lunedì 30 dicembre 2019

Non disturbare


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


– Allora, hai deciso?
Sbuffo e mi volto allo sgradevole suono della voce di mio fratello, entrato senza nemmeno bussare. Evidentemente non aveva visto la porta chiusa, e nemmeno il cartello con la scritta a grandi lettere "NON DISTURBARE". Inoltre, era ovvio che non avevo ancora deciso dato che gli avevo detto, anzi no, gli avevo giurato che quando avessi deciso, lui sarebbe stato il primo a saperlo.
– No – ribatto in tono lamentoso, mi giro e riprendo il lavoro che avevo lasciato sulla scrivania. La faccenda è chiusa, almeno per il momento, la risposta che cercava l'ha avuta, e io speravo di riuscire a finire il progetto di scienze prima delle quattro, così potevo andarmene da quella casa e stare per un po' in giro con Miky e le altre.
Ancora una volta, avevo sopravvalutato la capacità dei maschi di cogliere i segnali.
– E quand'è che ti decidi?
All'ennesima domanda, sbatto il tubetto di colla sul tavolo, alzo gli occhi al soffitto ed esalo un lungo mugugno esasperato.
– Deciderò quando sarà il momento, Chris! Adesso smettila di disturbarmi e fila in camera tua! Va' a fare i compiti!
Mi giro per assicurarmi che se ne vada davvero. Non ho neanche bisogno di fare la faccia dura: sono legittimamente arrabbiata.
– Tu non sei la mia mamma! Non puoi dirmi quello che devo fare! – Chris si mette a strillare. Tira su col naso e prosegue, piagnucoloso: – Sei cattiva! Lo dico a papà, sì, lo dico a papà appena torna!
Chris se ne va sbattendo la porta. Pace, finalmente.
Mi rigiro di nuovo e riprendo a costruire quello stupido progetto di scienze, ma sono nervosa. Chris vorrebbe che cercassi sua madre e che dicessi a papà che preferivamo stare con lei. Gli avevo risposto che dovevo decidere come fare per rintracciarla e per convincere papà che fosse una buona idea, ma più ci pensavo e più ero convinta io che non lo fosse.
D'altra parte, se la madre di Chris ci aveva lasciati senza nemmeno salutarci, non avrebbe fatto i salti di gioia al pensiero di riprenderci.

sabato 28 dicembre 2019

Arcano


Arcano [ar-cà-no] agg., s. 1 agg. Celato, nascosto; occulto perché misterioso e sacrale. 2. s.m. Mistero, enigma.

Etimologia: il termine proviene dal latino arcanus, "nascosto", derivato da arca, ovvero "forziere, scrigno".

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by David Bartus from Pexels


Io e Immanuel sedevamo ai lati opposti del tavolo, a fissare in silenzio, con occhi allo stesso tempo euforici e preoccupati, i foglietti su cui avevamo tracciato i simboli. Avevamo provato, e funzionavano tutti quanti, dal primo all'ultimo. L'arcano delle Torri si era rivelato per ciò che era: un inganno. La magia non era mai stata negli antichi talismani chiamati Symbolon, ma come aveva sempre sostenuto la mia famiglia, era nella mente di chi la praticava, e nella sua fiducia che funzionasse.
Ma cosa fare di questa informazione era tutt'altra storia.
– Dovremmo dirlo a qualcuno – esordii, incerto.
Immanuel si alzò con un sospiro. – E sfidare il potere dei maghi? È pericoloso, lo sai. Tu, più di chiunque altro.
Quello era un colpo basso. Per secoli le famiglie di stregoni erano state perseguitate dai maghi delle Torri, con l'intento di estinguere ogni forma di magia che non fosse la loro. Io ero uno degli ultimi stregoni, ma le conoscenze arcane di cui sarei dovuto essere depositario erano morte con mio padre.
– Possiamo farne qualcosa di piccolo, di innocuo, e facilmente trasportabile. Un mazzo di carte, ad esempio. All'occorrenza, può persino essere bruciato senza lasciare traccia.
Già me la immaginavo, la nostra piccola società segreta di maghi clandestini, all'opera per diffondere una sotterranea forma di magia illegale. Non avevo alcuna idea, allora, della rivoluzione a cui stavamo per dare inizio.

