lunedì 31 ottobre 2022

Inferno Spa


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C'era un motivo per cui l'Azienda andava così bene, nonostante i colossali buchi nel nostro bilancio. Il merito andava tutto al nostro principale investitore.
Quando ero stato assunto, una dozzina di anni fa circa, non avevo capito esattamente di che cosa si occupava l'Azienda. Non avevamo un'officina né un magazzino, perciò non ci occupavamo della produzione di beni, utili o inutili che fossero. Nemmeno chi mi aveva assunto, un'altra rotella del grande ingranaggio, era stato in grado di spiegarmi esattamente lo scopo dell'Azienda. Si era limitato a dirmi quel che avrei dovuto fare io, un noioso, ripetitivo, infernale compito di inserimento dati; e per quanto riguardava il quadro generale, le sue parole erano state una nebulosa e inconsistente sfilza di orridi termini burocratici che non avevano definito alcunché di concreto. Aveva tutta l'aria di un discorsetto imparato a memoria, il che mi fece capire che nemmeno lui sapeva realmente di che cosa si occupava l'azienda.
Perlomeno pagavano il giusto per un lavoro d'ufficio, non una cifra eclatante ma nemmeno una miseria al di sotto del limite di sopravvivenza, cosa abbastanza rara di questi tempi, perciò avevo accettato. E da allora ero rinchiuso in questa bolgia dantesca dai pavimenti lucidi e dalle pareti bianche, nel mio ristretto cubicolo di fronte a uno schermo. I colleghi più vicini al mio minuscolo spazio vitale erano già qui da parecchi anni quando ero arrivato, perciò si erano ormai adattati ai ritmi dell'ufficio, e di scambiare due parole ogni tanto neanche a parlarne.
Odiavo il mio lavoro. Odiavo il ritmico ticchettio delle dita sulla tastiera che scandiva le mie giornate, odiavo il telefono che squillava in continuazione nei cubicoli delle centraliniste due file più avanti, odiavo il ronzio della stampante che mi forniva nuovi dati da inserire nelle schermate monotone del gestionale. Le uniche voci umane che udivo erano quelle delle centraliniste che ricevevano le telefonate, e quelle dei commerciali alle mie spalle, in fondo alla sala. Almeno, supponevo che fossero commerciali, lo avevo dedotto dal loro continuo parlare di clausole, contratti e pagamenti. Quindi, o erano commerciali, o erano avvocati.
Al lavoro non mi sembrava di fare nulla, nulla di utile perlomeno, eppure la sera tornavo sempre a casa stanco, svuotato, come se nel corso di quelle ore tediose qualcuno avesse spremuto da me tutto l'entusiasmo della mia gioventù. Mi sentivo, in realtà, molto più vecchio dei miei anni, pieno di acciacchi che non avrei dovuto avvertire. Non avevo la forza per uscire a divertirmi come un tempo, né la voglia. La sera, dopo cena, restavo sveglio unicamente per rallentare il tempo che mi rimaneva prima della prossima giornata in ufficio.
Da qualche tempo mi ero messo a indagare, un po' per l'ultimo guizzo di curiosità che avevo conservato, e un po' perché dopo anni quel lavoro era diventato talmente banale che avrei potuto farlo a occhi chiusi e per inerzia. Mentre le mie dita danzavano sulla tastiera, e lo sguardo passava dal foglio allo schermo, con una parte del mio cervello ascoltavo il mormorio delle centraliniste e dei commerciali, prestando particolare attenzione quando sentivo qualche parola che potesse condurmi a comprendere gli scopi dell'Azienda. Che compravamo e vendevamo dati era una cosa piuttosto scontata, ma a chi e per che motivo non mi era mai stato del tutto chiaro. Sarebbe stato molto più semplice venire a capo di qualcosa, se l'Azienda non avesse scoraggiato le relazioni tra colleghi, al punto da non prevedere pause caffè in un ambiente condiviso, e nemmeno una cena aziendale annuale. L'unica cena aziendale di cui ero venuto a conoscenza era quella a cui partecipava la dirigenza, i soci e gli investitori esterni sul finire del mese di ottobre, e l'unico dipendente ammesso a parteciparvi era il fortunato che stava per ricevere una promozione. Si rallegravano quelli che a metà del mese di ottobre ricevevano l'invito stampato a caratteri gotici inserito in una busta rossa, e il resto di noi plebei ruminava invidia in silenzio, ben attenti a non farsi cogliere in fallo dal nuovo futuro capo.
Io avrei tanto voluto chiedere a uno di loro dettagli sulla cena aziendale, ma il fatto è che dopo tale evento il fortunato non si mescolava più alla folla dei dipendenti. Non lo si rivedeva, e di lui o lei si poteva solo dire che era andato a stare in un posto migliore.
Quest'anno, finalmente, avrei scoperto io stesso che succedeva a una di quelle cene. La busta rossa, infatti, era arrivata a sorpresa nel mio cubicolo. Mi chiesi che avessi mai fatto per di essere scelto, non mi pareva di aver fatto nulla di particolarmente meritevole che attirasse l'attenzione della dirigenza. Ero puntuale, questo sì, poche assenze e molta cura nel non commettere errori, cosa che diventava difficile a un certo punto quando tutte le cifre e le lettere tendevano ad assomigliarsi e perdere ogni significato. Ma nulla che mi avesse mai fatto risaltare al di sopra dei miei colleghi d'ufficio.
Facevo la mia parte, da brava rotella di ingranaggio.
Le istruzioni nella lettera di invito erano di sgomberare il mio cubicolo il pomeriggio prima della cena e di presentarmi a un certo indirizzo a una certa ora in un completo elegante. L'indirizzo non corrispondeva a un ristorante di lusso come avevo supposto in un primo momento, bensì a una faraonica villa privata.
Il maggiordomo che mi accolse all'ingresso mi condusse verso una sala da pranzo immersa nella penombra rischiarata da innumerevoli candele rosse, e mi annunciò, trattenendomi per le spalle, con un discreto: – Signori, la vittima sacrificale è arrivata.
Pensai che scherzasse, in un primo momento. Una facezia da gente ricca e stramba, del tipo che cenava con caviale e aragosta a lume di candela, ma poi li vidi. Vidi i dirigenti in lunghe vesti cerimoniali e cappucci neri, e vidi Lui, il principale investitore, l'unico che camminava tra loro a volto scoperto, anche perché le corna non ci sarebbero certo state dentro uno di quei cappucci neri.
Nel vederlo capii in un lampo a che cosa si riferivano i contratti, le clausole e i pagamenti di cui parlavano i commerciali. Cercai di fuggire, ma ormai ero in trappola, quel gigante di maggiordomo che mi stava alle spalle mi spinse dentro e chiuse la porta a chiave, e in quella sala dalle candele rosse io ero l'unico che non aveva un coltello.
Il resto di quella serata non fu piacevole, perciò preferisco non parlarne, non pensarci neppure. Basterà dire che io a quella cena non mangiai niente.
La lettera però non mentiva sulla promozione. Ora lavoro nella filiale principale della nostra grande Azienda, che ha una succursale o a volte più di una in ogni nazione del mondo. Ora so di che cosa ci occupiamo, per che cosa sono stato assunto. Lo stipendio non è più un problema. Peccato solo che per arrivare alla pensione ci vorrà un'eternità intera.

