mio fisico all'ambiente marino, presi per mano l'unica di noi che era un'acquatica per nascita, e mi affrettai dietro il mio scalmanato fratellino.
Fin dal primo giorno scoprii che Kàli aveva ragione. Lasciata la spiaggia, al riparo degli alberi, sorgeva una specie di cittadina medievale, con case di pietra e legno dai tetti spioventi, dove un uomo-toro, o Minotauro come mi spiegò Kàli, svolgeva il lavoro di fabbro e un gruppetto di donne Satiro si occupava di un gregge di ovini. Incontrammo anche bambini, molti, tutti affascinati dalla capacità che apparteneva solo a me e a Jake di mutare le nostre sembianze in quelle di qualunque Aberrazione avessimo già toccato, e non si fecero scrupoli a lasciarsi prendere la mano per permetterci di "leggere" istintivamente il loro DNA e poi applaudire quando, come per magia, cambiavamo pelle fino a confonderci con i membri della loro variante umana. La scena si ripeté in tutti i quartieri della Riserva, in quello medievale come in quello silvestre e così nel quartiere alto, sulla cima della montagna, là dove abitavano tutte le Aberrazioni in grado di volare. Decine di mani strette, decine di nuove forme acquisite. Non ci volle molto affinché capissi che quella non era una vacanza, bensì la premessa per una serie di nuovi esperimenti sulla mia pelle di Changeling che avrebbero tenuto gli elfi di Metronas occupati per tutto il resto dell'anno.

sabato 9 ottobre 2021

Torbido

Torbido [tór-bi-do] agg., s. 1. agg. Di liquido, che presenta impurità in sospensione ed è perciò privo di limpidezza e trasparenza. 2. agg. fig. Poco chiaro, non sereno; moralmente impuro, abietto; riferito a periodo storico, inquieto, tormentato. 3. s.m. (solo sing.) Cosa poco chiara; situazione ambigua. 4. s.m. (al pl.) Disordine politico, sommossa.

Etimologia: dal latino turbidus, "disordine rumoroso, confusione, scompiglio".



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L'acqua del lago era torbida, bruna di fango, ma il ragazzo si lasciò cadere sulle ginocchia e sulle mani e si mise a bere come una bestia. Non avevo pensato che fosse assetato, o gli avrei offerto una delle nostre borracce. Gli altri si tennero in disparte, grati per la sosta dopo la marcia fino alle prime luci dell'alba seguita alla nostra precipitosa fuga, perciò toccò a me interrompere quell'inutile umiliazione.
Gli toccai una spalla, mentre con l'altra mano mi sfilavo di dosso la tracolla di un piccolo otre di pelle. – Non è più necessario che tu faccia questo... – esordii, ma lui si girò di scatto, mi fissò truce e digrignò i denti con un ringhio. Per rassicurarlo stappai l'otre, lo allungai verso di lui e lo scossi, traendone un lieve sciabordio.
Il ragazzo si mise seduto, i talloni piantati a terra e le ginocchia incrostate di fango piegare in angoli spigolosi. Gli avevamo dato una palandrana per coprirsi, ma lui sembrava non avere alcun pudore, e la teneva aperta sul suo corpo nudo. Mi strappò la borraccia di mano e bevve avidamente, lasciando colare l'acqua sul mento e sul petto. Distolsi gli occhi dalle sue parti intime per esaminare i brandelli di tessuto con cui gli avevamo fasciato l'addome, la coscia destra e il polpaccio sinistro. Altre fasciature di fortuna erano celate dalle maniche, e mi chiesi se si stavano arrossando come quelle in vista.
La nostra incursione nelle caverne dei demoni non era servita a salvare i cavalieri rapiti o a raccogliere informazioni sui piani di quelle creature: per i primi era troppo tardi, quanto alle seconde, chi poteva capire che cosa passava nelle loro torbide menti?
Avevamo però trovato il ragazzo, seguendo l'eco delle sue urla mentre lo torturavano. I demoni lo tenevano incatenato come un cane. D'accordo con gli altri, avevo atteso il momento giusto per liberarlo.
Non sapevo chi fosse, o se sarebbe mai riuscito a parlare per rivelarci qualcosa di utile, ma sapevo che non potevo lasciarlo in balia dei suoi aguzzini.