giovedì 26 dicembre 2019

Quel grazie su un biglietto


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Giftpundits.com from Pexels


L'istante in cui il biglietto mi è caduto tra le mani nell'aprire l'armadietto avrei dovuto sentirmi sollevata. In fondo, quel "grazie" sopra a due vocali puntate significava la fine dei miei guai e di ogni ulteriore rischio. Voleva dire che lui se n'era andato dal locale caldaie e che non c'era più niente che voleva che facessi. Niente più commissioni, niente garze cambiate clandestinamente, nessun altro medicinale sottratto alle nostre scorte. Avevo già fatto fin troppo per lui, e un ringraziamento era il minimo. Eppure, non mi sentivo sollevata.
Non era neanche indignazione quello che provavo. Sarebbe stato un sentimento lecito: dopo tutto ciò che avevo fatto, un semplice "grazie" su un foglietto di carta era, appunto, il minimo. Non aveva nemmeno avuto la decenza di dirmelo di persona. E in più, per infilare il biglietto là dentro di sicuro aveva dovuto carpire informazioni su di me, scoprire quale fra i molti armadietti mi apparteneva, e scassinare la serratura. Avevo più di un motivo per giustificare la mia collera. Ma non era quella violazione a irritarmi.
Ero arrabbiata perché durante la sua permanenza nei sotterranei dell'ospedale io mi ero sentita viva come mai mi era capitato prima di allora, e quel biglietto giungeva come un'inattesa brutta notizia a porre fine a tutto, e lo aveva deciso lui, senza consultarmi, senza nemmeno chiedermi se a me stava bene. Accartocciai il biglietto nella mano stretta a pugno e ignorai l'occhiata in tralice di Colette, due armadietti più in là. Avevo un vantaggio: sapevo dove abitava.
E avevo tutta l'intenzione di non permettere che finisse così.

lunedì 23 dicembre 2019

Radici


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by James Wheeler from Pexels 


Quando ho compreso che quello che mi dicevi era vero, che io ero davvero una driade, ho avuto un'immensa paura. Ero spaventata dal pensiero che un giorno mi sarei fermata su una zolla di terra e avrei messo radici, capisci, come un albero. D'altra parte quella sensazione, quella che proviamo quando siamo nella terra e nelle piante, e scorriamo come la linfa nei tronchi, è talmente intensa che a volte dubito di riuscire a tornare nel mio corpo.
Poi, quando la paura è passata, sono state altre radici a occupare i miei pensieri. Conoscevo già il mio nome quando mi hai rivelato chi ero davvero, e con il dottor Carrari, l'altro dottor Carrari, avevo fatto qualche svogliata ricerca sulla mia famiglia di origine. Ho vissuto in una casa famiglia da quando avevo dodici anni, lo sapevi? Ancora oggi, non mi ricordo quasi niente di quel periodo.
Ma non mi dispiace non ricordare. Ciò che mi dispiace è che ho una domanda a cui nessuno ormai potrà dare risposta. I miei genitori sapevano del patto delle driadi quando hanno scelto per me questo nome, Lily, il nome di un fiore? Oppure me lo hanno dato solo perché gli piaceva, senza sapere in che modo avrebbe influenzato la mia vita?
Lo so, lo so. Conoscere quella risposta non cambia di una virgola il mio presente. E adesso che so di te, che non sono l'unica, adesso che ho abbracciato la parte arborea della mia anima invece di rinnegarla, non vorrei che avessero scelto nessun altro nome per me.
Insomma, quanti altri a questo mondo, a parte te e me, possono dire di avere radici così profonde da essere saldamente piantate in un mito?

sabato 21 dicembre 2019

Novella


Novella [no-vèl-la] s.f. Narrazione di solito breve, perlopiù in prosa, di fatti reali o immaginari, avventurosi o fantastici. Racconto. 2. Notizia, annuncio di avvenimenti nuovi, recenti e spesso insoliti, novità. 3. ant. Discorso, ragionamento.

Etimologia: deriva dal latino novella, diminutivo di novus, "nuovo".