sabato 29 ottobre 2022

Efferato

Efferato [ef-fe-rà-to] agg. Feroce, crudele, inumano.

Etimologia: dal latino efferatus, participio passato di efferare, "rendere selvaggio, crudele", composto da ex, "da, fuori", e da ferus, "feroce".



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Ripetei il grido d'allarme, intrusi, poi mi girai ad affrontare gli invasori, ma era già troppo tardi. Il primo mi afferrò per i capelli e mi strinse le braccia in una morsa. Il tanfo del suo alito mi stordì quando avvicinò il suo viso al mio, arricciò il naso sopra un ghigno crudele e poi, vicinissimo alle mie orecchie, lanciò un urlo efferato che mi lasciò stordito e inerme. Il secondo ci raggiunse, mi strappò con violenza alle sue mani e mi gettò a terra. Rotolai e sbattei contro uno degli speroni di roccia che si innalzavano come zanne acuminate nella caverna. La ferita alla gamba, mai guarita, faceva male come la prima volta che la mia carne era stata straziata.
La confusione che mi annebbiava la vista era la cosa peggiore. Sentivo i due invasori litigare tra loro con suoni gutturali. Altre urla e tonfi provenivano da un lato della cava, e il loro eco tra il gocciolio continuo mi dava un'idea di dove Sachara, Ahru, e la madre che aveva perso il piccolo stavano lottando contro gli altri sei. Il rumore era assordante, ed ebbi paura che avrebbe richiamato il resto dei clan di invasori che si era diviso per esplorare i cunicoli. Girai all'indietro la testa e li scorsi: no, non erano più sei, ma quattro. Due di loro giacevano a terra, così come la madre, sovrastata dal bruto che l'aveva abbattuta dopo aver subito i suoi morsi e i suoi graffi disperati. L'efferato invasore le stava strappando brandelli di carne, e si tingeva la pelle di rivoli rossi di sangue. Il lezzo di morte, anche da dove mi trovavo, era soffocante, ma non ebbi il tempo di soffermarmi a pensarci, poiché i passi dei due che mi avevano attaccato rimbombavano sempre più vicini.
Quasi non lo sentii, tra il frastuono di urla e di colpi e di passi. Un altro, al mio posto, non lo avrebbe udito. Ma io ero una sentinella, e calpestio dei cacciatori che avevano risposto al mio grido d'allarme e si erano affrettati a rientrare era il suono più dolce del mondo, e significava che non sarei morto quel giorno.

