giovedì 28 ottobre 2021

Lacrime aride


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Photo by lucas souza from Pexels


Forse avevo sbagliato a lasciare Katouri nell'ignoranza, ma da quando aveva rotto il suo guscio e l'avevo stretta tra le braccia, avevo avvertito l'esigenza di proteggerla da tutto.
Anche dalla verità.
Le avevo raccontato che gli individui spregevoli che terrorizzavano il nostro villaggio, rapendo di tanto in tanto una o due donne in età fertile, non avevano nulla a che fare con noi. Le avevo spiegato che erano estranei, invasori venuti da un mondo al di là del cielo stellato, troppo forti e aggressivi rispetto al nostro popolo pacifico per riuscire a respingerli. L'avevo avvertita che chiunque le diceva altrimenti era in errore, che non ricordava più il mondo com'era prima che loro arrivassero, come eravamo felici, libere e spensierate. Katouri si era fidata di me, e aveva sempre difeso la visione di speranza che le avevo impartito, almeno finché la realtà non era arrivata a renderlo impossibile.
A che cosa era servito, mi chiedevo in quel momento, osservando le punte verdi delle fiamme lambire le ali lucenti di qualche incauta farfavilla che si era avvicinata troppo al nostro misero fuocherello. Eravamo da sole, nella zona selvaggia, senza possibilità alcuna di sfuggire ai cacciatori.
Il volto di Katouri era segnato dalle scie bluastre delle lacrime, che nonostante l'umidità della zona selvaggia, quando giungevano alle sue guance si asciugavano e si disperdevano nell'atmosfera in una polvere sottile. Katouri reggeva tra le dita una boccetta polarizzata per attirare al suo interno le sue lacrime aride: nel contenitore trasparente, la sabbia azzurrina raggiungeva l'altezza di due dita. Erano davvero tante lacrime, pensai, mentre nel silenzio crepitante delle voci dei grillodori scivolavo verso di lei e la stringevo tra le braccia.
Lei mi posò la testa sulla spalla, macchiando la manica candida di quel blu. – Non voglio dimenticare che cosa vuol dire essere triste – mormorò lei, la voce soffocata dal tessuto contro cui premeva il volto. – Non voglio dimenticare che ti voglio bene. Non voglio diventare come loro.
Le accarezzai i capelli con un sospiro. Se solo non avesse visto quella gente sparare alla vecchia Jamari, che dopo aver sfornato sette figlie, non aveva più la forza di produrre un altro uovo. Se non l'avesse vista rialzarsi e ignorare le suppliche delle sue figlie, guardarle come se non le conoscesse, pretendere la sua vendetta nel lottare a mani nude e infine uccidere il vecchio che le aveva sparato, per poi andarsene assieme a loro, come uno di loro, un maschio della nostra specie.
Avevo sempre cercato di tenere Katouri in casa quando venivano, ma quella volta loro avevano voluto che ci fossimo tutte, affinché vedessimo, affinché non dimenticassimo mai chi erano i nostri padroni, e potessimo assistere a quello che loro consideravano un premio.
– Lo so, tesoro. Lo vorrei anch'io – mormorai di rimando, scrutando la notte buia e brulicante di vita. Chissà dove, un Orsatto stava divorando la sua preda, un gufagno che emetteva gli ultimi, flebili lamenti. Questo mondo era troppo crudele per una bambina sensibile come la mia Katouri, e io avevo avuto solo la colpa di volerlo cambiare, almeno per gli anni della sua infanzia, almeno con la fantasia. Non c'era più spazio o tempo per questo, mentre aspettavamo di essere trovate. Non si poteva sfuggire all'inevitabile, come non si poteva fuggire davanti alla verità, non più. – Ma accadrà. Quando morirai la prima volta, qualcosa si spegnerà dentro di te. Diventerai una persona diversa. Ricorderai tutto, almeno questo è ciò che dicono, ma non lo sentirai più. Non come ora – conclusi, sbirciando la boccetta che ancora raccoglieva granelli delle sue lacrime aride. La nostra vita era come la polvere di quelle lacrime, pensai: iniziava unita dall'acqua e scorrevamo insieme, vicine, come parte di un'unica goccia che cadendo lasciava una traccia. Poi l'acqua si asciugava, quello che ci legava scompariva, e fluttuavamo via come individui isolati, frammenti di polvere che guardavano il mondo, la lacrima che erano stati, dall'altezza necessaria a decidere della vita e della morte di chi si erano lasciati indietro senza più provare rimorso.
Sapevo che cosa ci aspettava quando ci avrebbero trovato i cacciatori. Avrebbero ucciso una di noi e ci avrebbero guardato lottare fino all'inevitabile epilogo: una di noi si sarebbe unito a loro, l'altro, morto una seconda volta, non si sarebbe più rialzato. Era la punizione per aver osato fuggire dal villaggio, per aver osato sperare in una vita diversa. Non glielo dissi, ma probabilmente Katouri lo immaginava, ora che sapeva la verità. Loro erano il nostro inevitabile futuro.
– Non voglio morire. Non voglio cambiare – mormorò lei. Tappò la boccetta, ormai tutte le sue lacrime si erano asciugate, e la ripose nella sacca che conteneva i pochi averi che avevamo portato con noi. – Non senza provare a fare qualcosa.
Il suo piano era folle, frutto della speranza che avevo per anni instillato in lei. Aggirare i cacciatori, andare nella cittadella abitata dai maschi della nostra specie, e rubare una delle loro navi per tentare la fortuna su un mondo al di là del cielo stellato. Il luogo da dove le avevo sempre detto venire il terrore, era divenuto in una sola notte il luogo dove si celava forse la nostra libertà e la nostra gioia. La seguii solo perché aveva bisogno di me, lei non era mai stata nella cittadella, non era ancora mai stata scelta per portare un uovo, era ancora troppo giovane. Non mi aspettavo che il piano di Katouri funzionasse, ma che attendessimo lì accanto al fuoco l'inevitabile fine o che facessimo un ultimo, disperato tentativo, la nostra sorte non sarebbe cambiata. E allora tanto valeva provare, alimentare per l'ultima volta l'illusione della speranza che avevo piantato in lei.
Invece, prima che Sarida, la nostra stella, sorgesse sul villaggio, sulla cittadella e sulle terre selvagge, noi eravamo altrove, al di là del cielo, a cercare una nuova sorte sotto un'altra stella.

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