lunedì 27 febbraio 2017

La risposta

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      “Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare praticamente tutto. Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono precipitato qui. Perchè penso, anzi, perchè sono sicuro, che dovremmo farlo. Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove abita e non sarebbe un problema. Solo sì. Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo.”

      Matteo lo dice tutto d’un fiato, in ginocchio, e poi attende la mia risposta. Io non dico niente, lo guardo dall’alto e gli sorrido. Lui è l’uomo che ho sempre desiderato. Lui è il tipo d’uomo che si ferma a soccorrere un cane investito da un’auto, che salva un uccellino caduto dal nido. È religioso, ma non intollerante. È romantico, dolce, spiritoso, intelligente. Ma è anche modesto e spesso si sottovaluta. Non si rende conto di quanto anche lui sia bravo a fare le cose. Basta vedere tutto quello che sta facendo per rendere questo momento magico e indimenticabile, in così poco tempo.

      Lui è, ai miei occhi, la perfezione fatta persona. E non è unicamente per il suo carattere che lo penso. È una soltanto quella che lui desidera, ma a volte mi vergogno nell’immaginare quante altre donne deve aver fatto impazzire, senza saperlo, anche solo col suono della sua voce. Matteo ha una voce stupenda, profonda e sensuale. Vorrei sentirlo ripetere la dichiarazione ancora una volta, ma mi trattengo dal chiederglielo. Ed è incredibilmente attraente, con quel suo ricciolo che gli cade sempre sul lato sinistro della fronte come una nuvoletta capricciosa, a dispetto del resto della sua capigliatura ben curata; con quei suoi occhi scuri, espressivi, che rivelano subito quando sorride o è triste o pensoso o sta sulle spine come in questo momento, senza dover scendere a guardare la sua bella bocca dalle labbra carnose, da baciare. Starei per ore a guardarlo. Tutto, di lui, mi piace. Mi è piaciuto fin dal primo momento. Dovrei essere felice ma non ci riesco, perché io lo amo. Sì, io lo amo, ma non posso confidarglielo e rovinare tutto. Lui è la persona migliore che io conosca, e non posso fargli questo.

      Lo guardo e il mio sorriso sparisce. Lui spalanca gli occhi neri, in ansia. È ancora in attesa della mia risposta.

      “Sì, lo voglio” vorrei dirgli, ma stringo le labbra per non lasciarmi sfuggire quelle tre parole. Quanto è difficile restare zitta!

      “Allora… che ne dici?” mi chiede. Non sa se alzarsi o restare in ginocchio. Io gli faccio cenno di alzarsi. Mi giro e guardo ancora per qualche istante la sala che ha preparato per il matrimonio a sorpresa, mobilitando i parenti di entrambe le famiglie. Non troverò mai un altro uomo che sappia fare tutto questo per la donna che ama. A malincuore gli do la risposta, non quella che io vorrei, ma quella che lui si aspetta da me.

      “Sì” gli dico, sospirando. “Sì, sono parole bellissime ed è tutto perfetto. Penso proprio che mia sorella non potrà non dirti di sì.”

sabato 25 febbraio 2017

Sinestesia

Tra i tanti vocaboli interessanti che iniziano con la lettera esse, ho scelto questo per il bizzarro fenomeno che indica. Ma anche il suono della parola, sibilante e altalenante, ha il suo fascino.

Sinestesia [si-ne-ste-sì-a] s.f. 1. psicol. Fusione in un'unica sfera sensoriale delle percezioni di sensi distinti. 2. ret. Particolare forma di metafora che consiste nell'associare termini pertinenti a sfere sensoriali differenti.

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La sinestesia è un fenomeno che mi ha sempre affascinato. Posso solo provare a immaginare come dev'essere percepire il mondo in maniera diversa dalla maggior parte delle persone. Scrivendo, posso provarlo esplorando il vissuto di inesistenti creature non umane, che siano elfi, draghi o alieni.


I bambini pensano che tutti quanti siano in qualche modo simili a loro. Io ero una bambina quando arrivai in questo posto, quindi anche io lo pensavo. Fu Maedbe a insegnarmi quanto mi sbagliavo.
– Un'altra volta, riproviamo. Dimmi che cosa vedi.
La chiamano sinestesia, ma io allora non lo sapevo. Sapevo solo che non ero abituata a scindere i miei sensi in compartimenti stagni, e mi sembrava impossibile che qualcuno ci riuscisse.
Avrei potuto dirle che la sua voce era di un arancione intenso, quasi rosso, ma non era quello che Maedbe voleva. Tenevo gli occhi bassi, perciò le dissi: – Sto guardando le mie mani. – Le torsi e infilai i polpastrelli negli spazi vuoti tra le dita. Troppo vuoti. – Sono strane. Non sembrano neanche le mie mani.
Maedbe mi sfiorò le spalle, e il suo tocco fu accompagnato da uno sfrigolio alle mie orecchie e da un'ombra, in basso a sinistra.
– Ti ho vista toccarmi! – annunciai, girandomi a guardarla. Nei suoi occhi di rame non trovai l'approvazione che speravo. Non stava mostrando i denti. Era una delle prime cose che avevo imparato, ed era facile: se qualcuno ti mostra i denti, è un sorriso, ed è un buon segno.
– Ti ho sentita toccarmi – mi corresse Maedbe, accosciandosi accanto a me. – Non devi più confondere le parole, se vuoi sembrare una di loro.
La sua voce, adesso, odorava di sale. E aveva ragione. Avere l'imprinting della lingua del posto non era sufficiente. C'erano troppi termini per le sensazioni, laddove nella mia testa ce n'era uno solo, e spesso non sapevo quale usare. E altre parole, invece, erano inesistenti, del tutto intraducibili, anche se probabilmente era meglio così.
– Scusami Maedbe, io ci provo. Ci provo davvero, ma a volte le parole non mi vengono. Quando mi graffio continuo a pensare "azzurro" invece di "male".
– D'accordo. Va' a riposare. Troveremo una soluzione.
Fu solo anni più tardi, quando incontrai Euforbia e il suo strano tipo di sinestesia, che capii di non essere la sola a vedere la Terra in modo diverso.