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Suzy Hazelwood from Pexels


L'intero mondo era diventato una novella, per noi.
Era tutto un racconto di cui riuscivamo a leggere la trama, seguendo i fili invisibili che conducevano da un avvenimento all'altro. Potevamo intervenire, ovunque lo ritenessimo necessario, per modificare il corso della Storia nel suo svolgersi di fronte ai nostri occhi.
Le nostre lunghe vite ci avrebbero consentito di rammentare eventi che per gli uomini non erano altro che leggende di molte generazioni prima, e con la nostra nuova comprensione di ogni causa ed effetto, sarebbe stato semplice plasmare il futuro.
Per un po', ci credemmo degli dei.
Novelle della nostra caduta giunsero da ogni angolo del mondo. Scoprimmo così, con i nostri fallimenti, che la maggiore comprensione era accompagnata da una maledizione: più pesantemente la nostra mano interveniva nella trama della Storia, più diminuiva la nostra capacità di prevedere le conseguenze. E le conseguenze, spesso, finivano con l'essere disastrose.
Presto capimmo che ci erano date due sole scelte: un'esistenza come mostri dalle orecchie a punta in mezzo ai caduchi esseri umani, incapaci di aiutarli, eternamente accecati dalla nostra superbia, o una vita al di fuori della vita, chiusi in un isolamento perpetuo, fino a quando anche l'ultimo uomo non ci avesse dimenticati.
Fu così che scegliemmo di diventare una leggenda.

giovedì 19 dicembre 2019

Storia di un indesiderato


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Questa è la terza volta, e non ho alcuna speranza che sarà diversa dalle altre.
Come sempre accade, ecco che mi rimettono in sesto, mi vestono a festa, mi appendono un farfallino al collo, ma ormai non mi faccio illusioni: è passato il tempo in cui credevo di essere stato scelto, io solo fra tanti altri, destinato a essere accolto da una famiglia amorevole, a prendere il posto che mi spettava in una casa che avrei potuto considerare mia. E invece, da allora, sono passato di mano in mano, trattato come uno scarto, poco più degno dell'immondizia in cui finivano ogni volta i miei bei vestiti nuovi e il mio fiocco luccicante.
Eccoli, quelli nuovi, quelli che non mi terranno.
Dura la vita di un regalo riciclato.

lunedì 16 dicembre 2019

Nessun trucco


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.

