lunedì 6 febbraio 2017

Una coltre bianca come la neve

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino. Non le è importato.

      Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è avvicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei.

      E non è che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo, non vuole muoversi, andare di là. Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

      Lui è nell’altra stanza, assieme a loro e alla scatola bianca.

      L’aveva trovata una settimana prima, sul ripiano superiore dell’armadio. Non voleva curiosare. A lui non piaceva che lei curiosasse tra le sue cose, ma non era riuscita a resistere. Dentro la scatola c’erano sedici foto di sconosciute sorridenti; in quel momento, che stupida, è stata gelosa di loro. Sembravano così felici. Sembrava che avessero avuto il meglio di lui e che a un certo punto, prima o dopo averla incontrata, lui si fosse guastato. Dopotutto, forse era davvero colpa sua. Diceva cose sbagliate, faceva cose sbagliate; e quando sbagliava, lui doveva correggerla. Era suo dovere, come dovere di lei era stare a casa ed essere una brava femmina.

      Guardando le foto, lei aveva invidiato le belle sconosciute perfette e sorridenti. Dietro ognuna c’era un nome e una data. La grafia era sempre la stessa, quella piccola e sghemba di lui. Sotto le foto c’era un giornale di tre anni prima, e sotto il giornale un coltello da caccia infilato in una guaina di cuoio nero.

      Quello, lei non aveva voluto toccarlo.

      Aveva rimesso tutto a posto prima che lui rientrasse e non gli aveva detto niente, per paura di essere punita. Aveva cercato di dimenticare, ma non c’era riuscita. Le aveva sognate di notte, e aveva sognato che nella scatola bianca c’era la sua foto tra le loro.

      Il giorno dopo aveva atteso che lui uscisse e aveva ripreso in mano la scatola. Aveva segnato i loro nomi e le date su un foglio di carta e le aveva cercate. Le aveva trovate tutte, tra necrologi e articoli di giornale.

      Le date non erano, come aveva pensato in un primo momento, quelle in cui le foto erano state scattate. E lui non era stato affatto gentile con loro, così come non lo era stato con lei. Quando lo aveva scoperto, non era più riuscita a provare invidia o gelosia.

      Le sconosciute erano diventate sue sorelle.

      Lei poteva capirle. Lei può capirle anche ora che la neve sta cadendo a ricoprire con un manto bianco il cortile, e cancella il dolore così come cancella le impronte lasciate sul primo strato sottile, dalle auto parcheggiate alla porta di casa.

      Lei sa, perché lo ha provato. Sa che lo senti, il corpo, molto più intensamente quando i suoi confini sono delimitati dal dolore che non quando sono definiti dal piacere. Lo senti così tanto che diventa una zavorra e vorresti liberartene: non sentire niente, piuttosto che sentire troppo. Fuggire.

      Lei non era mai fuggita, mai, di fronte a niente e a nessuno, e questo lui non se lo aspettava. Si aspettava che, come tutte le altre, lei fuggisse dalla vita, o da lui. Era in questo secondo caso che gli serviva il coltello, perché non sopportava che le sue donne lo lasciassero. Il giornale, invece, sanciva il suo trionfo: assolto per insufficienza di prove, diceva un articolo nella pagina di cronaca locale. Da allora si era sentito invincibile. Le date tra una foto e l’altra si erano fatte più vicine negli ultimi tre anni. Poteva fare quello che voleva alle sue donne, e nessuno l’avrebbe fermato.

      Però c’era lei. Aveva pensato, in un impeto di follia, di poterlo fermare lei. Lei aveva le prove nella scatola bianca. Aveva preso più volte in mano il telefono, negli ultimi giorni. Aveva sollevato la cornetta, ma non era mai riuscita a comporre il numero. Non poteva mandare in prigione qualcuno che amava. Ma poteva cambiarlo, forse. Lei lo sperava così tanto.

      Così aveva tirato fuori la scatola bianca, ancora una volta. L’aveva posata sul letto e aveva disposto le foto con cura tutto intorno, sulla trapunta, come un album di ricordi. Poi aveva preso il vecchio giornale, lo aveva piegato e lo aveva lasciato sulla tavola. Lui leggeva sempre il giornale quando tornava a casa.