giovedì 23 febbraio 2017

Punti di vista

Una storia cambia a seconda del punto di vista da cui viene raccontata. Ogni personaggio, se eletto a narratore (o se il narratore in terza persona si concentra su di lui o lei) non solo porta il suo differente modo di esprimersi, ma può interpretare una stessa vicenda in maniera diametralmente opposta.

O, come nel caso del racconto di lunedì, Per finta, può inconsapevolmente pensarla allo stesso modo, ma essere comunque ostacolato dall'incertezza di non conoscere il punto di vista dell'altro. Questo pare essere un mio tema ricorrente, dato che Per finta non è il primo racconto del genere che ho scritto. Altrettanto interessante sarebbe stato espandere il numero dei punti di vista, per includere anche visioni contrastanti, moltiplicando la rilettura dello stesso evento come in un labirinto di specchi.

Avrei ad esempio potuto aggiungere il punto di vista di una spettatrice:
Che emozione! Una dichiarazione in grande stile, in ginocchio, l'anello, il discorso, ma perché queste cose succedono solo in teatro o nei film, perché non succedono anche nella vita reale? Dai, digli di sì prima che cambi idea, non tenerlo sulle spine, oh sì, ha detto sì! Che finale grandioso! Quanto romanticismo! Mentre batto le mani con entusiasmo fin quasi a farmi male, guardo il mio uomo. Quando si deciderà a fare il grande passo, lui?

Per poi passare al punto di vista del suo accompagnatore:
Noia. Trattengo uno sbadiglio e mi allungo contro lo schienale della sedia. Perché diavolo mi sono lasciato convincere ad andare a teatro? E a guardare una pacchiana commedia romantica, per di più. Già si capiva fin dal primo atto come sarebbe andata a finire, l'unico dubbio è quanto l'avrebbero tirata per le lunghe. Anche adesso. Se dice no mi alzo e me ne vado, non ne posso più. Meno male, ha detto sì. Sipario. Mi volto per dire alla patita di teatro che è meglio andare prima che si alzino tutti, ma quella mi guarda strano. Perché mi guarda strano? Ah, già, non sto applaudendo. Meglio farla contenta. Anche se questi davvero non lo meritano.

E perché no, scoprire anche cosa ne pensa il regista?
No, no, no, così non va. Ci vuole più emozione, più intensità, più pathos! E invece no, quelli si limitano a recitare a memoria, meccanicamente, e starsene lì impalati come stoccafissi, sera dopo sera. Già mi tocca lavorare con uno scenario talmente fasullo da parere costruito da un branco di marmocchi delle elementari, se poi ci si mettono anche gli attori cani a rovinarmi la carriera, per me è finita. Basta, mollo tutto, me ne vado. A meno che... e se riuscissi a mettergli in testa, sia a lei che a lui, di essere davvero innamorato di quell'altro? Forse, se si convincono di non stare recitando, che tutto questo non è per finta, la mia commedia potrebbe giovarne. Ma guarda te se mi tocca pure fare da Cyrano oltre che da regista!

Ecco come da una stessa storia ne nascono cinque, che scorrono parallele e in qualche caso inconciliabili, soltanto variando di volta in volta la "testa" attraverso la quale gli eventi vengono interpretati e filtrati.


Non mi sembra ci siano frasi particolarmente degne di nota stavolta, mi limiterò a darti l'appuntamento a lunedì per una sorpresa.

lunedì 20 febbraio 2017

Per finta

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      “Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare praticamente tutto. Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono precipitato qui. Perchè penso, anzi, perchè sono sicuro, che dovremmo farlo. Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove abita e non sarebbe un problema. Solo sì. Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo.”

      Siamo in un bellissimo giardino, il luogo più incantevole del mondo. Io sono seduta su una panchina in riva al lago, lui è in ginocchio di fronte a me. Ha appena attraversato mezzo paese per risolvere la disputa con la mia famiglia e spiegare tutti i malintesi imbarazzanti sorti da un equivoco. E ora è qui, in ginocchio di fronte a me, con un anello in una scatolina di velluto blu, e mi rivolge le parole che ogni donna vorrebbe sentirsi dire.

