lunedì 31 gennaio 2022

Le Olimpiadi della Biblioteca


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Foto di Tima Miroshnichenko da Pexels


Amici e amiche sportivi, benvenuti a un nuovo appassionante appuntamento con "Le Olimpiadi della Biblioteca" dalla vostra Quarta Di Copertina...
– E dal mitico Som Mario!
Per chi si fosse appena collegato e avesse perso le gare dei giorni scorsi, ricordiamo la situazione: le squadre qualificate di questa edizione sono i Bibliotecari e i Topi di biblioteca.
– Peccato per gli Studenti che erano a tanto così dal passare le qualificazioni.
Già, un vero peccato! E per la seconda Olimpiade di seguito! Mentre, siamo alle solite, i Frequentatori occasionali e i Disturbatori della quiete come da pronostici erano già fuori gara in partenza. Ma veniamo alle medaglie assegnate nei giorni scorsi...
– Che gare amici! Che gare! Mai vista un'Olimpiade della Biblioteca così combattuta!
Verissimo Mario, e c'è da dire che se a sorpresa i Bibliotecari hanno stravinto nell'arrampicata sugli scaffali, si sono però lasciati soffiare l'oro nello sport in assoluto più seguito dal pubblico, quello di consumazione di libri...
– I Topi di Biblioteca hanno letteralmente divorato il testo assegnato da copertina a copertina nei tre set da mezzora regolamentari, non succedeva dai tempi del mitico Groviera!
Esatto Mario, dobbiamo andare indietro di ben due decenni per ricordare un successo simile, che spettacolo! Nelle discipline di imporre il silenzio in biblioteca invece i Bibliotecari continuano a dominare il campo come nessun'altra squadra è mai riuscita a fare.
– Anche perché quando la gente vede i Topi in biblioteca tende a urlare, lo sai anche tu Quarta, in questo dobbiamo ammettere che i piccoletti sono svantaggiati...
Eh sì, purtroppo mi spiace doverlo dire ma è così, non c'è gara. Però si sono rifatti durante il match di consigli al lettore indeciso, il Bibliotecario proprio non riusciva a farsi capire dal lettore assegnato mentre il Topo di Biblioteca ha guidato deciso il suo lettore fino a un volume che lo ha soddisfatto.
– È anche questione di fortuna in questo caso, tanto dipende dal lettore estratto a sorte...
Scusa Mario ma ti devo contraddire, no, secondo me la fortuna c'entra solo fino a un certo punto, ma l'abilità dello sportivo consigliatore è quello che conta in questo caso, e il nostro Topo Letto ha davvero meritato questa vittoria. Nel pomeriggio di ieri invece la lotta libera a suon di citazioni è stata combattutissima fino al match finale, una situazione di assoluta parità, fin quando i Topi di Biblioteca non hanno tirato fuori un gancio sinistro davvero inaspettato...
– Hanno citato Topolino che citava Uomini e topi, una citazione multipla incastrata davvero da maestri, mandando KO il bibliotecario!
Sì, che colpo! Se non avessero vinto la gara di sollevamento tomi letteralmente e metaforicamente pesanti i Bibliotecari non si sarebbero più ripresi. E poi... ho dimenticato qualcosa, Mario?
– Lo slalom tra la classificazione decimale Dewey, ma lo ammetto, non è una gara entusiasmante al di fuori degli esperti del settore.
Già, forse non molto compresa dal vasto pubblico, ma resta pur sempre una gara importantissima, vinta quest'anno dai Bibliotecari che si sono rifatti della sconfitta della scorsa edizione. E stavo dimenticando la maratona delle lunghe saghe, ma di questa vorrei parlare più approfonditamente adesso, perché...
– Siamo in situazione di parità, quattro a quattro, e la gara di oggi deciderà tutto.
Proprio così Mario, oggi vedremo affrontarsi il Topo di Biblioteca Caciotta e il Bibliotecario...
– Caciotta discendente di quel Groviera che abbiamo già citato, una lunga stirpe di Topi di Biblioteca sportivi...
Sì, e il Bibliotecario l'Ettore Compulsivo, che avrebbe dovuto partecipare alla maratona delle lunghe saghe, ma per un infortunio all'indice ha ceduto il posto al giovane Adoro Ilfantasy, che purtroppo non si era allenato come si deve sulle serie di genere giallo che sono state sorteggiate quest'anno.
– Ahi ahi ahi, non ci si può specializzare così quando si partecipano a gare di questo livello! Non è da professionisti, c'è da augurarsi che per la prossima edizione il giovane Bibliotecario sia riuscito ad affrontare anche gli altri generi!
Ma ecco che Caciotta e l'Ettore Compulsivo si preparano sulla linea di partenza, diamo la linea alla Biblioteca per quest'ultima gara di navigazione nel labirinto di scaffali, di cui abbiamo l'onore di farvi il commento sottovoce e...
– Partiti!
Sono partiti! Inizio sprint per entrambi, buona l'andatura, ma ecco che Caciotta svolta a destra e... si infila in un vicolo cieco!
– Non ci voleva, sta perdendo tempo a orientarsi!
L'Ettore Compulsivo invece procede nella direzione giusta, evidentemente ha studiato il percorso in anticipo, bravo il suo allenatore, ma ecco che Caciotta ritorna sui suoi passi e ritrova la strada, leggermente in ritardo rispetto al Bibliotecario ma accelera, ecco che prende sicurezza, sembra molto ben avviato ora...
– Scusa Quarta ma ti devo interrompere, c'è stata una grave scorrettezza da parte del Bibliotecario, si è arrampicato per cercare di osservare il percorso dall'alto e infatti l'arbitro lo ammonisce...
Che brutta pagina di sport amici, è successo quello che mai avremmo voluto vedere... e intanto Caciotta supera il Bibliotecario che però tiene testa al Topo, di nuovo si dividono ma stavolta è il Bibliotecario a sbagliare strada ma subito se ne accorge, torna indietro e supera Caciotta, ha le gambe lunghe, macina strada il nostro Bibliotecario, svolta a destra, svolta a sinistra, ancora a sinistra, siamo in dirittura d'arrivo, un altro giro a destra e ci siamo ma... che cosa fa il Bibliotecario?
– È incappato negli scaffali dei classici russi, ci è quasi finito a sbattere contro, e uno dei libri gli è caduto addosso...
No! No! Si è fermato a leggerlo! Ed ecco Caciotta, Caciotta lo supera, Caciotta corre, taglia la linea del traguardo ed è fuori dal labirinto! Incredibile amici, che finale, tradito da un Dostoevskji il nostro Bibliotecario, e questa edizione delle Olimpiadi della Biblioteca se la aggiudicano i Topi di Biblioteca! Ecco tutta la squadra che va a festeggiare Caciotta, mi raccomando ragazzi, tenete basso il volume degli squittii, che siamo pur sempre in biblioteca.
– Questo è tutto per oggi, vi lasciamo al Dopo Olimpiadi e alla lettura delle statistiche, e vi auguriamo la buonanotte dal vostro Som Mario...
E dalla vostra Quarta Di Copertina, buonanotte e grazie per averci seguito!

sabato 22 gennaio 2022

Iniquo

Iniquo [i-nì-quo] agg. 1. Che agisce senza equità; che denota tale vizio; ingiusto. 2. lett. Malvagio, scellerato.