giovedì 27 ottobre 2022

L'uomo con la valigetta


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– Potrei farlo – disse l'uomo con la valigetta. – Potrei aprire la mia valigia, rompere una fiala o due, e stare a vedere che succede. Non sarebbe divertente?
Sorrideva sicuro di sé, come uno che ha l'aria di non stare affatto scherzando. Il suo non era un bluff. Non gli importava di causare la propria morte o quella di qualcun altro.
Feci per alzarmi, ma lui posò una mano sulla mia e mi guardò di sottecchi, con una smorfia di falsa contrizione. – Dove vai, non abbiamo finito. Davvero non ti importa nulla di tutta questa brava gente? Fossi in te, io non vorrei avere sulla coscienza la morte di quella cameriera così carina.
Accennò alla ragazza dai capelli scuri dietro al bancone del bar, a malapena visibile dietro alla folla vociante degli avventori seduti sugli sgabelli o in piedi nello stretto spazio tra il lungo bancone e i tavoli. L'avevo notata, entrando. E l'uomo con la valigetta, probabilmente, aveva notato che io l'avevo notata.
Mi sedetti controvoglia, arrendendomi al tono carezzevole con cui mascherava le sue minacce. L'uomo, che mentalmente chiamavo Philip dato che non si era presentato, mi sorrise e si rilassò contro lo schienale. – Bravo – mi disse. – Se ti può consolare, hai fatto la scelta giusta. Parlare con te, adesso, è la sola cosa che mi trattiene.
Mi guardai intorno in cerca di aiuto, ma nessuno sembrava interessato a noi. Erano tutti in compagnia di qualcuno, un amico, una donna, una famiglia. Solo io ero lì da solo, o meglio, avrei preferito esserlo. Meglio soli che male accompagnati, no? E invece ero incastrato in quella situazione impossibile, in apparenza senza aver fatto nulla per meritarmelo. Maledissi il momento in cui Philip si era venuto a sedere al mio tavolo, sulla seggiola vuota di fronte a me. Maledissi di aver scelto quel bar, di esserci andato senza la solita compagnia di amici, maledissi persino di essermi alzato dal letto quel giorno. Fissai con astio l'uomo dall'altro lato del tavolo.
– Che cosa vuoi? – tagliai corto, bruscamente.
Sapevo per esperienza che quelli come lui volevano sempre qualcosa. Soldi. Attenzione. Vendetta. Mandare un messaggio. Cose del genere.
Philip sgranò gli occhi e replicò in tono mellifluo: – Perché mai dovrei volere qualcosa? Io ho tutto ciò che mi occorre qui, a portata di mano. – Accennò alla valigetta legata al suo polso da una catenella e concluse: – Io sono Dio.
Rise. Una risata morbida, appena accennata, ma resa ancora più inquietante dalle minacce che aveva snocciolato in precedenza, con leggerezza. – È una bella sensazione. Dovresti provarla, una volta o l'altra.
Folle. Quell'uomo era folle. Non c'era altra spiegazione per quello che stava facendo. Mi sforzai di cercare di comprenderlo, per poter trovare una via d'uscita, e mi resi conto che aveva mentito.
– Ah, però tu vuoi qualcosa – lo contraddissi. – Vuoi che io ti ascolti.
Fece un cenno noncurante, con un mugolio. – Più che altro, lo devi volere tu. Perché è una questione di vita o di morte per te, ascoltarmi. Se ti alzi da quella sedia, ti assicuro che non riuscirai ad andare abbastanza lontano da evitare di respirarlo, con tutta questa bella gente che ti blocca la strada.
Ancora una volta mi guardai attorno. Aveva ragione. Troppe persone, troppo ammassate, e nessuna di loro era minimamente consapevole del pericolo che stava correndo. Avrebbero sgomitato pur di proteggere il proprio posto in fila alla cassa, per essere proprio lì appiccicati al bancone quando il loro caffè fosse stato pronto. Come se fossero quelle le priorità nella vita. Un posto in prima fila per non rinunciare alle piccole comodità a cui erano abituati.
Al contrario di me, che avevo un posto in prima fila dinnanzi all'orrore.
– E non lo è per te? – chiesi all'uomo con la valigetta, nel tentativo di riportarlo alla realtà di quello che aveva minacciato di fare. – Una questione di vita o di morte, intendo.
Philip mi fissò inespressivo. – Noooo – mormorò lentamente, strascicando la o. – No davvero. Un dio non può morire. Un dio è immortale, nel momento in cui rivela la sua creazione.
Spostò la valigetta sulle ginocchia e la accarezzò. Aveva creato lui le microscopiche entità contenute nelle fiale che mi aveva mostrato per un breve attimo, me lo aveva detto fin dall'inizio, ed era evidente che ne andava fiero.
– Un giorno sarà una cosa da nulla, accessibile a tutti – mi aveva detto, come se non stesse parlando di generare nuovi ceppi di patogeni letali in laboratorio. – Imparare ad hackerare la vita sarà semplice ed economico come sviluppare un nuovo programma al computer. Qualunque adolescente brufoloso lo potrà fare nel garage di casa propria.
Lo scenario che Philip mi aveva prospettato era da brividi. Seguendo l'analogia del computer, era semplice immaginare che non tutti avrebbero usato quelle conoscenze per dare vita a microorganismi utili, come batteri in grado di accelerare la guarigione delle ferite o di attaccare gli insetti nocivi, o innocui come stringhe di bacilli bioluminescenti. Come per i virus informatici, schiere di malintenzionati si sarebbero appropriati di quella conoscenza e l'avrebbero usata per attuare ricatti in cui la posta in gioco era più alta dei semplici dati perduti o sottratti per essere messi in vendita.
Un intero pantheon di nuove divinità malefiche a cui non interessava di giocare con la vita degli altri come a lui non interessava di mettere a rischio la propria.
– Sai, non capisco proprio da che parte stai – dissi rassegnato. Anzi, di più: stanco. Quella conversazione era la più estenuante che avessi mai avuto. – Non capisco se vuoi aprire la strada ai tuoi successori, o se intendi portare l'attenzione pubblica sul problema e fermarlo.
– Oh, tu non ascolti – fece lui, contrariato. – Tu non ascolti, ti ho detto che non voglio nulla, non mi importa. Non mi importa come finirà qui, oggi, e non mi importa che messaggio ne trarrà la gente domani. Il senso, il significato... non mi riguarda.
Philip sollevò la valigetta dalle ginocchia e la posò sul tavolo, accanto al bicchiere che aveva già vuotato nel corso della nostra conversazione. Armeggiò con la chiusura della valigetta. Non sapevo se aveva intenzione di mostrarmi ancora quanto fosse concreta la sua minaccia, o se si fosse già indispettito a tal punto da metterla in atto, ma io non avevo più intenzione di stare alle sue regole, di cercare disperatamente di tenerlo in stallo per evitare qualcosa che in fin dei conti era inevitabile.
Lui, in fondo, aveva già deciso. Se non lo faceva, non sarebbe stato Dio, e tutte le sue pretese di esserlo sarebbero risultate vane.
E io avevo un'idea che forse avrebbe salvato tutti.
Mentre era distratto con la valigetta, mi alzai in piedi e urlai: – Ha una bomba!
Il panico si diffuse rapidamente.
Iniziò da quelli che ci stavano più vicini, che potevano vedere la sua valigetta, quella valigetta posata sul tavolo e legata al suo polso da una catenella, chiaro segnale che doveva contenere qualcosa di molto prezioso, o di molto pericoloso. Nel dubbio, e guidati nell'interpretazione dal mio urlo, uomini e donne si girarono e si pigiarono contro i vicini, sgomitando e ripetendo il mio urlo che percorse la folla come un'onda, e tra le grida ripetute si mossero tutti, scontrandosi, spingendosi, lottando per uscire dallo stretto passaggio rappresentato dalle porte aperte. Scorsi corpi schiacciati contro le vetrate del locale, ragazzini che si erano rifugiati sotto i tavoli, piangendo, nella speranza di non essere calpestati dalla massa urlante.
L'uomo con la valigetta si alzò e mi rivolse uno sguardo severo. – Scelta sbagliata. Ma ricordati: qualunque cosa accada, lo hai voluto tu.
Per un istante, un terribile istante temetti che avrebbe aperto la valigetta e infranto una delle sue fiale, liberando chissà quale virus dagli effetti devastanti. Invece l'uomo si voltò e si mescolò alla folla. Non lo fermai. Forse perché credevo che non sarebbe riuscito a passare in mezzo alla calca, sembrava impossibile, e invece quelli che lo vedevano, con la sua valigetta stretta tra le braccia, si facevano indietro, inorriditi, rischiando di travolgere chiunque si trovasse alle loro spalle, salvo poi essere spinti di nuovo in avanti da questi ultimi e richiudere il passaggio, impedendomi così di seguirlo. Quando uscii, assieme a qualche fortunato che aveva trovato rifugio nei bagni del locale dove si era chiuso a pregare e sperare, una fila di ambulanze parcheggiate di fronte al bar già rischiarava la notte con i suoi lampeggianti accesi. Squadre di paramedici erano affaccendati a caricare barelle di feriti calpestati dalla folla in panico, o caduti sui frammenti di un bicchiere. A terra, un paio di sacchi neri, e in uno, prima che lo chiudessero, intravidi i capelli scuri della cameriera carina.
L'uomo con la valigetta non si vedeva da nessuna parte.
Mentre me ne stavo lì istupidito, in piedi tra le luci lampeggianti e il dolore di chi fino a poco prima non aveva altra preoccupazione al mondo che trovare un posto a sedere per gustarsi un caffè, qualcuno mi urtò da dietro. Mi voltai di scatto, ma non era l'uomo con la valigetta, non era Philip.
Tuttavia, infilando le mani nelle tasche della giacca, vi scoprii un foglietto che prima non c'era. Lo trassi di tasca e lo lessi, nel bagliore lampeggiante che oscurava la luminescenza soffusa proveniente dalle vetrate del bar, e la tingeva a tratti di una tinta fosca.
"Te lo avevo detto" c'era scritto nel biglietto. "Io non vorrei avere sulla coscienza la morte di quella cameriera così carina, ma a quanto pare, a te non importa. Allora, come ci si sente a essere Dio?"