      Peccato che gli alberi siano di cartone e il lago uno sfondo disegnato. Peccato che tutto questo sia per finta. Peccato che lui non sappia quanto vorrei che la sua non fosse solo una battuta del copione. Ma non importa, come ogni sera mi alzo dalla panchina, gli sorrido dolcemente e lo dico.

      “Sì” pronuncio. La voce che mi trema per l’emozione è reale. Non è per finta, non per me. “Sì, oh, sì!” ripeto mentre lui m’infila l’anello al dito e mi trascina in un abbraccio travolgente prima che cali il sipario sull’ultimo atto, si spengano le luci di scena, e il pubblico in sala inizi ad applaudire.


      Tutte le sere lo dico, e tutte le sere attendo la sua risposta. C’è quell’attimo di esitazione, da parte sua, che lascia il pubblico e me col fiato sospeso. Qualche volta, anzi, sempre, temo che lei possa uscire dal personaggio e dirmi no, come farebbe se tutto questo fosse reale e non per finta. Ma lei è una professionista, e quando si alza dalla panchina la sua risposta è sempre un “sì” impeccabile, emozionato. Come da copione.

      Ogni sera le infilo l’anello al dito e mi chiedo se avrò mai il coraggio di parlarle fuori dal teatro, lontano da prove e spettacoli. Perché sarà pure una battuta del mio personaggio, ma quello che le dico sul palco io lo penso davvero. Lei è davvero la persona più buona che io conosca, più brava di me a fare praticamente tutto. Io davvero la amo. Non è per finta per me, e mi piace illudermi di dichiararmi a lei ogni sera, e di ricevere sempre un sì come risposta.

      Mi metto in piedi, l’abbraccio e sento che si stringe a me. In quegli istanti vorrei fermare il tempo, ma lui puntuale arriva. Quel dannato sipario cala sempre troppo rapidamente e cancella l’illusione.

      Un giorno, forse, troverò il coraggio.

sabato 18 febbraio 2017

Ridondante

Questa di sicuro rientra tra le mie parole preferite. Ha un che di buffo, con il suo suono da torre campanaria: don... dan! Però è allo stesso tempo molto serio, nel ricordarmi qualcosa da evitare nella scrittura, a meno che non sia voluto per caratterizzare un personaggio dallo stile ampolloso.

Ridondante [ri-don-dàn-te] agg. 1. Eccessivamente ricco di qualcosa, sovrabbondante. 2. ling. Pleonastico.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.

 
Stavo per inventare appositamente un personaggio per cui fosse adatto il termine ridondante, quando mi sono ricordata di averne già uno: sir Maizorean Lunandi-Xares, storiografo.


Il bandito spalancò la porta della camera spartana: pareti spoglie, un letto, una cassa e una lanterna. – Finalmente soli! Non fraintendermi, ma non ne potevo più di quel sir Maizorean Comesichiama!
– Smettila. Non è tanto male – replicò in tono tagliente Night Shamyan, accostando la porta.
– Non è tanto male? – Il bandito sventolò il braccio destro e si piegò in un inchino esagerato, poi cominciò a declamare con voce nasale, altalenante: – Lady Nightingale, consentitemi l'onore e l'immenso piacere di chinarmi e farvi da sgabello, affinché possiate posare sulla mia schiena i vostri soavi piedi e salire così sul mio lentissimo e sgangherato mezzo di trasporto, che per praticità potrete chiamare semplicemente carro. Vi chiedo un umile favore in cambio, dolce dama: vi prego, vi scongiuro, non rovinate con le vostre armi fin troppo appuntite e taglienti le mie preziosissime pergamene! Che non si conviene a una siffatta beltade di vestire come una rozza mercenaria...
– D'accordo – lo interruppe Night, posando una mano sull'elsa della spada corta. Il gesto riuscì a bloccare la parlantina del bandito all'istante. – Te lo concedo, è un po' ridondante.
Il bandito si raddrizzò e le si avvicinò di un passo. Night lo aggirò e si diresse al letto, slacciando la cintura. L'uomo non si voltò nel chiederle: – Devo avvertirti se cominci a parlare come una vera lady? Perché se è così, allora ti avverto adesso.
La sentì ridere. Una vera risata, finalmente, non una di quelle finte risatine che metteva in scena per il loro pomposo accompagnatore. Il bandito si schiarì la voce e la raggiunse. – Resto qui, stanotte. Se vuoi – mormorò.
Night bloccò le dita con cui si stava sbottonando la giubba. Rilassò le braccia lungo i fianchi. – Dimmi che non ti stai innamorando di me – lo pregò. Si girò e fissò il pugnale che gli aveva dato. – Perché, lo sai...
– Non c'è bisogno di dirlo – tagliò corto il bandito. – Non diventare ridondante anche tu. Farò la guardia fuori.
E uscì, lasciandola sola.

giovedì 16 febbraio 2017

Cosa, come e perché

Penso che chiunque abbia provato a scrivere in modo continuativo ha attraversato varie fasi man mano che prendeva confidenza con carta e penna (o tastiera) e la storia da raccontare. Per quanto mi riguarda, riesco a distinguerne tre: la fase del cosa, la fase del come, e la fase del perché.