giovedì 7 ottobre 2021

Famiglia, forza d'animo e un'armatura di fango

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Credevo di non poterlo sopportare.
Nei boschi vicino a Escalona, lungo i torrenti che scorrevano a valle frammentando la luce in scintillii con le loro piccole cascate, i figli degli elfi, i miei compagni di sangue puro, mi lasciavano sempre indietro e non appena li perdevo di vista tra gli alberi loro erano lesti ad ammantarsi d'illusioni, a deviare la luce per non essere scorti o ad accecarmi con lampi improvvisi e visioni di creature spaventose finché, atterrito e confuso, non finivo con lo sbattere contro un tronco, o a perdere l'equilibrio e cadere nel fango. Mi deridevano, dopo, spronandomi a cercare di eguagliarli, ben sapendo che non sarei riuscito a evocare nulla di più di un effimero bagliore, e per giunta con molta fatica.
In città non sembrava diverso, solo con meno magia e molto più sdegno. Quando accompagnavo mia madre nelle sue commissioni per rifornire la dimora degli elfi, in cui lavorava come domestica, la gente la guardava con pietà e scrutava me con disprezzo misto a timore, come se lei avesse partorito una serpe. Gli umani non erano gentili con me: mi evitavano, a volte fingevano che nemmeno ci fossi, e impedivano ai loro figli di coinvolgermi nei giochi, persino di parlarmi, e spesso li richiamavano in casa per nasconderli quando ero nei paraggi.
La colpa, pensavo, era mia. Ero troppo umano per gli elfi, troppo elfo per gli umani. Rifiutato da entrambi, non avevo alcun luogo, e alcuna gente, a cui appartenere. Con il passare degli anni mi rifugiai sempre più nella solitudine, isolandomi per lunghe ore, a volte per giorni, sulle rive di uno di quei torrenti, ad ascoltare lo scorrere cristallino dei fiotti d'acqua, il gracidio delle rane e le voci di fringuelli e cinciallegre. Le piccole creature di quei boschi incantati, gli spiritelli e i folletti erano i miei unici compagni, e io a poco a poco imparai a comunicare con loro, o almeno, con quelli che erano in grado di parlare. Deluso da un mondo ingiusto, non m'importava di nessun altro, nessuno che non fosse mia madre perché per quanto riguardava mio padre, il figlio dell'ambasciatore degli elfi, io non ero altro che un errore di gioventù, il ricordo vivente della sua vergogna.
Pensavo di non poter sopportare tanto astio, non senza iniziare a odiare a mia volta. Pensavo che nessun altro al mondo avesse cominciato la sua vita con un tale carico di problemi e avversità; che nessun altro fosse partito da una situazione di tale svantaggio.
Poi, nella più impossibile delle situazioni, trovai lei.
Era a capo di un eterogeneo gruppetto che a prima vista scambiai per una compagnia di mercenari. Lei poteva agevolmente passare per umana, e non avevo notato all'inizio quanto coloro che la accompagnavano fossero bizzarri, perché ero troppo occupato a cercare di alzarmi dal fango in cui i miei vecchi compagni di "giochi", non ancora del tutto cresciuti a differenza di me, mi avevano di nuovo fatto cadere, in nome dei vecchi tempi.
Lei sembrava starsene lì a guardarmi dall'alto con una grazia eterea, ma anche una discreta forza che si indovinava dalle membra tornite infilate in comodi abiti da guerriera. Il pugnale che riposava stretto tra i suoi fianchi e la cintura pareva un pezzo d'osso appena strappato da chissà quale bestia, con ancora brandelli di carne attaccati. Quella donna mi apparì incantevole, sicura di sé e pericolosa, tutto ciò che io non ero. Cercai almeno di togliermi il fango dal viso, cosa non facile con le mani impiastricciate, ma lei mi disse: – No, non farlo. Non vedi quale dono ti hanno fatto i tuoi nemici? Ti hanno dato un'armatura. Lascia che si secchi. Che si depositi sulla pelle, e sotto. Oggi sei diventato più forte. La prossima volta, ti proteggerà.
Capii subito che quel consiglio le veniva dall'esperienza, che anche lei era stata rifiutata, sebbene non riuscissi a immaginare da chi e per quale motivo. Come me, lei aveva provato la solitudine del diverso e la sofferenza del disprezzo; al contrario di me, non si era data per vinta, non aveva mai pensato di essere nata sbagliata. Aveva, piuttosto, radunato altri come lei, come me, altri che capivano. Ibridi dalle sembianze bizzarre, con squame e branchie, piume e zanne, volti deformi e corpi aggraziati, che mi sorridevano e mi tendevano le mani da eguali. Così feci il mio ingresso nella famiglia che qualche tempo dopo venne chiamata "Gli Erranti".
Quella donna che per metà era una fata e che portava il nome di un uomo era il loro portavoce, ed era lì per parlare di affari con il governatore di Escalona. Così sfilai per le vie della città al loro fianco, ricoperto di fango ma a testa alta, fiero di chi ero invece di essere invidioso di chi non ero e non sarei mai potuto essere, e di fronte agli sguardi sbigottiti degli umani e inorriditi degli elfi, per la prima volta, sentii che potevo anche ridere.