Etimologia: dal latino iniquus, composto da in, "non", e aequus, "convenevole, ragionevole, giusto, benigno, equo".



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Sapete qual è la cosa più assurda? Non mi hanno sbattuto in questa cella fetida e oscura perché ho cercato di rubare le loro preziose reliquie, ma semplicemente perché sono una donna. Questa, signori miei, è la mia colpa. Non vi pare la più iniqua delle sentenze quella che fa appello non a una mia azione contraria alle leggi, bensì a uno stato su cui non ho avuto la benché minima possibilità di scelta?
D'accordo, d'accordo, so che cosa state per dire. Chi me lo ha fatto fare di travestirmi da uomo e intrufolarmi in un posto in cui già sapevo, fin dall'inizio, che una come me non era ammessa. Che ci posso fare, sono curiosa. E inoltre, in che altro modo avrei potuto appropriarmi delle ricchezze del tempio se non entrandoci dentro?
Non depone a mio favore? Vi sto spiegando, lasciatemi arrivare fino in fondo. Ciò che vorrei fosse chiaro, è che l'ho fatto per soldi, solo per quello. Non certo per mettere in ridicolo l'Ordine dei Paladini di Andronicus o, sia mai, per profanare il loro prezioso tempio con il mio corpo sbagliato. Sono un ladro, un truffatore, e se fossi stata un uomo, come tale sarei stata trattata. Mi sarebbe toccata una dozzina d'anni nella prigione cittadina, un edificio così decadente e con una guarnigione talmente scarsa che mi sarebbe bastato qualche giorno per riuscire a scappare. Invece sono una donna, e solo per questo dovrò morire. Non perché ho mentito. Non perché ho presentato documenti falsi sulle mie nobili origini. Non perché ho tentato di trafugare i tesori del tempio.
E poi dicono che sono io qui dentro l'iniquo furfante.

giovedì 20 gennaio 2022

Di foreste infestate e di regole infrante


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A guardarla dall'alto, con il suo fuoco acceso nel mezzo e una dozzina di ragazzi attorno, la radura stretta e lunga poteva sembrare un occhio. Però nessuno di coloro che tremavano alla guizzante luce delle fiamme e gettavano occhiate inquiete ai tronchi scuri all'ombra di rami contorti poteva vedere dall'alto il luogo che avevano scelto per passare la notte. Gli unici ad avere questo privilegio erano i corvi che volano radenti da un ramo all'altro, scrutando e ciarlando con astio contro gli intrusi.
Shirra si tappò le orecchie al suono del gracchiare incessante. – Santo Goshil, ma non smettono mai?
Dall'altra parte del fuoco, Tukol rispose beffardo: – Mi sa che stanotte dormiremo ben poco. Tu che ne dici, Adia?
La ragazza bruna verso cui si era voltato si strinse nelle spalle, gli occhi bassi. Un altro giovane, che si era alzato, agitò uno dei legnetti che avevano radunato per alimentare il fuoco, poi lo scagliò verso un gruppetto dei funerei pennuti. Tutto inutile: i corvi si alzarono in un breve volo, per poi appollaiarsi sull'albero vicino, e ricominciare col loro gracchiare stridente.
– Be', io ci ho provato – disse il ragazzo, ammettendo la sconfitta prima di tornare a sedersi nel cerchio.
Zoilo, il secondo in ordine di età all'interno del gruppo, si strofinò il mento che recava una traccia di barba incolta, poi abbracciò Shirra, al suo fianco. – Non sono i corvi a preoccuparmi.
Nella radura, infatti, soffiava un vento gelido, troppo freddo per la bella stagione in cui avevano scelto di compiere quell'impresa. Bell'impresa: a guardarla ora, sembrava più un atto di ribellione adolescenziale.
– Nat, sei ancora sicura che dovremmo andare fino in fondo? – Chiese Zoilo alla ragazza, o forse sarebbe meglio dire giovane donna, che resisteva fiera, a testa alta e sguardo fisso.
Nathaniela annuì. – Non lascerò a metà quello che ho iniziato. Ci deve essere un motivo per cui ci hanno proibito di andare nella foresta, e io voglio scoprire quale.
– Sì, ma forse è un buon motivo – si lamentò Runia in tono querulo. Era una ragazzina bionda appena dodicenne, che non sarebbe venuta se non fosse stata spronata dal fratello maggiore. Ogni volta che il vento smuoveva le foglie, facendole crepitare, o che un gufo solitario interveniva con qualcosa da dire in una pausa tra i richiami dei corvi, Runia girava la testa a scatti e scrutava la foresta a occhi sgranati.
– Inoltre, saremo i primi a fare una mappa del sentiero attraverso la foresta e di quello che c'è al di là – aggiunse con entusiasmo Ogdan, il fratello di Runia. Stessi capelli biondi, atteggiamento agli antipodi. – Pensate a quanto diventeremo famosi, ragazzi!
Qualcuno rispose con esclamazioni di esultanza alle sue parole, ma non molti. La maggior parte era soltanto stanca per il troppo camminare di quel giorno, mentre altri avrebbero preferito non essere lì.
– Io non ci trovo niente di divertente a finire mangiata da un mostro della foresta – biascicò in tono nasale una ragazzina con le trecce e gli occhiali.
Il ragazzo che le stava accanto le diede uno spintone. – Ma smettila, Bahiula, i mostri non esistono!
– Li avremmo già trovati, a questo punto – commentò qualcuno dall'altra parte del fuoco, mentre i due continuavano a litigare, quasi sovrastando il gracchiare dei corvi.
– O loro avrebbero trovato noi – lo corresse qualcun altro.
– Ba-ba-ba... Sempre a dire ba-ba-hiula! – punzecchiava intanto il ragazzo.
– Smettila, dai, non mi chiamo così! – protestava la ragazzina con gli occhiali, tempestando il compagno di deboli sberle.
– Zitti tutti! Fermi! – intervenne Shirra. Guardava dietro di sé, dove proseguiva il sentiero ancora inesplorato, e respirava in affanno.
– Che cosa c'è? – bisbigliò premuroso Zoilo, nel seguire il suo sguardo.