Cosa
La prima fase è stata quella del contenuto. All'inizio scrivevo le mie storie così come mi venivano in mente, nell'unico modo in cui riuscivo, o pensavo di riuscire a farlo. Mi concentravo sulla trama, sulla sequenza di eventi che costituivano il racconto. Quando effettuavo delle correzioni (raramente) ciò che cambiavo, tagliavo o aggiungevo era una scena o un avvenimento.
Scrivevo solo quando ne avevo voglia, senza metodo né scaletta; spesso cominciavo una nuova storia per poi abbandonarla quando non sapevo più come continuarla.

Come
Non ricordo quando sia avvenuto, ma a un certo punto sono passata dall'attenzione per il contenuto a quella per lo stile; o meglio, ad affiancare le due cose. Ho iniziato a riscrivere vecchie storie senza modificare la sequenza di eventi, cambiando solo il modo in cui venivano raccontate. Ho cominciato a prestare attenzione a elementi come il punto di vista, i tempi verbali, le scene e l'ordine in cui presentarle, e a sceglierli consapevolmente. Questa è la fase dei primi metodi per stimolare la creatività, degli appunti per ricordare dettagli che mi servivano più avanti nella storia, dell'impegno per finire ciò che iniziavo. Scrivevo ancora quando ne avevo voglia, ma il bello era che ne avevo voglia sempre. Scrivevo ovunque, persino al mare o in un tram affollato.

Perché
Questa è la fase in cui mi trovo ora, ed è un po' più difficile da definire delle altre due. Potrei chiamarla "la fase del motivo". Complici i laboratori, i corsi di scrittura creativa, gli articoli che quasi quotidianamente leggo ho cominciato a chiedermi perché faccio una determinata scelta invece che un'altra, sia nel contenuto che nello stile. Che effetto ottengo in chi legge? Perché quella scena è importante e non va tagliata, che cosa trasmette, sia in termine di informazioni che di emozioni? Spezzando una frase, o cambiando l'ordine delle parole, il risultato cambia, eccome.
Questa è la fase della revisione infinita, del perfezionismo, della meditazione su una virgola da mettere o togliere. Forse anche troppo.
Ma è anche la fase in cui scelgo, consapevolmente, di presentare a chi legge la migliore versione possibile di una storia, quella in cui ogni parola ha un senso e non è messa lì a caso, o solo perché non so di avere alternative. Ed è la fase in cui, da lettrice, posso comprendere le scelte di altri autori, capire perché le hanno fatte e che significato hanno, apprezzarle o criticarle.


Quando sono arrivata all'ultimo incipit del concorso, Un'unica semplice cosa, ero ancora nella fase del come, e di certo non l'ho analizzato come potrei fare adesso. Non credo mi sia passato per la mente la libertà che possono offrire quelle poche righe di monologo prive di contesto. Da quale punto di vista scrivere il racconto, da quello di chi pronuncia la dichiarazione, o da quello di chi ascolta? Qual è il tempo (verbale, e della storia), l'ambientazione, le caratteristiche dei personaggi?
Come in una battuta in un copione, solo al momento di mettere in scena il seguito avrei costruito la mia scenografia, portato sul palco gli attori, dato un senso e una risposta a quel monologo.
Che, come ho già anticipato, mi appariva tanto stucchevole da sembrare falso.

Nessun appunto di preparazione stavolta, ho preso la penna e ho scritto il racconto che potrai leggere lunedì.

Nell'attesa, che cosa ne pensi delle mie fasi? Ne hai passate anche tu di simili o di diverse?
Oppure, se non scrivi, da lettore presti più attenzione al contenuto, allo stile o al motivo per cui l'autore ha compiuto le sue scelte?

lunedì 13 febbraio 2017

Un’unica semplice cosa

Questa serie di incipit fa parte di un concorso di qualche anno fa, che forniva un tema e un inizio ogni mercoledì per otto settimane, con la scadenza per l'invio del racconto fissata entro la domenica della stessa settimana.

Ecco l'ottavo tema/titolo e incipit di Giusi Marchetta:

Un’unica semplice cosa

“Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare praticamente tutto. Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono precipitato qui. Perchè penso, anzi, perchè sono sicuro, che dovremmo farlo. Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove abita e non sarebbe un problema. Solo sì. Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo.”
(Prosegui a leggere il racconto n. 1.) 
(Prosegui a leggere il racconto n. 2.) 

È stata una lunga corsa, ma ormai ci siamo. Forse, anzi, sicuramente meno frenetica dei due mesi in cui ho scritto tutti questi racconti in una tarda primavera di qualche anno fa, ma eccomi arrivata di nuovo alla fine. L'ultimo incipit. Che, diversamente dagli altri, è costituito per intero da un monologo, senza alcuna traccia da seguire quanto ad ambientazione e personaggi (a parte quello che si può dedurre dalle poche righe di discorso).

E ancora una volta, come è stato per l'incipit di Questione di equilibrio, mi ritrovo con l'impressione di troppo scontato, di talmente perfetto e smielato da parere falso. Sembra anche a te, o questa dichiarazione ti ha conquistato?

sabato 11 febbraio 2017

Quintana

Come con la lettera H, il dizionario italiano alla Q risulta un po' povero di lemmi. Fortunatamente ne ho trovato uno che, da solo, è ricco di significati.

