sabato 25 febbraio 2017

Sinestesia

Tra i tanti vocaboli interessanti che iniziano con la lettera esse, ho scelto questo per il bizzarro fenomeno che indica. Ma anche il suono della parola, sibilante e altalenante, ha il suo fascino.

Sinestesia [si-ne-ste-sì-a] s.f. 1. psicol. Fusione in un'unica sfera sensoriale delle percezioni di sensi distinti. 2. ret. Particolare forma di metafora che consiste nell'associare termini pertinenti a sfere sensoriali differenti.

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La sinestesia è un fenomeno che mi ha sempre affascinato. Posso solo provare a immaginare come dev'essere percepire il mondo in maniera diversa dalla maggior parte delle persone. Scrivendo, posso provarlo esplorando il vissuto di inesistenti creature non umane, che siano elfi, draghi o alieni.


I bambini pensano che tutti quanti siano in qualche modo simili a loro. Io ero una bambina quando arrivai in questo posto, quindi anche io lo pensavo. Fu Maedbe a insegnarmi quanto mi sbagliavo.
– Un'altra volta, riproviamo. Dimmi che cosa vedi.
La chiamano sinestesia, ma io allora non lo sapevo. Sapevo solo che non ero abituata a scindere i miei sensi in compartimenti stagni, e mi sembrava impossibile che qualcuno ci riuscisse.
Avrei potuto dirle che la sua voce era di un arancione intenso, quasi rosso, ma non era quello che Maedbe voleva. Tenevo gli occhi bassi, perciò le dissi: – Sto guardando le mie mani. – Le torsi e infilai i polpastrelli negli spazi vuoti tra le dita. Troppo vuoti. – Sono strane. Non sembrano neanche le mie mani.
Maedbe mi sfiorò le spalle, e il suo tocco fu accompagnato da uno sfrigolio alle mie orecchie e da un'ombra, in basso a sinistra.
– Ti ho vista toccarmi! – annunciai, girandomi a guardarla. Nei suoi occhi di rame non trovai l'approvazione che speravo. Non stava mostrando i denti. Era una delle prime cose che avevo imparato, ed era facile: se qualcuno ti mostra i denti, è un sorriso, ed è un buon segno.
– Ti ho sentita toccarmi – mi corresse Maedbe, accosciandosi accanto a me. – Non devi più confondere le parole, se vuoi sembrare una di loro.
La sua voce, adesso, odorava di sale. E aveva ragione. Avere l'imprinting della lingua del posto non era sufficiente. C'erano troppi termini per le sensazioni, laddove nella mia testa ce n'era uno solo, e spesso non sapevo quale usare. E altre parole, invece, erano inesistenti, del tutto intraducibili, anche se probabilmente era meglio così.
– Scusami Maedbe, io ci provo. Ci provo davvero, ma a volte le parole non mi vengono. Quando mi graffio continuo a pensare "azzurro" invece di "male".
– D'accordo. Va' a riposare. Troveremo una soluzione.
Fu solo anni più tardi, quando incontrai Euforbia e il suo strano tipo di sinestesia, che capii di non essere la sola a vedere la Terra in modo diverso.

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