– C'è qualcuno – mormorò piano la ragazza. Alle parole incredule che già si levavano dagli altri, insistette. – Ho sentito dei passi! Vi dico che qui c'è qualcuno!
Tukol ridacchiò, ma sembrava l'unico davvero rilassato nel gruppo. Perfino Nathaniela tendeva le orecchie, in ascolto. – Andiamo – disse Tukol. –  Non può esserci qualcun altro altrettanto stupido da addentrarsi nella pericolosissima foresta proibita infestata da mostri, fantasmi, demoni, orrori in gran quantità e restarci anche la no...
Al levarsi di un ululato cupo, che precedeva un soffio di vento gelato e costante, le parole spavalde morirono in gola al ragazzo. Un ronzio permeò l'aria, e poi l'udirono tutti: passi crepitanti sopra le foglie morte della stagione passata, due, tre, quattro passi che si avvicinavano da più direzioni, ma tutti dal lato ancora inesplorato della foresta. I ragazzi si strinsero tra loro, quella che era stata chiamata Bahiula gemette, Runia pianse, Adia pareva ormai rassegnata all'inevitabile. Ma Zoilo e Nathaniela non si arresero, e distribuirono ai ragazzi i più robusti e lunghi tra i pezzi di legno che ancora non erano stati divorati dal fuoco.
– Tenetevi pronti – raccomandò quest'ultima, e tutti coloro che avevano accettato quelle armi improvvisate si alzarono in piedi.
Dai rami, in alto, tanto in alto da poter apprezzare la forma ad occhio della radura, si levò uno sciame di insetti neri e ronzanti. Solo che erano gli insetti più strani che i ragazzi avessero mai visto. Lo capirono quando una di quelle bestie si staccò dal gruppo e si avvicinò al fuoco. Lo si sarebbe detto un grosso moscone se non fosse stato squadrato, privo di testa, e con due lunghe paia d'ali da libellula che lo tenevano in volo sospeso. L'istante dopo, il ragazzo che aveva lanciato il bastone ai corvi lo abbatté.
– Mauvris! – Sibilò Nathaniela, in tono autoritario.
– Che c'è? – si difese il ragazzo. – Quel coso ci avrebbe attaccato.
– Sì, ma ora c'è tutto il resto dello sciame! – Shirra, addossata a Zoilo, indicò leggermente in alto con il suo bastone. Ma fu dalla foresta che provenne quello che meno di tutto i ragazzi si aspettavano.
– EP9248, ritira immantinente i droni. Ostili, ripeto, ostili a 4 zruden a dritta!
– Oh, dai, tacitati OG4281. Deve essere stata una forma di vita autoctona.
– Umanoide. Dodici forme di vita. La scansione a infrarossi rivela...
– PC0185, asserisci che qualcun altro sta violando il regolamento?
Voci umane. Dalla foresta. Le parole erano incomprensibili, ma non c'era dubbio alcuno che si trattasse di voci umane.
I ragazzi attorno al fuoco guardarono sbigottiti, ignorando i bizzarri insetti che si ritiravano tra le fronde. Ascoltarono i passi che si moltiplicavano, finché dai tronchi non emersero sei ragazzi dalle tute scintillanti con fasce di vetro colorato davanti agli occhi. Attorno a uno ronzavano in volo gli strani insetti, un altro reggeva tra le mani una tavoletta piatta e sottile.
– Grazie a Regulus, temevo una ronda! – esalò uno dei nuovi venuti. – Se ci inquadrano, siamo fritti.
– Mimetismo! – esclamò un altro, con un lungo sguardo ai ragazzi nella radura.
Una ragazzina, al suo fianco, gli diede una gomitata. – TK5403, perché non ci siamo organizzati anche noi un cambio d'abiti? Avrebbe semplificato la ricognizione in territorio retrogrado.
Era più o meno dell'età di Runia, ma non sembrava per nulla spaventata
– TK5403, TK5212, ricordate: nessun contatto con i retrogradi. Non vorrete essere vaporizzati, vero?
I due mugugnarono, ma tacquero. Nel frattempo, il gruppo attorno al fuoco, abbassati i bastoni, si avvicinò incuriosito.
– Chi siete? – domandò Zoilo. – Non vi abbiamo mai visto prima, da che villaggio venite?
– Che vestiti strani! – mormorò qualcuno alle sue spalle.
– Che parole strane! – fece eco qualcun altro.
Nathaniela si fece avanti e parlò alla ragazza in testa al gruppetto dei nuovi venuti in tono più amichevole. – Se avessimo saputo di non essere i soli ad esplorare la foresta infestata, avremmo potuto unire le forze. Voi quando siete partiti?
– La foresta cuscinetto, intendi dire – interloquì la ragazza nella scintillante tuta d'argento. – Tra noi e i retrogradi.
Nathaniela aggrottò la fronte, ignorando i bisbigli incomprensibili dei nuovi arrivati, e continuò chiedendo: – Certo dovete essere partiti almeno il giorno prima per arrivare tanto più avanti di noi, vero? Noi da stamattina all'alba, con il sole basso alle spalle, e camminando tutto il giorno, di più non siamo riusciti...
PC0185, questo il codice nominale della giovane che faceva da portavoce agli estranei, fece un gesto che zittì tutto il gruppo. – Il sole sorgente alle terga? Non da sopra l'arboreto?
Seppure con qualche dubbio, Nathaniela annuì. – Sì, camminando verso il tramonto... voi no?
Il ragazzo circondato dagli insetti trattenne il fiato, e i due che parlottarono tra loro fissavano i dodici ragazzi della radura con occhi spalancati dall'orrore, come se avessero visto un mostro. Il gruppetto dei sei arretrò.
– Contatto non autorizzato! – urlò PC0185, facendo trasalire tutti quanti, i suoi e gli altri. – Spiacente, sodali, devo segnalare. Il regolamento non ammette deroghe, i retrogradi non devono sconfinare. È più che regola, è legge.
La ragazza esitò, col dito sospeso sopra la tavoletta. I due gruppi rimasero a guardarsi con stupore, inquietudine e titubanza, mentre anche i ragazzi della radura cominciavano a intuire quello che gli scintillanti già sapevano: che l'altro gruppo proveniva dal lato opposto della foresta, quello misterioso, inesplorato, alieno.
Sopra di loro i corvi continuarono a gracchiare, fastidiosi e imperterriti, nella foresta infestata o foresta cuscinetto, due nomi per lo stesso luogo con la medesima regola: non entrare.