lunedì 24 ottobre 2022

Il tempo alla fine del tempo


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Tutte le cose sono più belle quando stanno per finire. L'autunno che tinge d'oro e di cremisi i lunghi viali alberati o i boschi sui declivi dei colli è il canto del cigno delle foglie. Così la nostalgia rende più vivido e più dolce il ricordo all'approssimarsi della nostra ora.
Avevo rifiutato il posto che era stato riservato a me su una delle tre navi generazionali che erano partite qualche giorno fa per concludere il mio tempo sulla terra dove ero nata e cresciuta. Lasciate che partano i giovani, avevo detto a quei parrucconi dei senatori, noi abbiamo fatto il nostro tempo. Quasi nessuno aveva seguito il mio esempio. Egoisti schifosi.
Soffoco un moto di stizza, ormai è tutto passato, tutti i doveri, tutte le responsabilità, le conferenze stampa con i giornalisti e le uscite in pubblico per dimostrare il mio supporto a questa o quella causa, gli accordi sottobanco e le feroci discussioni con i rappresentanti dello schieramento avverso. Privata di tutti questi inutili orpelli che paiono così necessari per una figura pubblica quale io ero, la vita si è ridotta all'essenziale. Non mi serve molto.
Mi sono ritirata nella mia casa in collina, dalle cui finestre godo di una magnifica vista su un bosco autunnale. È il tempo dell'estate indiana. Camila, la mia domestica di origine ispanica che nel corso degli anni è diventata la mia confidente e quasi un'amica, è rimasta con me in questa casa. Non ha famiglia, e ormai, con i miei due figli e una nuora e un nipote in salvo sulla nave generazionale, lei è tutta la famiglia che resta a me. Abbiamo scorte che possono durare per mesi, un generatore e pannelli solari. Ho i miei libri, un'intera stanza del nostro rifugio funge da biblioteca, e ora ho tempo. Tempo per tutti quei volumi che avevo messo da parte, sempre presa dagli impegni e dalla frenetica corsa quotidiana. Attendevo la pensione per leggerli, così mi dicevo, ben consapevole che anche allora la mia vita sarebbe stata fin troppo occupata.
Serviva la fine del mondo per ricondurmi a ciò che conta davvero.
Camila mi serve il tè, e nel suo sorriso e nel contatto delle mie vecchie dita con la tazza fumante c'è tutto il calore di cui ho bisogno.
– Tutto a posto, signora? – mi chiede lei.
Inspiro la fragranza del tè e annuisco. – Tutto a posto Camila, ma niente formalismi, per favore. Siediti qui con me se lo desideri.
Lei si prende un momento, accende lo stereo e fa partire uno dei suoi dischi, la registrazione di una melodia di chitarra lenta e struggente, un suono garbato, vivacizzato da alcuni passaggi più rapidi e gioiosi. Afferra dallo scrittoio il suo album da disegno, una matita, e si siede con me al tavolino di fronte alla finestra, con una tazza di tè fumante posata davanti. Non legge Camila, il suo spirito ha altre necessità, ma come me, la vita l'aveva sempre costretta a rimandarle. Non l'avevo mai vista disegnare prima del nostro ritiro in quel tempo rallentato, più consono a un'esistenza umana della frenetica rapidità a cui l'epoca moderna abituava fin da bambini. Forse disegnava nei vari ritagli di tempo tra una mansione e l'altra, ma io non l'avevo mai vista.
Avevamo un posto d'onore per quel che sarebbe accaduto, ma intanto, ci godevamo la pace scesa sul nostro angolo di terra. La fine che era stata predetta, come ogni fine, rendeva più incantevole, più preziosa la vita che ci rimaneva e questo nostro piccolo, unico pianeta che avevamo sempre dato per scontato.