Rugiada arriva al tavolo dove Chris sta facendo i compiti, ci appoggia sopra un piattino con della frutta ricoperta di cioccolato e si siede.
Lui la ignora mentre lei lo fissa sbocconcellando una fragola, poi un pezzetto di banana. O almeno, Chris ci prova, a ignorarla: infatti, di tanto in tanto, sbircia con desiderio il piattino e il suo contenuto.
Era solo questione di tempo, prima che incrociasse lo sguardo curioso di mia figlia. A quel punto, colto in flagrante, Chris sbuffa. – Tu non hai i compiti da fare? Da qualche altra parte, intendo.
Rugiada dondola le gambe e scuote la testa. – No. Ho già finito tutti i miei esercizi. Ti aiuto con i tuoi?
Chris ridacchia. – Guarda che questi sono troppo difficili per te.
La bambina fa una smorfia, manda giù il boccone, e indica l'ultima riga sul quaderno di Chris. – Lì è sbagliato.
Chris la squadra con scetticismo. Ma cosa può saperne una bambina delle elementari, che per giunta nemmeno ci va a scuola. Non ha idea di quello che insegno alle mie figlie.
Quando riprende, per scrupolo Chris ricontrolla i calcoli dell'ultima riga, cancella e corregge. L'aiuto, però, non lo rende più amichevole. – Vattene via saputella, va' a giocare da qualche altra parte. Sei tu che mi distrai.
Rugiada non si scoraggia. Resta al suo posto, e dopo una fettina di mela, aggiunge sottovoce: – Non dovrei... mamma non vuole. Ma se mi prometti di non dirlo a nessuno, ti mostro una cosa.
Chris sbatte la penna sul tavolo, visibilmente irritato. – Che cosa?
– Non posso dirlo, è un segreto. – Rugiada stringe le labbra. – Allora, me lo prometti?
– Se te lo prometto, dopo mi lasci in pace?
Manca poco che Chris rivolga lo sguardo alla soglia da dove li sto osservando. Ma non lo avrebbe mai fatto, e questo lo so per certo. Non essere vista è tra le cose più facili al mondo da ottenere.
Rugiada annuisce. – Se dopo vuoi che vado via, io vado. Ma non penso che dopo lo vuoi.
Rugiada fa un sorrisino compiaciuto mentre Chris le fa la promessa richiesta. La bambina allunga una mano, a dita distese, sopra una fragola con la punta di cioccolato e bisbiglia con la fronte aggrottata.
Anche da quella distanza, sento i capelli rizzarsi sulla nuca. Avrei potuto fermarla mille volte, da quando aveva cominciato a parlarne; ma il mistero è molto più pericoloso della verità, e sapevo che prima o poi i miei nipoti lo avrebbero scoperto comunque.
Quando la fragola cade all'incontrario incontro alla mano aperta che la sovrasta e che l'afferra, Chris ha un moto di sorpresa, subito soffocato da uno sbuffo. – Tutto qua? L'ho già visto alla televisione, e fatto molto meglio. Mio papà mi ha spiegato il trucco. Ci sono dei fili che...
– Non c'è nessun trucco! – protesta mia figlia. Molla la fragola e incrocia le braccia. – Ecco, lo sapevo. La mamma non vuole che lo facciamo quando c'è qualcun altro, dice che non credono che sia vero, o se ci credono, poi hanno paura di noi.
Chris mugugna e scuote la testa di fronte al piagnucolio della bambina. Infine cede. – E va bene! Quella è una vera magia, e tu sei una vera maga. Contenta?
Rugiada zittisce, scioglie le braccia e fissa il cugino. – Tu ci credi? – mormora, quasi temesse la risposta.
Chris annuisce.
– E non hai paura?
– Perché dovrei? – replica Chris. È ancora convinto che si tratti di un trucco.
Ma intanto ha fatto felice la bambina, che prende a parlare più veloce e a voce più alta. – Luna è più brava di me a spostare gli oggetti, dovresti vederla, lei li sa mandare dall'altra parte della stanza, io non ci riesco ma so fare bene un'altra cosa, vuoi che te la mostro?
Chris rivolge un'occhiata al quaderno dei compiti. Sospira, e le dice di sì. A quel punto, qualunque cosa è meglio della matematica.
Rugiada sorride, s'inclina verso di lui, gli appoggia la mano sulla guancia e bisbiglia. È un attimo, prima che Chris si tiri indietro con gli occhi spalancati e un'esclamazione di sorpresa.
Ci mette un po' a riprendersi. Alla fine, fissa la bambina in attesa.
– Ma come... – biascica. Scuote la testa. – C'è una cosa che mi sono ricordato... non ci pensavo da un sacco di tempo. Sei stata tu... sei stata davvero tu a farmela ricordare?
Rugiada annuisce. E Chris inizia a guardarla con occhi diversi.
Ora le crede.

sabato 14 dicembre 2019

Ballotta


Ballotta [bal-lòt-ta] s.f. Castagna bollita con la buccia.

Etimologia: deriva dall'arabo ballūṭ, che indicava un tipo di quercia che produce ghiande commestibili. I persiani chiamavano il castagno sciak-ballūṭ, "quercia del re".

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Vlad Chețan from Pexels


Nell'angusto cucinino il calderone borbottava e ribolliva, riempiendo di vapore il soffitto. Nessa mi aveva lasciato una foglia d'alloro da stropicciare tra le dita per ingannare il tempo nell'attesa. In realtà non avrei dovuto essere lì, ma io avevo insistito per raggiungerla.
Volevo vedere come si cucinava quella che allora, quando ero ancora umana, consideravo una leccornia prelibata.
Mosse dalle bolle, le ballotte battevano contro il fondo della pentola al ritmo della mia impazienza.
– Quanto manca? – chiesi a Nessa, che sedeva accanto al fuoco con molta più compostezza di me.
– Non molto – rispose lei. – Ti racconto una storia, nel frattempo?
Scossi la testa, ma Nessa continuò a parlare, e in breve tempo mi trovai avvinta in una delle sue favole.
Prima che me ne rendessi conto, le ballotte erano pronte. Ma ancora dovevo aspettare che le mani di Nessa, abituate al calore, le sbucciassero per me. Mia madre si sarebbe arrabbiata con lei se avesse lasciato che mi scottassi le dita.
Se solo avessi saputo che quella era la mia ultima occasione di sentirne il calore, di bruciarmi per qualcosa di solido e concreto, ne avrei prese a piene mani prima di passare tra la lingua e i denti la loro farinosa dolcezza.