lunedì 17 gennaio 2022

Il borgo a strisce


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Il borgo era tutto a strisce. Erano a strisce di legno chiaro e scuro le casette sparse tra gli alberi della foresta, era a strisce di verde, punteggiato di fiori di diversi colori, l'erba che ricopriva i tetti, erano a strisce di terra e ghiaia i sentieri che collegavano le varie abitazioni, erano a strisce i vestiti degli abitanti che si voltarono a guardarci, ed era a strisce, incredibile a dirsi, persino la loro pelle. Strisce ovunque, larghe o strette, parallele o incrociate, dritte o curve. Anche il canto degli uccellini tra i rami in quella zona della foresta pareva procedere s strisce, con un'unica nota acuta ripetuta a cui rispondeva da un altro ramo, dopo una pausa, una monotona nota più grave. E il vento, il vento! Camminando, si passava incessantemente da una zona di brezza a una di quiete, e alla successiva striscia di vento capitava talvolta che questo soffiasse in direzione opposta. Quando arrivammo nei pressi delle prime case, dopo ormai cinque o sei di quelle zone di vento, io dissi: – Magia! – e girai sui tacchi.
Ma Alcyone fu svelta a prendermi sottobraccio, esclamando: – Non fare il maleducato, Trevis!
Quella gente a strisce infatti ci stava venendo incontro con sorrisi amichevoli, e il gruppetto sembrava in tutto e per tutto un comitato d'accoglienza. Ma io sapevo che non poteva essere così semplice. Dove arrivava Alcyone, non lo era mai.
Io lo avevo detto fin dall'inizio che prendere una scorciatoia nella foresta non ci avrebbe portato a nulla di buono, ma Alcyone naturalmente non era del mio stesso parere, e dato che al momento viaggiavamo con una lucertola trasformata in lacchè da una donna ancora più stramba di lei, ero stato disgraziatamente messo in minoranza. E così ci eravamo persi nella foresta ed eravamo capitati in quello strano borgo.
– Benvenuti, stranieri, nel borgo a strisce! – disse uno degli zebrati, facendosi avanti rispetto al gruppetto che era venuto a osservarci. Non dovevano avere molte visite, poiché loro ci guardavano esattamente come noi guardavamo loro.
– Ma voi... voi siete a strisce – mi sfuggì dalle labbra, prima che potessi rendermene conto.
– Anche tu – disse il tizio striato, indicando la mia mano destra.
Me la portai di fronte agli occhi: in effetti, le dita, il palmo e il dorso della mano, fino al polso, erano coperti di strisce verde scuro, quasi nero, che si alternavano al mio colorito naturale.
– Oh no... una maledizione! – bisbigliai, squadrando Alcyone in cagnesco. – Ed è contagiosa!
Se ci fossi rimasto secco sarebbe stata colpa sua, e Alcyone lo sapeva, ma se ne stava lì tranquilla come al solito, impervia a qualsivoglia preoccupazione.
Il nostro interlocutore si schiarì la voce: – No, nessuna maledizione. Per caso, hai toccato un rampicante dalle foglie a strisce, venendo qui?
– Ah. Sì. Impossibile non toccarlo: è dappertutto – dissi, sottraendo la mano incriminata al lacchè che si era messo a far saettare la lingua per saggiarla in modo tipicamente lucertolesco. Certe abitudini sono dure a morire, anche se ormai era stato trasformato in un uomo da giorni, e ancora non avevamo trovato una cura. Storia lunga, che racconterò un'altra volta.
– Edera striante. Ecco svelato il mistero – confermò il mio interlocutore. – Quella pianta ha causato le strisce sulla tua mano. Con il tempo, si allargheranno anche al braccio, e poi a tutto il corpo.
– Con... il tempo? E dopo quanto mi passerà? – Strinsi nell'altro palmo la mano striata, come a voler nascondere quell'anomalia. In genere, io ero il più normale del gruppo, ma in questo caso né Alcyone né il signor lucertola sembravano presentare i miei stessi sintomi. Eppure eravamo passati tutti e tre per lo stesso sentiero.
– Mai – sentenziò in tono grave una donna a strisce nere e arancio in mezzo al gruppo.
– C-cosa? – mi mancò la voce, e non riuscii a balbettare altro.
– Perdonate Tigrata. Le piace scherzare – disse in tono bonario l'uomo che aveva parlato per primo, e che pareva il più anziano tra quelli che ci erano venuti incontro. Persino la sua lunga barba era sale e pepe ma a strisce ben definite, che scendevano dal mento in onde e volute. – In realtà, in un paio di giorni dovresti tornare alla tua... tinta unita.
L'uomo lo pronunciò con un tono di scherno. Gli altri membri del comitato d'accoglienza ridacchiarono, poi ci fecero segno di seguirli, e ci condussero a fare il giro del borgo. Non mancava nulla, da quelle parti. C'era un fabbro che batteva strisce di metallo, e un falegname che intagliava strisce di legno, e una sarta che tagliava e cuciva strisce di tessuto. Tanto che cominciai a domandarmi se il panettiere non facesse che grissini, e il cuoco solo piatti in cui si affettava tutto a listarelle.
Alle spalle del gruppo, dopo aver visto un recinto di caprette che i nostri accompagnatori avevano sbirciato con cupidigia, Alcyone bisbigliò: – Sai, si dice che da qualche parte, in una foresta, viva un gruppo di tigri mannare, e che chiunque le trovi non torni più a casa.
Era decisamente il momento sbagliato per avvisarmi di quella diceria. Primo, perché in caso fosse stata vera, e la foresta fosse stata quella in cui ci trovavamo, era un po' tardi per avvertirci. Secondo, perché il lacchè lucertola sentì quel bisbiglio e cominciò ad agitarsi.
– Tigri? Le tigri sono... gatti? – chiese ad Alcyone, girando la testa a scatti tutt'attorno.
– Sono gatti molto più grandi dei gatti – rispose la ragazza. – E molto più feroci.
Anche questo non avrebbe dovuto dirlo. Il signor lucertola respirò affannosamente, e quando notò che chiunque attorno a noi stava sorridendo, la dentatura bene in mostra tra le strisce che decoravano i volti, prese a dire in modo sconnesso: – Gatti! Grossi gatti! Gatti carnivori! Gatti zannuti! Gatti!
Poi gettò le braccia in aria e corse via urlando.
– Uh... che gli è preso? Dove va? – domandò il nostro accompagnatore striato, all'oscuro della disavventura del nervoso lacchè che una volta per un gatto ci aveva rimesso la coda.
– A nascondersi sotto un sasso, senza dubbio – conclusi io, che avrei tanto voluto tagliare la corda nello stesso modo, se avessi avuto meno dignità di quella che avevo. Invece, feci buon viso a cattivo gioco e proseguii la visita, guardingo come al solito, tigri o non tigri.

sabato 15 gennaio 2022

Avveniristico/Avvenirismo

Avveniristico [av-ve-ni-rì-sti-co] agg. (pl.m. -ci, f. -che) Ispirato, incline all'avvenirismo.

Avvenirismo [av-ve-ni-rì-smo] s.m. 1. Fiducia nella novità, determinata dalla convinzione che questa sia anticipatrice del futuro. 2. Audacia, carattere d'avanguardia di una concezione, di un progetto, di un'opera.

Etimologia: deriva da avvenire, dal latino advenire, composto dalla particella ad, "a" e da venire, "venire, accadere".



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Il progetto era a dir poco avveniristico: estrarre energia dalle pietre. Energia pulita, stabile e illimitata. Quando glielo avevano proposto, Tàlyos aveva pensato che fossero pazzi. Ma aveva accettato, perché non avrebbe mai trovato un incarico migliore di quello che poteva offrirgli l'Imperiale Accademia di Calidona, e inoltre, lui si annoiava.
Lo svantaggio di avere nelle vene un po' troppo sangue elfico per vivere una vita parallela a quella di chiunque altro.
Non era per desiderio di plasmare il futuro, né per la fama, dei cui frutti avrebbe goduto per molto tempo, che il Mezzelfo aveva accettato di prendere parte all'impresa. Lui non pensava che sarebbero mai riusciti a venirne a capo. Certo, i cristalli azzurri conservati in segreto nel più recondito dei laboratori sotterranei emettevano una forma di energia rilevabile, ma costruire un condensatore per imbrigliarla e incanalarla era tutt'altra questione.
Chi non dubitava affatto che sarebbero stati in grado di riuscirci era il professore a cui Tàlyos faceva da assistente. Il rettore gli aveva impedito di incontrarlo faccia a faccia fino a quando non aveva accettato l'incarico e firmato tutti i documenti, ma già dalla sua voce Tàlyos aveva intuito che ci fosse qualcosa di inusuale nel professore dal dal nome impronunciabile. Quando poi lo aveva visto, gli era stato tutto chiaro: il professore era un Kohold. Un esserino grigio e rachitico, dalle dita agili e lo sguardo astuto.
Tàlyos non seppe mai come fosse arrivato fin lì, né come aveva imparato la lingua imperiale. Non aveva mai sentito che uno di loro si fosse allontanato dalle terre vulcaniche del sud, o interessato alle vicende di altre razze. Soprattutto, non per aiutare. Che strana coppia formavano!
Un Mezzelfo e un Kohold avrebbero plasmato il futuro dell'umanità: quello sì che era un concetto audace, un'idea che aveva dell'avveniristico, e Tàlyos dubitava, in caso di successo, che la gente sarebbe mai stata in grado di accettarlo.