sabato 22 ottobre 2022

Aura

Aura [àu-ra] s.f. 1. lett. Vento lieve, brezza; estens. aria. 2. fig. Atmosfera, suggestione; anche alone di quasi sacralità. 3. med. Insieme di sintomi che preannunciano una crisi epilettica, isterica o d'emicrania.

Etimologia: dal latino aura, a sua volta proveniente dal greco aúra, entrambi col significato di "soffio di vento, brezza".



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La calura era insopportabile quell'anno, perciò quando ero costretta a uscire di casa, impregnavo di potere alcune parole che conoscevo e le liberavo nell'aria, e immancabilmente, nel giro di qualche minuto, si levava un'aura gentile che accompagnava ogni mio passo, più fresca di una comune brezza in quella stagione. Qualcuno lo avrebbe definito un incantesimo, ma chi come me conosceva la magia della natura, avrebbe potuto ribattere che quella era una semplice richiesta. O una preghiera, a essere in vena di misticismo.
I giorni si confondevano nella memoria in quel periodo, quando lui non era con me. Ma uno lo ricordo bene, uno spicca indimenticabile al di sopra della nebbia che ha inghiottito gli altri. Percorrevo il vialetto del parco di ritorno a casa, le mani impegnate a reggere le borse della spesa e un refolo fresco che mi sospingeva indietro i capelli, dandomi un po' di refrigerio. Dall'altro cancello, in direzione opposta, procedeva una ragazza dai capelli castano chiaro, con un sacchetto di plastica in cui s'indovinavano le sagome di alcuni libri stretto tra le braccia. Non era la sola persona a venirmi incontro da quel lato del parco, ma la notai in mezzo agli altri per l'aura che la circondava: un bagliore argenteo venato da un potere grezzo, rudimentale, come un quarzo appena portato in superficie dalle profondità della terra. Era uno scudo solido, una protezione mi resi conto nell'avvicinarmi. L'effetto di un incantesimo.
Non avevo mai incontrato qualcuno che sapesse fare ciò che sapevo fare io.
Quando i nostri sguardi si incrociarono lei si bloccò e le sue labbra si schiusero in un'espressione di stupore. Capii così che era visibile ai suoi occhi la richiesta che io avevo fatto all'aria, e che era stata proprio lei a dare vita alla cappa di magia che la attorniava, e non un misterioso benefattore rintanato altrove.
Ci presentammo, impacciate e sorprese. Atena, così volle che la chiamassi, divenne la mia prima apprendista, e la mia prima insegnante.