lunedì 4 ottobre 2021

Rumore grigio


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Foto di Max Vakhtbovych da Pexels


Vera si svegliò con una strana eco nelle orecchie. Non era il ripetersi di una voce, non era un ronzio o un fischio, e non era nemmeno un sussurro o un ululato, sebbene avesse qualche caratteristica di tutte queste cose. Era, piuttosto, il rimbombo di un ampio spazio vuoto che come la risacca in una conchiglia ingannava le sue orecchie, era rumore grigio, costante e opprimente, era l'eco di stanze dimenticate e di cose perdute. I suoi primi respiri dopo l'oblio del sonno - nessun incubo spaventoso, forse per la prima volta da quando si era ripresa dopo l'incidente - le restituirono un odore sabbioso, come di talco, ma meno gradevole. Inspirando più a fondo, nel cercare di dare un senso a quelle percezioni inusuali, la ragazza individuò un altro sentore, lieve e quasi totalmente soffocato dall'altro: un odore metallico, come la puzza che gli attrezzi da allenamento, le sbarre e i pesi con cui aveva ormai preso confidenza, le lasciavano sulle mani dopo ogni sessione. Un odore che le restava per poco addosso, impaziente com'era di lavarselo via una volta che aveva finito.
Con un mugolio Vera aprì gli occhi per ritrovare il soffitto color cenere della sua camera senza finestre, sepolta in profondità nel complesso dei laboratori. Sospirò. Finalmente qualcosa di normale.
– Dottor Eastfield? – Vera provò a chiamarlo un paio di volte, ma lui non era nella stanza, e nessuno venne da lei. Sapeva di essere monitorata ventiquattrore su ventiquattro, e di solito ogni volta che aveva bisogno di qualcosa un'infermiera, o un assistente, o... qualcuno, era da lei in poco tempo. Dopo quello che era accaduto a Marta e a Luisa, le sue amiche, le uniche sopravvissute all'incidente assieme a lei, gli scienziati che lavoravano nel complesso erano divenuti estremamente protettivi. Vera fece un ultimo tentativo con il pulsante rosso accanto al letto, ma dopo una lunga attesa si rassegnò al fatto che nessuno sarebbe entrato nella stanza.
Un'esplosione deformò il rumore grigio che le tappava le orecchie. Una frazione di secondo, e mentre la sua mente le diceva di raggomitolarsi sul letto e stringere gli occhi, il suo corpo era già scattato in piedi, con i pugni alzati, pronto a combattere. Ma non c'era niente, nessun nemico da abbattere tra le pareti bigie. E l'esplosione, quell'esplosione, Vera non era nemmeno più sicura di averla sentita davvero, non nel presente, almeno.
Tante altre volte l'aveva udita nei suoi incubi. Nei suoi ricordi.
Vera si rilassò, si vestì e si avvicinò alla porta scorrevole. La porta non si mosse. Era però appena aperta, giusto uno spiraglio, e tirando e forzandola Vera riuscì a ricavare uno spazio abbastanza ampio da scivolare all'esterno, contorcendosi un po'.
Fuori, le stranezze continuavano. Il suo secondino, un soldato dalla mimetica bigia che stava sempre di guardia alla porta della sua camera, volto diverso, diverso individuo ma stesso atteggiamento giorno e notte, per la prima volta da quando l'avevano portata in quel posto era sparito. Il rumore nelle orecchie di Vera ondeggiò e crepitò, facendola sussultare. Il corridoio opprimente e grigio, che proseguiva in monotone sequenze di porte metalliche prive di qualsivoglia contrassegno o cartellino che ne indicasse il contenuto, sembrava più stretto e basso del solito. Vera si mise al centro del corridoio e allungò le mani verso entrambe le pareti, arrivando a toccarle contemporaneamente con i polpastrelli delle dita. Strano. Prima di allora non ci era mai riuscita. Dunque il corridoio si era davvero ristretto. A meno che, come il personaggio di un libro per bambini, non fosse cresciuta di colpo lei, ma questo era impossibile.
Mentre rifletteva sulle bizzarrie di quella giornata appena iniziata, Vera avvertì un basso ruggito inserirsi nel rumore a cui si era ormai abituata e dal fondo del corridoio un soffio di vento caldo e solforoso, come l'alito mefitico di un'orrenda enorme bestia, la investì in pieno, facendola vacillare.
Altri schiocchi e bisbigli e versi animaleschi provennero dall'alto, dal soffitto e dalle sommità delle pareti grigio piombo dove un paio d'ombre deformi e vagamente antropomorfe strisciavano, avvicinandosi sempre più a lei, e dove passavano la luce impietosa delle lampade a neon veniva oscurata, gettando il corridoio in una oscurità spaventosa.
Quegli esseri impalpabili, orrendi, fatti di buio e di nebbia... Vera seppe all'istante di non poterli combattere.
Si girò e, col cuore in gola, corse nella direzione opposta.