giovedì 13 gennaio 2022

L'infanzia di Aembryl


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Sua madre avrebbe preferito che Aembryl fosse esattamente come tutti gli altri ragazzi della sua età, e invece no: Aembryl era diversa.
Non era bastato portarla da bambina quasi ogni sera alla taverna, ad ascoltare i racconti degli avventurieri di professione, le epiche gesta di tesori ritrovati e mostri sconfitti e principi e principesse salvati che mandavano in visibilio ogni bimbetto del villaggio, tanto da far loro esclamare, già prima del quarto anno di vita: – Mamma, io da grande sarò come loro!
Quello avrebbe reso orgogliosa la madre di Aembryl. Quello sarebbe stato normale.
Poi, magari, non sarebbe diventata un'avventuriera di professione. E pure quello era normale: la madre di Aembryl lavorava come terapeuta al centro di riabilitazione per orchi, e suo padre era un inventore di attrezzature speciali per avventure particolarmente complicate, o ASPAPC, come le chiamava lui in breve, una sigla dal suono piuttosto grezzo che sua moglie non mancava mai di rammentargli quanto ricordasse una parola scurrile in lingua orchesca. Ma lasciando da parte le questioni linguistiche, entrambi avevano più volte raccontato ad Aembryl di come si fossero conosciuti durante la loro prima e unica avventura, per la quale erano partiti con due compagnie diverse, mandate per errore da due villaggi confinanti ad affrontare lo stesso labirinto. Inutile dire che c'era stata un po' di rivalità all'inizio, ma alla fine le due compagnie si erano unite e avevano collaborato, e Aembryl non era stata l'unica figlia di quella collaborazione.
Tutti i ragazzi partivano almeno per una singola avventura. Era un rito di passaggio indispensabile per formare il carattere dei giovani, era una tradizione irrinunciabile, ed era un divertimento a detta di tutti coloro che erano tornati. Da quando i Decisori si occupavano di smistare gli incarichi, inoltre, la percentuale di ferite gravi era ridotta al minimo, e la percentuale di caduti praticamente azzerata. Erano i professionisti quelli che affrontavano i rischi reali, mentre per formare i ragazzi era sufficiente l'impressione del rischio. Perciò la madre di Aembryl non aveva alcun motivo di temere il giorno in cui sua figlia sarebbe partita per l'avventura della sua vita. Se solo Aembryl avesse dimostrato altrettanto entusiasmo.
Aembryl aveva frequentato la Taverna degli Eroi fin da bambina. Prima in compagnia di sua madre, poi con i coetanei e con gli altri ragazzi del villaggio. Come tutti loro, la sua infanzia era trascorsa tra racconti epici, all'ombra di nerboruti guerrieri e delle procaci e scaltre avventuriere che li accompagnavano. Come i suoi compagni, Aembryl aveva ascoltato, osservato, domandato e assorbito ogni informazione. Ma mentre tutti gli altri, bambini o ragazzi di tutte le età, si identificavano in quegli eroi e pianificavano con ampio anticipo la propria avventura e chiedevano col fine di apprendere qualcosa di utile dall'esperienza altrui, Aembryl sospirava fissando la locandiera e le cameriere che servivano vivande e bevande ai suddetti eroi.
Lei desiderava con tutta sé stessa diventare come loro. Non voleva partire, non voleva girare il mondo e combattere i mostri come pareva dovesse essere normale per tutti. E se non aveva alcun desiderio di farlo, non era per paura, come sostenevano i più maligni tra i ragazzi che avevano scoperto questa sua inclinazione.
Quasi nessuno lo aveva notato, ma lei vedeva come la locandiera e le cameriere parlassero con tutti, dal novellino all'eroe affermato e rinomato, quello che attirava sempre un nutrito pubblico di ragazzi e adulti ad ascoltarlo. Gente come quella poteva parlare con enfasi e fervore persino della cattura di una talpa nell'orto dietro casa, e in ogni caso tutti pendevano dalle loro labbra, estasiati come se si fosse trattato della più ardua delle imprese. Magari non avevano nemmeno fatto tutto ciò che raccontavano, ma a Aembryl non interessava. Quello che contava era che avevano il loro pubblico, le loro storie sarebbero state ricordate, tramandate, e divenute con il tempo leggende.
Invece il ragazzone schivo e intabarrato che sedeva sempre in un angolo del bancone, o la giovanetta bruttina che nascondeva l'arco sotto al mantello, quelli che venivano sopraffatti dal vociare ciarliero degli eroi più famosi non appena aprivano bocca, quelli che magari non sapevano raccontare le loro avventure in maniera così altisonante, ma le avevano vissute davvero, e avevano sul serio affrontato pericoli mortali e visto meraviglie inenarrabili... quelli interessavano ad Aembryl. Lei sapeva, perché lo aveva osservato accadere più e più volte, che solo la locandiera e le cameriere si davano la pena di domandare loro come stavano, e si attardavano ad ascoltare quello che avevano da dire. Per quello lei aspirava più di ogni altra cosa a una vita tranquilla tra le mura della taverna: per raccogliere le loro storie dimenticate.
Perché ogni eroe aveva diritto a un pubblico, e ogni storia meritava di essere tramandata.

lunedì 10 gennaio 2022

Creatori di sogni


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Foto di Maksim Goncharenok da Pexels