      A quel punto si era seduta. Non sapeva bene cosa aspettarsi. Certo, lui l’avrebbe punita: la curiosità non gli piaceva affatto. Poi si sarebbe calmato, come succedeva sempre; e allora, forse, sarebbe riuscita a parlargli. Non sapeva cosa dirgli ma pensava che, al momento giusto, le parole sarebbero arrivate. Doveva solo pensare alle foto nella scatola, e a quelle che potevano aggiungersi in futuro. Soprattutto a quelle che potevano aggiungersi in futuro. Spettava a lei salvarle.

      Lo ricorda bene, ora, come se stesse ancora accadendo. Ci sono cose che la neve non può cancellare, e ti restano dentro come lividi.

      Lui è rientrato molto tardi, più tardi di tutte le altre volte. Non è il momento giusto per parlare, il suo alito puzza di alcool. Lei cerca di nascondere il giornale ma lui glielo strappa dalle dita, lasciandole in mano soltanto dei frammenti sbrindellati.

      Lui lo sfoglia, legge qua e là. Non si accorge della data segnata all’angolo di ogni pagina. Poi arriva alla cronaca locale, e capisce.

      Comincia a urlare, a insultarla. Si alza, barcolla, rovescia la sedia. Lei fugge, ma lui è troppo vicino e la sbatte contro lo stipite della porta. Lei rotola in corridoio, stringe i denti e si mette carponi. Non può raggiungere la porta di casa perché lui le si para davanti. Allora si rifugia nell’altra stanza, in camera da letto.

      Lui la segue, continuando a urlare frasi sconnesse inframmezzate da bestemmie. È sopra di lei, si abbassa e l’afferra per i polsi, stringe forte e la tira su. La rimette in piedi, ma lo fa soltanto per poterle dare un ceffone in pieno viso che la fa cadere bocconi sulla trapunta, tra le foto. La scatola si rovescia, ed è allora che lei afferra il coltello, lo sfila dalla guaina e si gira. Lo tiene con entrambe le mani. Lui non lo vede, si getta sopra di lei per immobilizzarla. La lama entra facilmente sotto il suo peso e la sorpresa sul volto di lui è, probabilmente, pari alla sua stessa sorpresa.

      Rimane immobile, schiacciata dal suo peso mentre lui si affloscia. Poi si sfila da sotto il suo corpo e lo spinge via. Lui cade a peso morto sul pavimento. Sulla trapunta rimane una macchia rossa. Lui l’avrebbe picchiata per questo, ma adesso c’è soltanto silenzio.

      Lei va in cucina, lascia scorrere l’acqua nel lavandino, bagna le braccia e il viso. Non lo fa per togliersi di dosso il sangue, la sua è un’abitudine. Si lava sempre dopo che lui ha finito: l’acqua fredda lenisce un po’ il dolore, ma non lo cancella.

      Non sa cosa fare ora che non c’è lui a dirglielo. Così si accoccola in poltrona. Trema. Non riesce a pensare. Non le pare vero, ma si addormenta.

      Si sveglia poche ore dopo. È presto, ma ora sa cosa fare. Si sente come se fosse un’altra persona. O forse è la stessa, ma rinata. Libera. E con lei sono libere tutte le altre, le foto che non finiranno mai nella scatola bianca.

      Prende il telefono e compone quel numero. Alla prima voce che le risponde, dice: “le ho salvate.” Lo dice con orgoglio: è passata da vittima a eroe. Poi racconta tutto quanto.

      Loro arrivano a rivoltare la stanza, a fotografare, a portare via tutto. Anche lei, ma dopo: lei non fugge, c’è tempo. Nell’attesa fa il caffè e non le importa di versare un po’ di zucchero nel lavandino. Nessuno potrà più punirla, nessuno le farà più del male. È contenta di averlo fermato.

      Nell’altra stanza il frastuono si è attenuato. Un uomo in divisa le si avvicina. Ha preso la sua giacca dall’armadio: è ora di andare.

      Lei stende le braccia, i polsi vicini. Lui le fa cenno di no. “Non serve, signora, se ci segue spontaneamente.”

      Forse ha visto i lividi, ma non le importa. Non deve più nascondersi, camminare a testa bassa, mentire dicendo che è stata colpa sua, è scivolata e si è fatta male.

      S’infila la giacca, lentamente, poi lo precede in corridoio. La stanno aspettando sulla porta di casa. Passando davanti alla camera si volta a guardare dentro. Non riconosce niente di quella stanza. Non riconosce nemmeno lui: hanno steso, sul suo corpo, una coltre bianca come la neve.

      Lei prosegue, a testa alta, verso la porta.

      Sì, è davvero rinata.

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