Quintana [quin-tà-na] s.f. 1. med. Febbre intermittente, i cui accessi si rinnovano ogni quinto giorno 2. st. Nell'accampamento romano, via che divideva il quinto manipolo e la quinta turma dalla sesta. 3. st. Gioco di destrezza di origine medievale, in cui i cavalieri devono colpire con la lancia, correndo al galoppo, lo scudo imbracciato da un fantoccio vestito da saracino, girevole su un perno, cercando di non farsi disarcionare dal colpo della mazza che il fantoccio, girando su se stesso, vibra con l'altro braccio.

 
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Devo ammettere che di questa parola conoscevo solo il terzo significato, ed è per quello che l'ho scelta. Facile scovare tra i miei appunti un'ambientazione medievale, o fantasy-medievale, per un brano ispirato a questo termine.


Guardare il torneo dagli spalti accanto alle dame non mi avrebbe insegnato nulla, ma io avevo scoperto dove i cavalieri si allenavano per la quintana. Presi un respiro e strinsi i pugni, poi lasciai l'ombra del padiglione e m'incamminai a passi rapidi verso il campo.
Volevo fare domande, imparare, provare. Ma sapevo che cosa mi aspettava, prima.
I fischi non tardarono ad arrivare, seguiti dalle voci.
– Cagna randagia! Mocciosa del conciapelli! Credi che vestirti come un uomo ti faccia diventare uno di noi, eh? Vieni qua, adesso che sei senza gonna vediamo se nascondi davvero una spada in mezzo alle gambe!
La maggior parte di loro avrebbe preferito un branco di draghi a tre teste che ballavano la carola alla mia presenza. Li ignorai. Accanto alla palizzata, un cavaliere in sella a un baio imbracciò la lancia e spronò il cavallo. Seguii la sua breve corsa ma non riuscii a vederlo colpire il fantoccio, perché due degli uomini che mi avevano sbeffeggiato mi tirarono per i capelli e per le braccia, mentre un terzo conduceva verso di me un ronzino roano.
– La guardia speciale della principessa pensa di poter fare tutto quello che fa un uomo, vero? Crede di essere migliore di noi? Di poterci battere?
– Se mi insegnate, sì – ribattei impulsivamente. In fondo avevo sempre battuto i miei fratelli, nei nostri giochi.
In men che non si dica mi caricarono sul cavallo e mi spinsero la lancia nelle mani. Uno degli uomini diede avvio alla mia quintana con una scudisciata sulle natiche del ronzino; mi abbassai, strinsi forte la lancia e mi preparai al contraccolpo. Dietro di me avevano smesso di ridere. Sentivo solo il martellare degli zoccoli e del mio cuore mentre il fantoccio del saraceno si avvicinava sempre di più.
Avrei potuto deviare il percorso del cavallo, ma non lo feci. Chi era il più coraggioso ora, quelli che stavano a guardare, o io che cavalcavo diritta verso una prevedibile disfatta, consapevole della batosta che mi attendeva dall'altro lato del fantoccio?

giovedì 9 febbraio 2017

Scrivi di ciò che non conosci

No, non è un errore di distrazione. Lo so che il consiglio che di solito viene dato agli aspiranti scrittori, forse il secondo più noto dopo "Mostra, non raccontare" è "Scrivi di quello che conosci". Ma quel "non" è fondamentale.

Scrivere di quello che non conosci, se fatto per bene, ti porta a informarti su argomenti che mai avresti pensato di affrontare, allarga gli orizzonti, rende curiosi, induce a parlare con sconosciuti per comprendere la loro esperienza, invoglia a viaggiare.

Per scrivere di quello che non conosci è necessario abbandonare la tua "zona di comfort", ovvero tutto ciò che è noto, semplice e sicuro: il tuo genere narrativo prediletto, gli argomenti e i paesaggi con cui di solito ricopri le tue pagine, la tua personale visione del mondo che inevitabilmente mescoli all'inchiostro. Lasciarti indietro tutto questo per provare a osservare la vita da una prospettiva differente. Magari le prime volte la storia che ne ricavi non riuscirà tanto bene, o sarà proprio da buttare, ma non importa. Sbagliando s'impara.

Scrivere di quello che non conosci impegna più tempo ed energie per quella fase di ricerca di quanto probabilmente vorresti, ma sono tempo ed energie ben spesi. Perché se scriverai di quello che non conosci, alla fine scoprirai di conoscere un pezzettino di realtà in più.

Per scrivere Una coltre bianca come la neve, non avendo mai vissuto nulla di neanche lontanamente paragonabile, ho dovuto dedicarmi ad un po' di sana ricerca. Nessuna donna che io conosca, per loro fortuna, è vittima di abusi domestici, né avevo sottomano un femminicida a cui chiedere il suo punto di vista, per mia fortuna. Il tempo a disposizione non era molto, quindi ho dovuto integrare le scarne interviste dei telegiornali con una rapida ricerca di testimonianze su internet. So che non è l'ideale, ma dovevo accontentarmi.