Non c'era alcun dubbio che il mio bizzarro ospite dagli occhi arcobaleno dovesse tornare da dov'era venuto. L'idea di tenerlo qui, una volta appurato che era reale e una volta passato lo stordimento seguito a quella constatazione, era durata finché quegli spaventosi assassini onirici non avevano attentato alla sua vita, e di conseguenza anche alla mia visto che ci trovavamo molto vicini in una stanza piccola. E lui era certo che quelli fossero stati solo i primi di una lunga serie, perciò era deciso: doveva andarsene.
Prendere quella decisione, per quanto la cosa mi rammaricasse, era stato molto più semplice che mandarlo via effettivamente.
Era venuto da un sogno, e in un sogno doveva tornare. Ed ero stata io a portarlo in questa realtà. Ripercorrere i nostri passi al contrario significava addormentarci assieme, a stretto contatto. Ci provammo. Vincendo l'imbarazzo del suo corpo vicino al mio sul mio letto singolo, chiusi gli occhi e cercai di abbandonarmi al sonno. Invano.
Né io né lui riuscimmo a dormire quella mattina.
Fare colazione assieme dopo che le mie coinquiline erano già uscite da un pezzo mi sembrò ancora più strano di quanto non fosse stato svegliarmi e trovarlo sdraiato sul pavimento della mia camera. Eravamo entrambi nervosi, anche se per motivi differenti. Da parte mia, vedermelo gironzolare attorno da sveglia, nell'ambiente familiare della mia cucina, mi sembrava ancora impossibile. Ogni tanto sentivo l'impulso di toccarlo, per assicurarmi di non essermelo immaginato, ma non osavo farlo. Nei suoi occhi iridescenti invece leggevo la cautela, e non sapevo se fosse guardingo a causa mia o se si aspettasse da un momento all'altro l'arrivo di un assassino.
Non potevo biasimarlo. Avevo combinato un bel casino.
Riprovammo quella sera, e non so se fu perché ero stanca per la giornata passata continuamente a muoverci, o per la "polvere di sogno" che lui si era procurato da certi tipi loschi, ma crollai immediatamente. Nonostante la sua mano avvinghiata alla mia, e il suo bel volto a pochi centimetri di distanza.
Riaprii gli occhi sdraiata su un prato verde, circondata da corolle di margherite, il calore del sole sul mio volto e un melodioso tintinnio di campane a vento proveniente da chissà dove. Sotto di me, le stelle.
Quando mi resi conto che la terra era sopra e il cielo sotto, caddi. Precipitai tra le stelle urlando, accompagnata da quel tintinnio tanto rilassante quanto beffardo. Una risata e lui, il ragazzo dagli occhi arcobaleno, fluttuò al mio fianco e mi tese la mano. Continuai a cadere in un caleidoscopio di stelle, con lui accanto che invece pareva non muoversi affatto, finché non afferrai la sua mano e iniziai a volare.
L'esperienza fu esilarante.
– Da questa parte – mi disse lui. Attraversammo nebulose e scie di comete. Lui sembrava sapere dove andare, e io non potevo far altro che fidarmi, anche se avevo mille domande.
– Stiamo davvero sognando? Insomma, non ho mai fatto un sogno del genere, sembra così...
– Vivido? – mi chiese, e scostando una voluta di nube che ci vorticò attorno, rivelò un cielo limpido sopra un enorme albero circondato da acque placide. Fra i rintocchi delle campane a vento, udii lo sciabordio delle onde, e un profumo fresco, di alghe e di acque lacustri più che marine.
– Siamo in un universo bolla. Molto limitato ed effimero: appena ce ne andremo, collasserà e svanirà.
Mi rattristai, mentre scendevamo verso l'albero, all'idea che quel paesaggio da sogno avrebbe cessato di esistere.
– Ma finché siamo qui, noi siamo i creatori. Non c'è limite a quello che possiamo immaginare... e fare.
I suoi piedi toccarono l'acqua, ma non affondarono. Due increspature gemelle si allargarono sulla superficie e si diressero incontro all'orizzonte.
Io continuai a fluttuare in aria, trattenuta dalla sua mano come un palloncino, o un aquilone legato a un filo. La sua occhiata serena, e la sua fiducia nella capacità di quell'acqua d'argento di sostenerci, mi indussero a scendere a mia volta.
L'acqua, quando la toccai con i piedi nudi, mi parve impalpabile come nebbia, eppure morbida.
Avanzai al suo fianco, quasi saltellando tra le increspature che i nostri passi generavano, e attorno a noi dall'acqua si elevarono formazioni cristalline, trasparenti e variopinte, dai colori pastello: corallo e celeste, lilla, verde acqua, panna, turchese, ametista e cipria, e tante altre sfumature.
– Dimmi quando senti che stai per svegliarti. Così lascerò la tua mano, e potrai andare.
Abbassai lo sguardo alle nostre dita allacciate. E arrossii. Non mi aveva più messo in imbarazzo stare mano nella mano come fidanzatini finché lui non aveva accennato alla cosa. Mi schiarii la voce e gli chiesi: – E tu, cosa farai dopo?
– Aprirò una porta verso l'universo bolla da cui mi hai strappato. Così ognuno di noi tornerà al suo posto.
Lui si fermò. Sotto la superficie, a un passo dai suoi piedi, un faro si elevava verso le profondità del lago. Sembrava il riflesso di un ricordo in assenza di ciò che lo aveva originato.
– Perché non adesso?
Lui allungò la mano e un muro d'acqua sorse in corrispondenza del riflesso. Capii ben presto che l'acqua stava ricreando quel faro mancante. Allungai la mia mano libera e immaginai i dettagli del muro circolare, le scanalature tra i mattoni, il vano di una finestra...
Gli sorrisi. In fondo, creare questo sogno non era poi così difficile, una volta che ci avevo preso la mano.
– Perché gli altri avranno di sicuro notato la mia assenza, a questo punto. Non voglio metterti nei guai.
Continuammo a ricreare il faro, in silenzio dopo quella risposta, finché la melodia di campane a vento si diradò, le note sempre più distanti e flebili, e sotto i miei piedi non avvertii più la fresca morbidezza di quell'acqua solida.
– Sto per svegliarmi – gli dissi, nell'avvertire quello strano stordimento che accompagnava l'allentamento della mia presa su quella realtà. Subito lui mollò la mia mano come se lo avessi scottato.
– Ci rivedremo? – gli chiesi. La mia voce mi parve pesante e lenta, come quella di una persona assonnata, e a malapena udii la sua risposta mentre tutto quanto diventava buio.
– Vieni al circo. Conosci la strada...
Aprii gli occhi nel mio letto. Sopra di me il soffitto immerso nella penombra della notte, rischiarato a malapena dalla lampadina sul comodino. Accanto a me un altro respiro, e quando mi girai lo scorsi ancora lì, sul mio letto, profondamente addormentato.
Non era svanito così come era comparso. Sospirai e mi accinsi ad attendere il suo risveglio.
– Dovevo immaginarlo che non poteva essere così semplice.

sabato 8 gennaio 2022

Postribolo

Postribolo [po-strì-bo-lo] s.m. Casa di piacere, bordello, casino.

Etimologia: dal latino prostibulum, da prostare, "essere esposto al pubblico, in vendita", composto da pro, "avanti", e da stare, "stare fermo, immobile".



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Foto di ROSA GATTUSO da Pexels


Pianeta Merakia. Il trio che percorreva le vie periferiche nel sottosuolo della capitale si fermò a pochi passi dalla propria meta. La porta era aperta, e l'ologramma di una sinuosa Merakiana scarsamente coperta da veli traslucidi danzava per strada, allettando i passanti con gesti morbidi e carezze inconsistenti delle quattro braccia. Di tanto in tanto trasfigurava in altre più esotiche aliene, ugualmente discinte, con la stessa promessa di momentanei piaceri.
Non c'era alcun dubbio: l'indirizzo che i tre stavano cercando corrispondeva a un postribolo.
– Perciò, quando il nostro contatto ci ha detto che avremmo trattato l'affare in un bordello – considerò Cinde, fissando dubbiosa il conturbante ologramma – non intendeva in senso metaforico.
– Oh, a me sta più che bene – Handel si fregò le mani e partì di slancio verso l'ingresso.
Cinde e Mod lo seguirono, un po' defilati. Cinde gettò uno sguardo al nuovo membro dell'equipaggio, ma non riuscì a capire che cosa ne pensasse. Gli occhi da rettile di Mod la mettevano ancora a disagio.
Da un lato della porta, sdraiata in una posa languida su una panchina, un'Antociana dalla pelle azzurra fungeva allo stesso tempo da insegna e da guardia per il postribolo. Quando Handel fu sulla soglia, lei toccò col piede il viso dell'uomo, e un rossore intenso si diffuse dalle sue dita fino alla caviglia. L'Antociana scostò il piede e mentre la sua pelle tornava azzurra fece cenno a Handel di entrare. Con un sorriso sornione, lui si chinò a baciarle il piede prima di avventurarsi nel buio oltre la soglia.
Quando fu il turno di Cinde, il piede dell'Antociana si tinse di ciclamino, ma il responso fu lo stesso: poteva passare.
Al contatto con Mod la sua pelle si fece nero antracite. L'Antociana si alzò dalla panchina e gli sbarrò il passo a una velocità impressionante. Un cenno a un cartello e la sua voce gracchiante, in netto contrasto con il suo aspetto, fornirono la spiegazione: – Gli Arturiani non sono ammessi.