giovedì 12 dicembre 2019

Io e il folletto


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Rachel Xiao da Pexels


Da quando ero tornata nella vecchia casa dei miei genitori, la convivenza con il mio scomodo, piccolo coinquilino a sorpresa non era iniziata nel modo migliore.
Malcolm Millipedegutter aveva fatto presto a scoprire dove tenevo i biscotti con gocce di cioccolato, i suoi preferiti, che avevo cominciato a prendere per premiarlo quando si comportava bene. Svanita assieme alla confezione di biscotti ogni speranza di riuscire ad addestrarlo come un cagnolino, avevo smesso di portarne a casa ed ero passata alle minacce. Sapevo, dalle sue conversazioni con mio fratello quando eravamo bambini, che i gatti erano la sua nemesi, quindi accennai più volte all'intenzione di prenderne uno, e mi misi perfino a guardare video di gattini miagolanti quando mi sembrava di sentire Malcolm grattare da dentro le pareti.
Il giorno dopo piovve in soffitta. Le tegole sembravano spostate dal vento, ma io sapevo chi era il colpevole.
Andò avanti così, tra dispettucci e ritorsioni da agosto fino a dicembre. Sotto Natale, decisi di fare io il primo passo, e lasciai sul tavolo della cucina la sua leccornia preferita mentre costruivo una casetta di pan di zenzero. Com'era prevedibile, Malcolm arrivò poco dopo, e mentre spezzettava il biscotto con le sue dita di ramoscello, puntò gli occhietti neri sulla mia casetta.
– Cos'è quello? – gracchiò la creaturina dalla pelle rugosa.
– Una casa per te – risposi. – Non preferiresti vivere in una casa tutta tua, fatta su misura, piuttosto che dentro i muri di qualcun altro?
Malcolm sbuffò e soffiò, sputacchiando briciole, poi urlò una serie di no infinita mentre buttava giù la parete d'ingresso e una parte delle caramelle gommose che decoravano il tetto, per sparire infine nelle intercapedini.
– Questa è casa mia! – ribadì l'eco della sua vocina gracchiante dal soffitto. – E né tu né nessun altro mi butterete fuori da casa mia! Non la voglio la tua brutta copia!
Il mattino seguente però, scoprii che la parete era stata raddrizzata, e dentro la casetta rinvenni i rimasugli di un biscotto e di un paio di caramelle gommose.
Forse la mia offerta di pace non era stata così sgradita come sembrava.

lunedì 9 dicembre 2019

Zampe


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Capisci che la tua vita è diventata piuttosto strana quando ti fai male e non sai se chiamare un dottore o un veterinario.
Quella notte avevo sognato di correre nudo nel bosco dietro casa, e al mio risveglio avevo scoperto che forse non era stato del tutto un sogno. È stato così che mi sono ritrovato con un paio di orecchie triangolari tra i capelli, una coda pelosa e ingombrante, unghie delle mani un po' troppo lunghe e appuntite e un paio di zampe canine, una delle quali, giustamente, mi faceva un male cane.
E non ricordavo di essere stato morso da un lupo mannaro, né maledetto da una zingara.
Mentre me ne stavo lì a contemplare un po' incredulo la situazione e a chiedermi a chi dovessi rivolgermi per lenire il dolore, vidi farsi avanti un paio di zoccoli caprini. Alzai gli occhi e scoprii che appartenevano non al diavolo, bensì a una bella ragazza che mi tendeva la mano.
– Riesci a camminare? – mi chiese. Al mio cenno affermativo, aggiunse: – Da noi c'è una guaritrice. Vieni con me, lei ti può aiutare.
Lì per lì ne fui felice. Pensavo che la guaritrice avrebbe risolto questa assurda situazione, e invece no: la sua competenza non andava oltre la mia zampa ferita. Avrei dovuto immaginarlo, vedendo la ragazza con gli zoccoli.
È stato così che ho cominciato il mio viaggio con il circo dei mostri.

sabato 7 dicembre 2019

Nebula


Nebula [nè-bu-la] s.f. 1 astron. Nebulosa. 2. ant., lett. Nebbia. 3. ant., lett. Nuvola.