giovedì 20 ottobre 2022

Profanata


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Il primo indizio che il nostro idillio non sarebbe stato tale per sempre lo ricevemmo al nostro terzo autunno a Tana del Diavolo. Era così che la gente del posto chiamava la collina, ed era così che avevamo nominato, quasi per scherzo, il nostro piccolo villaggio di appena dieci casupole.
Con il senno di poi, avremmo dovuto prestare più attenzione ai segnali della toponomastica.
Voglio parlarti di quella notte, una notte di fine ottobre. La notte in cui Alice scomparve.
Aveva promesso a Rosaura e a Miraela di aiutarle con un nuovo rituale che prevedeva la presenza di un trio, ma a casa di Rosaura, Alice non era mai arrivata. Quando non la trovarono nemmeno a casa sua, nel suo letto, le due donne vennero a svegliarci.
– Si sarà dimenticata e se ne sarà andata in giro a inseguire uno dei suoi gatti – brontolò Ingrid, che per quella notte non aveva altro programma se non quello di tornare a letto.
Scossi la testa. – Alice? Io non credo.
Se faceva una promessa, Alice la manteneva. Inoltre, adorava esercitare la magia, tra noi era sempre la prima a mettersi alla prova con un nuovo insegnamento dei nostri angeli, e non avrebbe perso per nulla al mondo l'occasione di far parte di un trio. No, doveva esserle accaduto qualcosa.
– Guardate là! – disse Rosaura, e indicò il bosco. Più in basso lungo le pendici della collina, a destra del villaggio, baluginava tra i rami dalle foglie rade uno scintillio rossastro.
Capimmo subito che si trattava di un fuoco, e che Alice si trovasse là o meno, era nostro dovere andare a indagare e, se le fiamme minacciavano di propagarsi, a spegnere quel principio d'incendio. Non sarebbe stato difficile: con quello che sapevamo, l'estate prima avevamo domato fiamme anche più alte ed estese, quando un fulmine aveva colpito un vecchio abete stillante di resina.
La luna piena quella notte illuminava i nostri passi quanto le lanterne che avevamo portato con noi nel bosco. In quella luce spettrale, le foglie d'autunno cadute a terra e quelle che pendevano dai rami più bassi risplendevano dei colori del fuoco, mentre in alto e lontano dal nostro cammino si confondevano nell'oscurità. Il bagliore che dall'alto ci aveva indicato la via era scomparso tra i tronchi, ma comprendemmo di non essere troppo fuori strada quando lo vedemmo ricomparire alla nostra sinistra, in mezzo agli alberi. I bagliori erano più di uno, sparsi a terra e alla nostra altezza. Ci affrettammo.
Non era un incendio.
Innumerevoli candele bruciavano al riparo di un rudere, a malapena una parete di assi di legno sfondate da un tronco caduto e tre o quattro colonne che come i resti di un antico tempio reggevano con tenacia quel che restava del tetto. Zucche intagliate con sorrisi inquietanti facevano capolino qui e là tra una nebbia liquida, composta di vapori nauseabondi che fuoriuscivano da un calderone ribollente al centro di quell'inquietante scena. E ovunque, gatti, molti di più di quelli che vivevano in casa di Alice e nei suoi dintorni, si aggiravano sinuosi e indolenti, con gli occhi che risplendevano alle fiammelle delle candele.
Alice era in piedi, di spalle, affaccendata a vagliare il contenuto di bottiglie e sacchetti posati su un tavolino ingombro. I suoi capelli biondi erano scarmigliati e in disordine, i suoi abiti strappati in più punti, ma da quel che potevamo vedere, non sembravano esserci ferite sotto quegli strappi.
Un corvo che beccolava da un piatto di legno posato sul tavolo gracchiò al nostro arrivo.
– Alice? – Ingrid riuscì a dire solo quello, poi si tappò il naso e si protesse la bocca con una mano per difendersi dal miasma che emanava dal calderone.
Mi guardai indietro: Miraela non osava avvicinarsi, e Rosaura era rimasta indietro a confortarla. Sembravano entrambe molto spaventate.
– Tesoro, stai bene? – le chiese Clara, avvicinandosi a lei.
Alice non si voltò, ma bloccò le mani che fino a quell'istante avevano danzato in una ricerca frenetica tra gli oggetti sul tavolo. Inclinò la testa da un lato.
– Alice? – sussurrò, come a fare il verso a Ingrid, ma la sua voce era strana, stridente, come il verso di una cornacchia.
Clara esaminò gli strappi dei vestiti sulla sua schiena, poi la costrinse a voltarsi e le pose le mani sulle spalle. Lo sguardo di Alice era stralunato, la sua espressione assente.
Nel frattempo, tranne Ingrid, Rosaura e Miraela, ci eravamo avvicinate alla spicciolata, una alla volta, man mano che racimolavamo il coraggio di farlo.
– Tesoro – disse ancora Clara. – Che cosa ti è successo, puoi dircelo?
Alice rimase immobile, silente. I gatti ci camminavano tra le gambe, e ogni tanto qualcuno miagolava lievemente.
– Vieni, ti portiamo a casa – mi azzardai a dirle io. Me ne pentii subito. Qualunque cosa l'avesse ridotta in quello stato, doveva essere avvenuta a casa sua.
Gli occhi spenti di Alice si fissarono su di me, e dalle labbra le sgorgò una risata vuota. Poi, con la stessa voce sgraziata da cornacchia, rovesciò su di noi parole rapide, che rotolavano l'una nell'altra fino a confondersi: – La mia casa non è la mia casa io non sono più io. Rovesciata morsa gettata dentro è fuori fuori è dentro!
Ci scambiammo sguardi sbigottiti, mentre il suo folle discorso si riduceva a un mormorio ripetuto: – Profanata... profanata... la casa profanata, la testa profanata... tutta... tutta profanata...
Clara alzò una mano per accarezzarle una guancia. – Che cosa ti ha fatto? – considerò, esprimendo quello che ormai tutte pensavamo. I nostri affascinanti angeli, dai quali così tanto stavamo apprendendo, erano creature di immenso potere, ma fino a quella notte non avremmo mai potuto immaginare che lo avrebbero usato anche per il male.
Eppure ci avevano detto di non avere alcun limite.
Quando Clara ripeté la domanda, con dolcezza, Alice di scatto le afferrò la mano, le rivolse gli occhi folli e sbottò: – Volevo sapere... volevo di più... volevo... volevo... – La sua voce mutò in un timbro beffardo: – La curiosità ha ucciso il gatto, lo sai, vero? Ha ucciso... il gatto...
Fu Ingrid a muoversi, sbuffando un: – Adesso basta! – ci urlò di allontanarci da Alice e poi le lanciò una manciata di polvere soporifera.
Alice crollò a peso morto tra la nebbia maleodorante.
Spegnemmo tutti i fuochi, poi la portammo a casa di Clara, che vegliò su di lei per tutta la notte. Chi riuscì a farlo, dormi sul divano o sulle poltrone in casa di Clara, perché non ce la sentivamo di stare da sole, non quella notte.
Alle prime luci dell'alba Ingrid e Julia andarono a casa di Alice e trovarono un gatto nero, uno dei suoi, sventrato e inchiodato a una parete. Non capimmo mai se fosse stato il suo angelo, oppure la stessa Alice, nella sua follia, a farlo. Lo tirarono giù e lo seppellirono, e fortuna che Miraela e Rosaura, nel buio, quando erano andate a cercare Alice quella notte, non lo avevano visto.
Alice si riprese, ma non fu più la stessa. Non menzionò più l'accaduto, e quando le chiedevamo qualcosa a riguardo ci guardava stupita e confusa, come se non ricordasse nulla di quella notte; però divenne più misteriosa, con una certa vena di follia che sembrava esserle rimasta appiccicata addosso, e che talvolta sconfinava nella saggezza. Bruciò i suoi vestiti colorati, e altri li tinse di nero, e non indossò più altra tinta che quella.
Circondata perennemente dai gatti, con i suoi lunghi abiti neri, se avessi dovuto identificare una strega tra le donne di Tana del Diavolo, avresti senza dubbio detto che la strega era lei.