giovedì 6 gennaio 2022

La famiglia della strega


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Foto di Anna Shvets da Pexels


Caro diario,

due giorni fa sono venute a prendermi. Lo hanno fatto nel cuore della notte, così nessuno ha protestato. Non che qualcuno avrebbe protestato tanto ugualmente, alla Casa degli Orfani dove stavo. Ma era l'unica famiglia che avevo, e adesso mi manca.
Le streghe rapiscono i bambini, questa non è una novità, ma non pensavo sarebbe mai accaduto a me. Quello che succede dopo è in genere una storia spaventosa, di quelle che si raccontano bisbigliando dopo il coprifuoco. Anita diceva che lo fanno per mangiarti, ma ormai sono qui da due giorni e nessuno mi ha ancora messo all'ingrasso come fanno di solito nelle fiabe. Si limitano a tenermi chiusa in questa stanza, una bella stanza, grande e tutta per me, ma senza finestre. C'è un bagno dietro a una porticina, e ogni mattina, quando mi sveglio, trovo vestiti puliti e un vassoio con i pasti della giornata, ma non ho mai visto nessuno entrare dalla porta più grande, che è sempre chiusa a chiave, e mi sento molto sola.
Alla Casa degli Orfani non ero mai da sola. C'erano tanti bambini e ragazzi di tutte le età, ovunque mi girassi, e chiasso, tante voci, confusione. Non mi piaceva quando ero là, ma ora darei le coperte soffici e calde e il materasso morbido di questo letto e ogni cosa bella che ho in questa stanza per sentire ancora una voce che non sia la mia.
Qui c'è troppo silenzio.
Ho provato ad accostare l'orecchio alla porta per cercare di sentire se c'è qualcuno al di là, ma tutto ciò che si sente sono strani gorgoglii e tintinnii e fruscii come uno sfogliare di pagine. Solo di tanto in tanto si sente l'eco dei passi di qualcuno. Ho provato a gridare aiuto quando li sentivo, ma credo che quei passi siano di una strega, perciò nessuno verrà a liberarmi. Stanotte resterò sveglia, così quando vengono a portarmi da mangiare, io cercherò di scappare.


Caro diario,

non ha funzionato. Mi sono addormentata. Forse non avrebbe funzionato comunque, forse fanno apparire direttamente nella mia stanza quelle cose, con la magia, senza nemmeno aprire la porta. Sono streghe, in fondo. Ci si può aspettare di tutto da parte loro.
Comincio a stancarmi di questa attesa. Qui non c'è molto da fare. Se non mi hanno rapito per mangiarmi, per trasformarmi in un rospo o in qualcos'altro di orribile, o per torturarmi come si racconta nelle storie spaventose, perché mai mi hanno portato via da dove stavo? Là non ci stavo tanto male, anche se più di una volta ho detto che volevo andarmene via, trovarmi una vera famiglia. Forse le streghe mi hanno sentito, ed è per questo che mi hanno preso. Se è così, vorrei tanto potermi rimangiare quelle parole. Adesso non ho una vera famiglia, anzi, non ho più nessuna famiglia.
Sono stata cattiva, ed è per questo che mi hanno preso.


Caro diario,

ieri quella porta si è aperta e le streghe sono entrate nella mia stanza. Erano due, molto belle, vestite di bianco. Non come si racconta nelle storie, vecchie orribili col naso adunco e i vestiti tutti neri e sporchi. Sapere che le storie si sbagliano mi ha spaventato ancora di più, perché non capivo che cosa volevano da me.
E poi mi hanno fatto sedere sul letto e me lo hanno detto. Ancora non riesco a crederci.
Io sarei...
Io sono una di loro.
La storia, quella vera, è questa: le streghe non rapiscono bambini a caso. Prendono solo quelli nati con la magia. Li portano qui, in questa casa, o scuola, o quello che è. E insegnano loro a fare incantesimi e tutto il resto, e quando diventano abbastanza bravi, li lasciano liberi di scegliere se andare o restare.
Quasi nessuno sceglie di andare via, dicono.
Domani mi faranno fare il giro della casa, mi porteranno a conoscere le altre streghe e le apprendiste, e comincerò a imparare a fare magie.
Mi sembra tutto troppo bello. E se si fossero sbagliate, con me? Io non ho mai fatto nessuna magia, non sono speciale, non sono nessuno. Solo un'orfana che non ha più nemmeno un posto dove stare.
Se si accorgeranno che io non sono come loro, che si sono sbagliate a prendere me, dove andrò?


Caro diario,

scusami se non ho più scritto, ma c'è così tanto da fare, da imparare, da provare qui. Da mattina a sera passo il tempo con le pergamene di incantesimi di strega Morgana, tutte quelle frasi da apprendere, e tra gli alambicchi di strega Nimue, quanto adoro vedere i liquidi percorrere le spirali di vetro e cambiare colore, e poi c'è strega Aradia che ci insegna la storia della magia dalla sua scoperta a oggi, e strega Viviana che ci porta fuori a respirare sotto il cielo, a ritrovare la calma e a imparare a fidarci le une delle altre...
Sarebbe troppo descrivere tutto quello che faccio ogni giorno. So far levitare gli oggetti, o almeno, comincio a saperlo fare. Una volta ho anche volato. Le pozioni sono divertenti, le trasformazioni sono... ancora fuori dalla mia portata, per adesso, ma altre apprendiste già le sanno fare, e mi sono offerta volontaria più di una volta per le loro prove. Pensare che avevo paura che qualcuno mi trasformasse in un rospo! Lo sono già stata ormai quattro volte, e un gatto, e un cavallo, e una volta mi hanno persino tramutata in una fata. Il dominio degli elementi lo affronterò fra qualche giorno, e non vedo l'ora.
Sì, decisamente non ci sono più dubbi: sono una strega. E mi chiedo: chissà, forse lo era anche la mia vera famiglia? Che cosa gli è successo? O forse no, loro non avevano poteri, e mi hanno abbandonato proprio perché hanno capito che io ero diversa?
Voglio imparare il più possibile qui dentro, imparare come posso ritrovarli, come posso scoprirlo. E quando verrà il momento della mia scelta, io andrò via da questo posto, andrò a cercarli.


Caro diario,

è passato molto tempo dai giorni della mia infanzia, quando affidavo a te i miei pensieri. Oggi voglio scrivere ancora una volta sulle tue pagine bianche, perché è un momento importante, è il giorno in cui devo scegliere la mia strada. Mi sembra così strano rileggere i miei propositi di allora.
Anche oggi, come in quel tempo, non ho dubbi.
È questa la mia famiglia.
Dopo tanti anni passati con loro, a ridere, a imparare, a crescere, ho capito una cosa. Credevo che poche streghe lasciassero questo posto soltanto perché qui possiamo essere libere di praticare la magia mentre là fuori, nel mondo, dobbiamo nascondere chi siamo. Non è così. Non restiamo per poter essere noi stesse, anche se poterlo fare è fantastico, ed è più di quanto possano sperare tutti gli altri, là fuori, la gente senza magia.
Restiamo perché abbiamo creato legami che nessun incantesimo potrà mai sciogliere.