sabato 2 ottobre 2021

Marasma

Marasma [ma-rà-sma] s.m. (pl. -smi) 1. med. Decadimento progressivo delle funzioni dell'organismo provocato da vecchiaia o da gravi malattie. 2. fig. Stato di grave crisi e disordine nelle istituzioni politiche, sociali e nelle organizzazioni; caos, sfacelo; anche, disordine, baraonda.

Etimologia: dal francese marasme, che a sua volta proviene dal greco marasmós, "consunzione", derivato di maráinein, "consumare".



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Al suo arrivo non lo avevo nemmeno guardato. Ero troppo occupato a cercare di liberare i polsi dalle corde robuste e strette, troppo strette. Avevo smesso di ascoltarlo dopo aver appurato che dalla sua bocca uscivano solo frasi deliranti e parole vane, e che nulla di ciò che avrei potuto dirgli avrebbe fatto la differenza. Quel folle continuava la sua recita come un disco inceppato, senza curarsi di me o di nient'altro al mondo. In quella sua prima "visita" camminò molto vicino al letto a baldacchino su cui ero steso e bloccato dalle corde, così che non potei vedere il suo volto, nascosto dal drappeggio; e anche quando se ne allontanò, lo fece dandomi le spalle, muovendosi negli angoli ciechi del mio limitato campo visivo.
Ciò mi aveva dato speranza. Se non voleva che lo vedessi, che potessi riconoscerlo, forse non intendeva uccidermi. Forse ero lì in attesa di un riscatto.
La mia speranza morì quando lui si infilò sotto al baldacchino per sollevarmi la testa e cercare di farmi trangugiare un intruglio disgustoso. Allora lo vidi e da molto vicino. La pelle fragile come cartapesta sembrava staccarsi dalla sua faccia in scaglie di sapone. Aveva guance incavate, la fronte segnata da rughe profonde e sopracciglia rade sopra occhi molto più giovani del resto di lui. Non mi chiesi, allora, quale spaventoso male avesse provocato il marasma che lo affliggeva.
Fu solo molto tempo dopo, dopo che lo ebbi guarito a prezzo della mia identità umana, che lui riuscì a parlarmi delle circostanze che lo avevano portato a naufragare sulla Terra e ad ammalarsi. Lui aveva visto gli ultimi giorni del suo mondo, il marasma quando la civiltà era crollata ed era rimasto solo l'istinto di sopravvivenza, il caos, la violenza.
Lui ce l'aveva fatta, era arrivato in un nuovo mondo ricco di vita di cui nutrirsi, ma non aveva più alcun mezzo su cui ripartire e non avrebbe mai saputo se là fuori, su un altro pianeta, qualcuno che un tempo aveva conosciuto fosse stato altrettanto fortunato.