Molte delle percezioni della protagonista quindi vengono da esperienze reali, mentre altre le ho inferite. La speranza di poter cambiare il proprio aguzzino, ad esempio, così come la tendenza a nascondere i lividi, a giustificare il modo di agire del compagno, e poi la sensazione di liberazione e rinascita quando si esce da una relazione abusiva sono un tratto in comune dei casi che mi è capitato di leggere. Così come la sensazione di trionfo di un colpevole impunito, che si sentirà quindi autorizzato a perseverare in ciò che già sta facendo (questo vale per tutti i reati, non solo per gli abusi domestici. C'è di che riflettere, no?).

La sensazione di sorellanza con altre vittime, il senso fisico del dolore, il bisogno di lavarsi dopo le percosse sono elementi che ho provato a immaginare. Così come la lotta, che forse avrei potuto descrivere un po' più a lungo, più in dettaglio. Il problema è che mentre nel dialogo sento di avere il mio punto forte (e mi è stato anche confermato da altri), e nelle descrizioni di paesaggi penso di andare piuttosto bene, con le scene d'azione al contrario sento di non essere nel mio elemento e di avere molto da migliorare. Ed è proprio per questo motivo che dovrei approfondirle, imparare a scriverle meglio, più coinvolgenti, più sensoriali, rapide ed emozionanti. Solo per citare un dettaglio del racconto che adesso non riesco a non notare, avrei dovuto tenere conto, dopo la lotta, che il sangue oltre al copriletto dovrebbe aver sporcato anche i vestiti della protagonista... e quindi descrivere la sensazione di una chiazza di liquido appiccicoso addosso, dall'odore vagamente metallico e nauseabondo, che al risveglio si è raggrumato sul tessuto degli abiti.

Quello che non conosco, e di cui dovrei scrivere, è la trasposizione sulla pagina di una bella sequenza d'azione. In quella direzione devo muovermi, se voglio uscire dalla mia zona di comfort.

Ti lascio con tre frasi a mio avviso particolarmente riuscite e ci vediamo lunedì per l'ultimo incipit!

Sa che lo senti, il corpo, molto più intensamente quando i suoi confini sono delimitati dal dolore che non quando sono definiti dal piacere.
Ci sono cose che la neve non può cancellare, e ti restano dentro come lividi.
Alla prima voce che le risponde, dice: “le ho salvate.” Lo dice con orgoglio: è passata da vittima a eroe.

lunedì 6 febbraio 2017

Una coltre bianca come la neve

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino. Non le è importato.

      Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è avvicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei.

      E non è che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo, non vuole muoversi, andare di là. Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

      Lui è nell’altra stanza, assieme a loro e alla scatola bianca.

      L’aveva trovata una settimana prima, sul ripiano superiore dell’armadio. Non voleva curiosare. A lui non piaceva che lei curiosasse tra le sue cose, ma non era riuscita a resistere. Dentro la scatola c’erano sedici foto di sconosciute sorridenti; in quel momento, che stupida, è stata gelosa di loro. Sembravano così felici. Sembrava che avessero avuto il meglio di lui e che a un certo punto, prima o dopo averla incontrata, lui si fosse guastato. Dopotutto, forse era davvero colpa sua. Diceva cose sbagliate, faceva cose sbagliate; e quando sbagliava, lui doveva correggerla. Era suo dovere, come dovere di lei era stare a casa ed essere una brava femmina.

      Guardando le foto, lei aveva invidiato le belle sconosciute perfette e sorridenti. Dietro ognuna c’era un nome e una data. La grafia era sempre la stessa, quella piccola e sghemba di lui. Sotto le foto c’era un giornale di tre anni prima, e sotto il giornale un coltello da caccia infilato in una guaina di cuoio nero.

      Quello, lei non aveva voluto toccarlo.

      Aveva rimesso tutto a posto prima che lui rientrasse e non gli aveva detto niente, per paura di essere punita. Aveva cercato di dimenticare, ma non c’era riuscita. Le aveva sognate di notte, e aveva sognato che nella scatola bianca c’era la sua foto tra le loro.

      Il giorno dopo aveva atteso che lui uscisse e aveva ripreso in mano la scatola. Aveva segnato i loro nomi e le date su un foglio di carta e le aveva cercate. Le aveva trovate tutte, tra necrologi e articoli di giornale.

      Le date non erano, come aveva pensato in un primo momento, quelle in cui le foto erano state scattate. E lui non era stato affatto gentile con loro, così come non lo era stato con lei. Quando lo aveva scoperto, non era più riuscita a provare invidia o gelosia.

      Le sconosciute erano diventate sue sorelle.

      Lei poteva capirle. Lei può capirle anche ora che la neve sta cadendo a ricoprire con un manto bianco il cortile, e cancella il dolore così come cancella le impronte lasciate sul primo strato sottile, dalle auto parcheggiate alla porta di casa.

      Lei sa, perché lo ha provato. Sa che lo senti, il corpo, molto più intensamente quando i suoi confini sono delimitati dal dolore che non quando sono definiti dal piacere. Lo senti così tanto che diventa una zavorra e vorresti liberartene: non sentire niente, piuttosto che sentire troppo. Fuggire.