lunedì 3 gennaio 2022

Illusione di vita


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Foto di cottonbro da Pexels


Come uscita dal cilindro di un prestigiatore, la nebbia bluastra saliva rapidamente a lambire le lapidi e i piedi delle statue angeliche del vecchio cimitero sulla collina. Un grosso ulivo contorto, una pianta antica e l'ultimo residuo del tempo in cui la collina era terreno coltivato come tutte le altre alture della zona, era l'unico guardiano notturno delle tombe e dei loro residenti, e fungeva da casa per una numerosa colonia di corvi che ciarlavano in continuazione, a tutte le ore, con le loro sinistre voci gracchianti. Non era mia abitudine uscire nel cuore della notte, e mai avevo varcato nel buio i cancelli del cimitero, ma i miei amici mi avevano sfidato a farlo, asserendo che sarebbe stata "un'esperienza divertente".
Incassai la testa al gracchiare dei corvi sui rami sopra di noi e mi guardai attorno, cosa non facile, nella nebbia che s'infittiva e amplificava le mie paure. Le pietre grigie e lugubri che si ergevano da terra tutte storte parevano i denti male assortiti di un mostro. – E se incontriamo qualcosa? – bisbigliai timorosa.
– Qualcosa... tipo? – chiese il più spavaldo di noi. Sapevo che se ne andava a zonzo di notte, e si raccontava che più di una volta avesse varcato i cancelli a protezione di questo luogo. – Una spaventosa creatura delle favole? – Il ragazzo rise, e io m'imbronciai.
Uno dei corvi scese a terra svolacchiando in modo maldestro, e atterrò a pochi passi da noi. Cominciò a gironzolare tra l'erba, per nulla infastidito dalla nostra presenza.
– Non mi dire che hai paura dei fantasmi – rincarò la dose il fratello del primo ragazzo.
– Certo che no, sarebbe ridicolo – borbottai io. La luna piena, con il suo chiarore, rendeva la nebbia che ormai ci avvolgeva una coltre lattiginosa. Forse fu per quello che dapprima non ci accorgemmo di nulla. O forse perché eravamo troppo impegnati a battibeccare tra noi, e i nostri bisbigli, uniti al gracchiare dei corvi, ci impedirono di sentirlo.
– Sì, però, ci sbrighiamo? – intervenne la mia migliore amica, senza la quale non sarei mai partita per quell'avventura. – Qualunque cosa dobbiamo fare, facciamola adesso. Io non voglio incontrare la gente delle ombre.
Tremammo tutti quando la mia amica li nominò, perfino il più spavaldo tra noi non poteva immaginare di incrociare uno di quei mostri senza farsela sotto dalla paura. La gente delle ombre che oscura la terra e ti guarda senza vederti, e passa attraverso di te gelandoti l'anima. Questo si diceva di loro. Storie tramandate dal passato, perché nessuno che conoscevo ne aveva mai incontrato uno. La gente delle ombre aveva ormai abbandonato il vecchio cimitero sulla collina.
D'improvviso un soffio di vento ci portò il mormorio di un respiro inquietante, e la terra tremò sotto i colpi di un passo pesante. Ci fissammo negli occhi spalancati e poi i miei amici si dileguarono tra la nebbia, disperdendosi in tutte le direzioni. – Aspettatemi! – gridai, ma fu inutile. Io ero rimasta indietro.
Non riuscivo a capire da dove venisse e verso dove fuggire. I passi, il respiro, sembravano ovunque attorno a me, confusi nel vento. Quando avvertii la sua ombra su di me, era già troppo tardi.
L'istante dopo quell'essere dalle lunghe gambe uscì dalla nebbia e mi fu addosso. Inorridii nello scorgere i suoi piedi calpestare crudelmente gli steli d'erba, invece di fluttuare leggeri tra le foglie. Perfino il corvo che era sceso dall'albero lanciò un richiamo ai suoi simili prima di prendere il volo e fuggire dalla creatura e dalla sua ombra. Io invece non riuscii a muovermi.
Fissai inebetita i suoi occhi ciechi, il suo sguardo che non coglieva la mia presenza. Un ultimo passo, e il suo corpo si sovrappose al mio.
E allora non fu il gelo, ma un calore rovente a scuotere il mio ectoplasma. Mi sentii pesante, ancorata alla terra, le orecchie pulsanti di un battito strano, ritmico, ipnotico. Un'oppressione al petto mi costringeva a gonfiarmi e sgonfiarmi, proprio come faceva quel ragazzo della gente delle ombre. Che strana illusione, ricordavo di avere avuto anch'io un'ombra un tempo, e piedi sulla terra, e una casa al di là dei cancelli del cimitero, invece di una dimora tra la terra delle tombe. Ma non poteva essere, io ero io da sempre, non ero mai stata nient'altro che me stessa... o forse no?
Il ragazzo della gente delle ombre mi oltrepassò e sparì nella nebbia, portando con sé tutte quelle strane sensazioni, e lasciandomi da sola a riflettere su ciò che avevo provato, forse, ricordato.
Non oltrepassai i cancelli del cimitero, non uscii dalla mia casa quella notte. Ma le successive fui io a incitare i miei amici a farlo, e varcai per prima quei confini, segretamente alla ricerca della gente delle ombre, di un ricordo, di un'ultima illusione di vita.

sabato 1 gennaio 2022

Alacre

Alacre [à-la-cre o a-là-cre] agg. 1. Attivo, operoso. 2. fig. Pronto nel ragionamento, vivace.

Etimologia: dal latino alacer, alacris, "vivace, lesto, pronto".



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Foto di Abby Chung da Pexels


Dopo la morte di Isme faticammo a riprenderci. Castai si ritirò dal servizio alla Fratellanza, e ormai lo si vedeva di rado al di fuori di pasti e cerimonie: era sempre chiuso nella sua stanza, quando non era in giardino tra le radici della Fondatrice, o nella foresta bruciata, a parlare con il frassino che era stato la metà arborea di Isme. La sua mente alacre, celata dalla ruvida scorza di un burbero brontolone, pareva essersi spenta, lasciandosi dietro solo un guscio vuoto. Menes ci disse di essere indulgenti con lui, poiché la perdita della sua apprendista lo aveva colpito più di quanto avremmo osato immaginare, più del morso di un'ascia sul tronco del suo ulivo. Quell'immagine zittì tutti quanti, occhi smarriti nell'orrore di ciò che un simile evento poteva farci provare, legati com'eravamo ciascuno al proprio albero.
Mentre Castai elaborava il lutto, fui io a prendere il suo posto, ma lo feci a mio modo. Ignorai la predella tra i banchetti del mercato da cui quotidianamente Castai si era sgolato per informare la popolazione dell'esistenza della Fratellanza degli Alberi, e di cosa significava essere uno di noi. Le persone ormai ci conoscevano, ma circolava l'idea che fossimo una stramba setta di adoratori degli alberi in cerca di proseliti, mentre in realtà come noi si poteva solo nascere. Cercavamo quei rari individui che percepivano come propria la vita racchiusa dalla corteccia di uno specifico albero, non seguaci pronti a convertirsi. Perciò io camminai tra i banchetti della halle, e osservai, e parlai con mercanti e clienti. Fu così che conobbi Koriolos, l'alacre apprendista di un intagliatore di legno, così giovane eppure già superiore al suo maestro.
Quando nessuno lo guardava, Koriolos parlava con il legno che stava lavorando, una bizzarria che molti avrebbero identificato come il vezzo di un ragazzino che si sentiva solo.
Ma forse dietro c'era qualcosa di più, qualcosa che solo qualcuno come lui avrebbe riconosciuto.