lunedì 17 ottobre 2022

In viaggio nel tempo


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Guardai fuori dal finestrino della carrozza. Pioggia. Strade lastricate. Lampioni alimentati a gas.
Londra, seconda metà del diciannovesimo secolo. La metà migliore dell'epoca vittoriana.
Avrei voluto dire che mi ero trovato in situazioni più strane, ma sarebbe stata una bugia.
Quella sera lo trovai fuori dalla porta del mio appartamento con addosso quel che pareva un abito d'epoca, panciotto sotto una giacca di velluto, pantaloni coordinati, scarpe nere e lucide e un soprabito lungo. Sottobraccio, un cappello a cilindro e un involto di stoffa, che adagiò con cura sul divano.
– Indossalo – disse soltanto, indicando l'involto di stoffa.
Dentro, un completo simile al suo, ma laddove il suo era nero, il mio era di una sfumatura che ricordava il colore dei miei veri occhi, dietro le lenti colorate, e delle squame che avevo scoperto di avere sottopelle.
– Andiamo a un ballo in maschera? – gli chiesi. I suoi occhi, neri e profondi, sembrarono accendersi di un bagliore divertito. Non mi rispose, perciò feci spallucce e mi cambiai.
Quando fui pronto, indossò il cilindro in testa, e ne calcò uno identico sulla mia. Lui sembrava perfettamente a suo agio in quegli abiti, signorile ed elegante come se non avesse mai messo altro. Io mi sentivo ridicolo.
– Bene. Conosci la teoria, e ti ho portato con me in un paio di salti – esordì lui, avvicinandosi.
– Sì, e me la sono cavata piuttosto bene per uno che pensava di essere umano fino a un paio di mesi...
– Questo sarà diverso – mi interruppe lui. – Il nonspazio, la dimensione di passaggio per attraversare le distanze, è vasta esattamente quanto si estendono i corpi che la occupano temporaneamente, e non di più. Lì esiste solo il tempo, in assenza di spazio. Il nontempo, al contrario, è infinito. Ma è privo di tempo, e tutto accade nel medesimo istante. L'unico modo di navigarlo è tramite una forte volontà di agire. – Sospirò e mi prese sottobraccio. – Ho visto invasori che speravano di sfruttare altre epoche per i loro scopi, bloccati per sempre nell'unico istante del nontempo, statue viventi eternamente sospese. Perciò non lasciarmi, o sarai perduto.
– D'accordo – mormorai di rimando.
Ottimo, proprio il discorso che mi serviva per sentirmi più tranquillo. Non lo dissi, ma era logico supporre che lui avesse sentito lo stesso quel pensiero. Ero ancora un principiante con le barriere mentali.
Lui allungò un braccio dietro la mia schiena e mi trasmise l'immagine di un vicolo, muri di mattoni e una torre con un orologio in lontananza, appena visibile tra la nebbia.
– Va bene. Possiamo andare, ce l'ho – gli dissi, aggrappandomi all'immagine tridimensionale con tutta la forza della mia concentrazione.
Il passaggio attraverso il nonspazio si chiamava "salto" perché tanti lo eseguivano prendendo la rincorsa e poi saltando davvero prima di sparire. Per lui no, non era mai stato così.
A lui bastava fare un passo.
Un passo, e fui risucchiato in un altrove inspiegabile. Non il lampo di gelido buio del nonspazio. Un'eternità sfocata, un universo capovolto abitato da scie che mi sfioravano, mentre la mia stessa immagine si moltiplicava e non capivo più se ero quello prima o quello dopo o quello che ancora doveva venire, e nella confusione quasi persi l'immagine su cui dovevo concentrarmi, ma le mie barriere erano abbassate e lui la forzò di nuovo dentro di me, sovrastando le urla che sapevo venire da una di quelle statue di cui lui mi aveva parlato, e altre voci, no, pensieri, più lieti ma annebbiati, e immagini di altri luoghi e altri tempi a cui altri si stavano aggrappando in quella traversata. L'aria era densa, quasi liquida, e la luce abbagliante, ma all'improvviso l'immagine nella mia mente divenne più reale di quell'incubo, calò l'oscurità e di certo sarei caduto a terra nell'atmosfera rarefatta, se non ci fosse stato il suo braccio a trattenermi.
Ero nel vicolo.
Lui mi rivolse una breve occhiata, forse per assicurarmi che stessi bene, poi sciolse l'abbraccio e mi invitò a seguirlo verso la strada principale. Si era ripreso molto più in fretta di me. Io sbuffai, lo affiancai e lasciai che mi guidasse. Resistetti all'impulso di tapparmi il naso per l'odore intenso, di stalla o di qualcosa di simile, a cui non ero abituato. Più avanti, sentii lo scalpiccio degli zoccoli e il cigolio delle ruote prima ancora di vederle.
Nell'alone dei lampioni a gas ovattato dalla nebbia, una carrozza mi passò così vicino che quasi mi travolse. Trattenni con una mano il cilindro e soffocai un'esclamazione colorita del ventunesimo secolo.
– È... è tutto vero, insomma, non siamo sul set di un film? – bisbigliai mentre camminavamo assieme lungo strade nebbiose. La torre che avevo intravisto era il Big Ben, il che mi dava almeno un'idea precisa di dove eravamo, anche se non avrei saputo dire esattamente quando. Un paio di secoli prima era il mio azzardo, prima che lui mi desse qualche riferimento più preciso.
– La mia città e la mia epoca preferita – concluse. – Vengo spesso qui.
Lo scrutai nella luce dei lampioni, chiedendomi ancora una volta quanti anni avesse. Mi aveva spiegato che quelli come noi potevano in teoria vivere all'infinito, ed esibire l'età umana che preferivano, entro certi limiti, perciò sapevo che la giovinezza del suo volto era un'illusione, e d'altra parte la sua calma imperturbabile, i suoi modi e soprattutto i suoi occhi scuri, che davano l'impressione di appartenere a una creatura antica, rivelavano che doveva essere molto più vecchio di me.
– La tua preferita... perché ci sei nato? – indagai. La mia ipotesi gli dava poco meno di duecento anni, plausibile, data l'impressione che mi faceva.
– La mia età non può essere calcolata con nessuna unità di misura – rivelò infine, mentre svoltavamo a un incrocio, dopo il passaggio dell'ennesima carrozza. – Sono nato e cresciuto nel nontempo. Mia madre è la Guardiana di quella dimensione, l'ultimo baluardo contro gli invasori davvero determinati a portare scompiglio tra le epoche.
Rabbrividii. Da qualche parte, le campane di una cattedrale batterono una serie di cadenzati rintocchi, e un cavallo di passaggio nitrì.
Il mio primo pensiero: ma allora è davvero molto più vecchio di quanto immaginassi!
Il mio secondo: come può un bambino crescere in quella dimensione di pura confusione, privato del tempo, privato di tutto.
Non feci in tempo a provare pietà per lui. Lo scroscio di pioggia fu improvviso e, oserei dire, provvidenziale.
Lui mi afferrò per un braccio e mi condusse a rifugiarmi nella prima delle carrozze parcheggiate a lato della strada. Non sentii nemmeno il nome della via o piazza che disse al vetturino, ma almeno capii che dovevamo essere nell'equivalente di un taxi per quell'epoca.
– Giro panoramico – mi disse lui, e io mi allungai verso il finestrino per osservare i monumenti, i palazzi, le chiese. Se mi avessero detto, qualche mese fa, che avrei fatto il turista nel tempo, non ci avrei mai creduto.
Ma d'altra parte, qualche mese fa, pensavo ancora di essere umano, e che non potessero esistere creature antiche e misteriose come quella che mi sedeva accanto.

