giovedì 7 ottobre 2021

Famiglia, forza d'animo e un'armatura di fango

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Credevo di non poterlo sopportare.
Nei boschi vicino a Escalona, lungo i torrenti che scorrevano a valle frammentando la luce in scintillii con le loro piccole cascate, i figli degli elfi, i miei compagni di sangue puro, mi lasciavano sempre indietro e non appena li perdevo di vista tra gli alberi loro erano lesti ad ammantarsi d'illusioni, a deviare la luce per non essere scorti o ad accecarmi con lampi improvvisi e visioni di creature spaventose finché, atterrito e confuso, non finivo con lo sbattere contro un tronco, o a perdere l'equilibrio e cadere nel fango. Mi deridevano, dopo, spronandomi a cercare di eguagliarli, ben sapendo che non sarei riuscito a evocare nulla di più di un effimero bagliore, e per giunta con molta fatica.
In città non sembrava diverso, solo con meno magia e molto più sdegno. Quando accompagnavo mia madre nelle sue commissioni per rifornire la dimora degli elfi, in cui lavorava come domestica, la gente la guardava con pietà e scrutava me con disprezzo misto a timore, come se lei avesse partorito una serpe. Gli umani non erano gentili con me: mi evitavano, a volte fingevano che nemmeno ci fossi, e impedivano ai loro figli di coinvolgermi nei giochi, persino di parlarmi, e spesso li richiamavano in casa per nasconderli quando ero nei paraggi.
La colpa, pensavo, era mia. Ero troppo umano per gli elfi, troppo elfo per gli umani. Rifiutato da entrambi, non avevo alcun luogo, e alcuna gente, a cui appartenere. Con il passare degli anni mi rifugiai sempre più nella solitudine, isolandomi per lunghe ore, a volte per giorni, sulle rive di uno di quei torrenti, ad ascoltare lo scorrere cristallino dei fiotti d'acqua, il gracidio delle rane e le voci di fringuelli e cinciallegre. Le piccole creature di quei boschi incantati, gli spiritelli e i folletti erano i miei unici compagni, e io a poco a poco imparai a comunicare con loro, o almeno, con quelli che erano in grado di parlare. Deluso da un mondo ingiusto, non m'importava di nessun altro, nessuno che non fosse mia madre perché per quanto riguardava mio padre, il figlio dell'ambasciatore degli elfi, io non ero altro che un errore di gioventù, il ricordo vivente della sua vergogna.
Pensavo di non poter sopportare tanto astio, non senza iniziare a odiare a mia volta. Pensavo che nessun altro al mondo avesse cominciato la sua vita con un tale carico di problemi e avversità; che nessun altro fosse partito da una situazione di tale svantaggio.
Poi, nella più impossibile delle situazioni, trovai lei.
Era a capo di un eterogeneo gruppetto che a prima vista scambiai per una compagnia di mercenari. Lei poteva agevolmente passare per umana, e non avevo notato all'inizio quanto coloro che la accompagnavano fossero bizzarri, perché ero troppo occupato a cercare di alzarmi dal fango in cui i miei vecchi compagni di "giochi", non ancora del tutto cresciuti a differenza di me, mi avevano di nuovo fatto cadere, in nome dei vecchi tempi.
Lei sembrava starsene lì a guardarmi dall'alto con una grazia eterea, ma anche una discreta forza che si indovinava dalle membra tornite infilate in comodi abiti da guerriera. Il pugnale che riposava stretto tra i suoi fianchi e la cintura pareva un pezzo d'osso appena strappato da chissà quale bestia, con ancora brandelli di carne attaccati. Quella donna mi apparì incantevole, sicura di sé e pericolosa, tutto ciò che io non ero. Cercai almeno di togliermi il fango dal viso, cosa non facile con le mani impiastricciate, ma lei mi disse: – No, non farlo. Non vedi quale dono ti hanno fatto i tuoi nemici? Ti hanno dato un'armatura. Lascia che si secchi. Che si depositi sulla pelle, e sotto. Oggi sei diventato più forte. La prossima volta, ti proteggerà.
Capii subito che quel consiglio le veniva dall'esperienza, che anche lei era stata rifiutata, sebbene non riuscissi a immaginare da chi e per quale motivo. Come me, lei aveva provato la solitudine del diverso e la sofferenza del disprezzo; al contrario di me, non si era data per vinta, non aveva mai pensato di essere nata sbagliata. Aveva, piuttosto, radunato altri come lei, come me, altri che capivano. Ibridi dalle sembianze bizzarre, con squame e branchie, piume e zanne, volti deformi e corpi aggraziati, che mi sorridevano e mi tendevano le mani da eguali. Così feci il mio ingresso nella famiglia che qualche tempo dopo venne chiamata "Gli Erranti".
Quella donna che per metà era una fata e che portava il nome di un uomo era il loro portavoce, ed era lì per parlare di affari con il governatore di Escalona. Così sfilai per le vie della città al loro fianco, ricoperto di fango ma a testa alta, fiero di chi ero invece di essere invidioso di chi non ero e non sarei mai potuto essere, e di fronte agli sguardi sbigottiti degli umani e inorriditi degli elfi, per la prima volta, sentii che potevo anche ridere.

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