      Lei non era mai fuggita, mai, di fronte a niente e a nessuno, e questo lui non se lo aspettava. Si aspettava che, come tutte le altre, lei fuggisse dalla vita, o da lui. Era in questo secondo caso che gli serviva il coltello, perché non sopportava che le sue donne lo lasciassero. Il giornale, invece, sanciva il suo trionfo: assolto per insufficienza di prove, diceva un articolo nella pagina di cronaca locale. Da allora si era sentito invincibile. Le date tra una foto e l’altra si erano fatte più vicine negli ultimi tre anni. Poteva fare quello che voleva alle sue donne, e nessuno l’avrebbe fermato.

      Però c’era lei. Aveva pensato, in un impeto di follia, di poterlo fermare lei. Lei aveva le prove nella scatola bianca. Aveva preso più volte in mano il telefono, negli ultimi giorni. Aveva sollevato la cornetta, ma non era mai riuscita a comporre il numero. Non poteva mandare in prigione qualcuno che amava. Ma poteva cambiarlo, forse. Lei lo sperava così tanto.

      Così aveva tirato fuori la scatola bianca, ancora una volta. L’aveva posata sul letto e aveva disposto le foto con cura tutto intorno, sulla trapunta, come un album di ricordi. Poi aveva preso il vecchio giornale, lo aveva piegato e lo aveva lasciato sulla tavola. Lui leggeva sempre il giornale quando tornava a casa.

      A quel punto si era seduta. Non sapeva bene cosa aspettarsi. Certo, lui l’avrebbe punita: la curiosità non gli piaceva affatto. Poi si sarebbe calmato, come succedeva sempre; e allora, forse, sarebbe riuscita a parlargli. Non sapeva cosa dirgli ma pensava che, al momento giusto, le parole sarebbero arrivate. Doveva solo pensare alle foto nella scatola, e a quelle che potevano aggiungersi in futuro. Soprattutto a quelle che potevano aggiungersi in futuro. Spettava a lei salvarle.

      Lo ricorda bene, ora, come se stesse ancora accadendo. Ci sono cose che la neve non può cancellare, e ti restano dentro come lividi.

      Lui è rientrato molto tardi, più tardi di tutte le altre volte. Non è il momento giusto per parlare, il suo alito puzza di alcool. Lei cerca di nascondere il giornale ma lui glielo strappa dalle dita, lasciandole in mano soltanto dei frammenti sbrindellati.

      Lui lo sfoglia, legge qua e là. Non si accorge della data segnata all’angolo di ogni pagina. Poi arriva alla cronaca locale, e capisce.

      Comincia a urlare, a insultarla. Si alza, barcolla, rovescia la sedia. Lei fugge, ma lui è troppo vicino e la sbatte contro lo stipite della porta. Lei rotola in corridoio, stringe i denti e si mette carponi. Non può raggiungere la porta di casa perché lui le si para davanti. Allora si rifugia nell’altra stanza, in camera da letto.

      Lui la segue, continuando a urlare frasi sconnesse inframmezzate da bestemmie. È sopra di lei, si abbassa e l’afferra per i polsi, stringe forte e la tira su. La rimette in piedi, ma lo fa soltanto per poterle dare un ceffone in pieno viso che la fa cadere bocconi sulla trapunta, tra le foto. La scatola si rovescia, ed è allora che lei afferra il coltello, lo sfila dalla guaina e si gira. Lo tiene con entrambe le mani. Lui non lo vede, si getta sopra di lei per immobilizzarla. La lama entra facilmente sotto il suo peso e la sorpresa sul volto di lui è, probabilmente, pari alla sua stessa sorpresa.

      Rimane immobile, schiacciata dal suo peso mentre lui si affloscia. Poi si sfila da sotto il suo corpo e lo spinge via. Lui cade a peso morto sul pavimento. Sulla trapunta rimane una macchia rossa. Lui l’avrebbe picchiata per questo, ma adesso c’è soltanto silenzio.

      Lei va in cucina, lascia scorrere l’acqua nel lavandino, bagna le braccia e il viso. Non lo fa per togliersi di dosso il sangue, la sua è un’abitudine. Si lava sempre dopo che lui ha finito: l’acqua fredda lenisce un po’ il dolore, ma non lo cancella.

      Non sa cosa fare ora che non c’è lui a dirglielo. Così si accoccola in poltrona. Trema. Non riesce a pensare. Non le pare vero, ma si addormenta.

      Si sveglia poche ore dopo. È presto, ma ora sa cosa fare. Si sente come se fosse un’altra persona. O forse è la stessa, ma rinata. Libera. E con lei sono libere tutte le altre, le foto che non finiranno mai nella scatola bianca.

      Prende il telefono e compone quel numero. Alla prima voce che le risponde, dice: “le ho salvate.” Lo dice con orgoglio: è passata da vittima a eroe. Poi racconta tutto quanto.

      Loro arrivano a rivoltare la stanza, a fotografare, a portare via tutto. Anche lei, ma dopo: lei non fugge, c’è tempo. Nell’attesa fa il caffè e non le importa di versare un po’ di zucchero nel lavandino. Nessuno potrà più punirla, nessuno le farà più del male. È contenta di averlo fermato.

      Nell’altra stanza il frastuono si è attenuato. Un uomo in divisa le si avvicina. Ha preso la sua giacca dall’armadio: è ora di andare.