Etimologia: deriva dal latino nebŭla, "nebbia".


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Arnie Chou from Pexels


Una nebula di zucchero filato soffice e rosa si gonfiava e si raccoglieva attorno a un grissino di legno.
Mia madre si fermò di fronte al carretto del venditore di dolciumi e io con lei. Non potevo fare altrimenti: era da quando avevamo oltrepassato l'arco di ferro del luna park che non staccava la sua mano dalla mia. Aveva paura che sparissi di nuovo, ma io non avevo alcuna intenzione né motivo di farlo.
– Vuoi lo zucchero filato, tesoro? – mi chiese mia madre.
Annuii.
Volevo essere ancora un po' bambina per lei, anche se presso la mia gente io ero considerata adulta a tutti gli effetti. La mia gente. Era buffo definirli così.
Alieni.
Avevo vissuto tra di loro e studiato e volato in formazione a bordo della mia Zaesheen, e ancora mi sentivo addosso l'umidità opaca delle nubi. Se guardavo in alto, nella notte stellata, riuscivo a ricordare un cielo diverso, altre costellazioni e altre nebule con cui orientarmi mentre eseguivo le complicate manovre del volo acrobatico che costituiva la prova finale per il nostro gruppo.
Dopo aver vissuto tutto quello, era così strano ritrovarsi sulla Terra ad accettare con un sorriso un grosso batuffolo di zucchero aggrappato a un bastoncino.

giovedì 5 dicembre 2019

Terra


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Daniel Watson from Pexels


Non era la terra. Non era il suolo, né le languide colline boscose, né il mare placido che traboccava all'orizzonte. Non alla nostalgia per i paesaggi che ci lasciavamo alle spalle volgevano i nostri pensieri, e nemmeno alla promessa di un mondo perfetto e libero che attendeva non noi, né i nostri figli, ma le future generazioni a un migliaio di anni di distanza, troppo lontane da immaginare.
Era alle persone abbandonate che pensavamo. A coloro che per scelta o per sfortuna erano rimasti indietro, sulla Terra. Ad amici, parenti e sconosciuti che non avremmo più rivisto. E non potevamo non chiederci quanto sangue e quanti cadaveri avrebbe accolto quello stesso suolo prima che l'invasione aliena facesse il suo corso come una malattia purulenta, o passasse altrove come uno sciame di fameliche locuste o, nella più idilliaca delle ipotesi, fosse sconfitta dai temerari che avevano preferito la lotta alla fuga.

lunedì 2 dicembre 2019

Frittelle e fantasmi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.

Photo by Flora Westbrook from Pexels


Io e la mamma andavamo a trovare Madame Lu due volte al mese. Lei mi faceva paura. Sembrava una strega, con tutte quelle rughe e i lunghi capelli bianchi e i braccialetti che tintinnavano a ogni passo, e la sua casa puzzava sempre di aglio e di tè rancido. Mi offriva delle frittelle di mele, morbide e zuccherose. Erano buone, ma io non le toccavo, o ne assaggiavo giusto un angolino: avevo paura che, come le streghe delle favole, Madame Lu mi avrebbe buttato dentro al forno se fossi diventato abbastanza grasso.
La cosa che mi spaventava di più però era la stanza sul retro, quella dove Madame Lu portava la mamma mentre io me ne stavo in cucina con il mio piatto di frittelle deliziose e tentatrici. Non ho mai saputo che cosa facevano Madame Lu e la mamma nella stanza sul retro, però se stavo zitto e ascoltavo con attenzione potevo sentire un forte rumore di catene e un'altra voce, e a volte mi immaginavo che nell'altra stanza ci fossero i fantasmi. E qualche volta, quand'ero da solo, mi pareva di vedere una bambina della mia età, con lunghi capelli neri davanti al volto pallido, apparire e poi sparire in un angolo della cucina.
Non lo so se anche lei vedeva quel fantasma, ma mamma tornava sempre piangendo dalla stanza sul retro. A quel punto, io ero solo felice che fosse arrivato il momento di andare via dalla casa di Madame Lu.