      Lei stende le braccia, i polsi vicini. Lui le fa cenno di no. “Non serve, signora, se ci segue spontaneamente.”

      Forse ha visto i lividi, ma non le importa. Non deve più nascondersi, camminare a testa bassa, mentire dicendo che è stata colpa sua, è scivolata e si è fatta male.

      S’infila la giacca, lentamente, poi lo precede in corridoio. La stanno aspettando sulla porta di casa. Passando davanti alla camera si volta a guardare dentro. Non riconosce niente di quella stanza. Non riconosce nemmeno lui: hanno steso, sul suo corpo, una coltre bianca come la neve.

      Lei prosegue, a testa alta, verso la porta.

      Sì, è davvero rinata.

sabato 4 febbraio 2017

Pelago

La mia prima scelta di oggi era petricore, ovvero l'odore della pioggia. Stavo già ideando il racconto che l'avrebbe accompagnata, quando ho scoperto la sua assenza dai dizionari che uso come fonti. Dopo una breve ricerca ho capito che si tratta della traduzione di un neologismo inglese del secolo scorso, che però in Italia non è (ancora) ufficialmente accettata. E allora ho ripiegato su un altro termine che ha sempre a che fare con l'acqua (ma se vuoi sostenere l'utilizzo di questa o altre parole, trovi come fare in questa pagina dell'Accademia della Crusca).

Pelago [pè-la-go] s.m. (pl. -ghi) 1. lett. Mare aperto. 2. estens. Quantità grandissima, enorme abbondanza, in particolare di cose spiacevoli o intricate.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Quanto all'idea del racconto, mi piaceva e ho voluto tenerla, con gli opportuni cambiamenti. Si tratta di qualcosa di particolare stavolta, non un brano che riguarda uno dei miei personaggi, bensì un esperimento, un quasi tautogramma (quasi, perché non tutte le parole iniziano con la stessa lettera).


Pioveva. Tra le pietre polverose del piazzale, picchiettavano punture di spilli. Sprofondata nella poltrona del portico, respiravo il profumo della pioggia, pensierosa.

Che potevo fare, portare i piedi nelle scarpe per passeggiare un po' sotto la cupola plumbea?
Presi le pesanti pagine di un'opera poetica. Provai a spiare le peripezie di pirati dispersi nel pelago piatto, prigionieri di una piccola scialuppa per colpa di un pennuto soppresso. Tra putridi spettri e spaventosi pitoni repellenti, pareva proprio che un pelago di problemi avesse colpito la reproba compagnia.
Sopra il portico premeva la pioggia. Nel panorama impastato di pozzanghere pochi podisti presi da impegni calpestavano impazienti i sampietrini.
Impressione di purezza e spiriti pietosi trasparirono dal poema e sopravvissero in un pensiero perenne.

giovedì 2 febbraio 2017

Esplorando i generi letterari

Arrivata al penultimo incipit, mi sono voltata e ho guardato indietro. Finora avevo scritto:

  • Un racconto rosa/sentimentale (Sentirsi)
  • Una storia drammatica e pseudo-autobiografica (Piccole donne)
  • Un brano a metà tra il reale e il fantasy, che potrebbe rientrare nel gran calderone del fantastico (Buon compleanno)
  • Una commedia degli equivoci, di nuovo riguardante i sentimenti (La ragazza del capo)
  • Una storia di fantascienza (P.A.O.L.A.)
  • Un racconto che potrei definire demenziale o assurdo (Eroi di carta)

E mi sono resa conto che questi incipit, questo esercizio che mi ero imposta di scrivere un racconto con ciascuno e non solamente con quelli che sul momento "mi ispiravano", mi ha spinta a esplorare un arcobaleno di generi letterari diversi tra loro e da ciò che scrivevo spontaneamente.

A questo punto ho iniziato a pensare a cosa mancava. Tolto il romanticismo, tolto il fantastico di cui avevo già fatto esperienza più e più volte prima del concorso, tolta la commedia, che cosa resta?

Avrei potuto esplorare il racconto storico, se non fosse che il caffè, lo zucchero, il giornale collocavano il racconto, se non nel presente, almeno non troppo in là nel passato. E comunque, per scrivere degnamente un racconto storico avrei dovuto compiere un'opera di ricerca impossibile da esaurire in metà settimana (tempo per scrivere il racconto compreso).

Ma c'era quel titolo, "rinascere". C'era il frastuono nell'altra stanza. C'era quello che la donna era contenta di aver fatto. E c'era la televisione accesa nella mensa in cui stavo riflettendo su che tipo di racconto scrivere. Ora del telegiornale, notizie di cronaca.

Ambientare la storia nel presente e documentarsi un po' sul tema leggendo alcune testimonianze di chi aveva vissuto esperienze simili era molto più semplice che ambientare una storia nel secolo scorso, o in quello prima ancora. Non mi serviva nemmeno una mappa, un'analisi approfondita dell'incipit o le cinque domande. Avevo trovato un'idea diversa dal mio solito repertorio, ormai ed ero lanciatissima, e chi mi fermava più?


Tu però fermati, perché dovrai aspettare fino a lunedì per scoprire il tema, e il genere, del racconto che ho scelto di sviluppare dall'incipit.