sabato 15 ottobre 2022

Bislacco

Bislacco [bi-slàc-co] agg. (pl.m. -chi, f. -che) Di chi si comporta in modo strambo; stravagante, bizzarro; estens. che è privo di logica, di razionalità; balzano.

Etimologia: etimologia incerta, forse dal dal veneto bislaco, soprannome che si dava ai Veneti del Friuli e agli Slavi dell'Istria, dallo sloveno bezjak, "sciocco"; oppure è un'alterazione del termine sbilenco "storto, deforme", con la sostituzione del falso suffisso "-enco" con "-acco"; per altri invece sarebbe formato dall'unione del suffisso latino bis, "due volte", usato con valore peggiorativo, all'antico tedesco lanca, "coscia, lato, fianco", o all'antico tedesco slach, "debole, floscio", o al latino laxus, "sciolto, rilassato", a indicare nel primo caso qualcuno che zoppica, e negli altri due un'indole pigra e vile.



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Non avevo mai avuto amici. Compagni di classe, sì. Amici, mai.
Il motivo era da ricercare nella storia della mia famiglia, che come tutte le antiche stirpi che ancora abitavano in vecchie magioni e rifiutavano di cedere le usanze ancestrali in cambio delle nuove mode, aveva fama di essere composta da gente piuttosto bislacca. Una specie di famiglia Addams, insomma. Questo pensavano di noi.
Non lo si sarebbe detto di me, in una normale mattinata di scuola; ma, volente o nolente, ero costretta a condividere agli occhi degli altri i tratti che rendevano la mia famiglia tanto particolare e discussa.
E così giravano chiacchiere, e gli altri ragazzi mi rivolgevano domande indiscrete, a tratti ironiche e in altri casi maliziose.
Tipo, se era vero che ci sposavamo tra cugini, perché doveva senza dubbio essere stato questo a renderci un po' tocchi; oppure se le donne della mia famiglia invocavano il diavolo e danzavano nude al chiaro di luna. A peggiorare la situazione, ero molto più brava di loro in tutte le materie, il che contribuì non poco a isolarmi.
Marta era stata l'unica ad avvicinarmi, forse per approfittare delle mie doti per lo studio, o più probabilmente per poter sbirciare che cosa succedeva davvero dietro la porta chiusa di casa mia. Aveva trovato molto di più di ciò che sperava di ottenere, perciò mi aspettavo che da un momento all'altro la fama della mia famiglia passasse da simpaticamente bislacca a orribilmente sinistra; e invece, Marta non disse nulla.
A scuola continuò come al solito. Occhiate silenziose, nessuna parola.
Mi cercò al mercatino dell'antiquariato della terza domenica del mese, certa di trovarmi tra i banchetti di cianfrusaglie. Mi prese per un gomito, separandomi dalla mia famiglia.
– Giovedì a casa tua? Noi due dobbiamo parlare.
Non mi lasciò nemmeno il tempo di annuire, e sparì tra la folla. La vivace, spontanea, e ciarliera Marta.
Beh, se non era un comportamento bislacco questo!

giovedì 13 ottobre 2022

Conservanti


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Dovevo immaginarlo che non avrei trovato pace nella sala comune della Casa dei Coralli. Quando ero scesa, dopo colazione, c'era solo uno degli ospiti temporanei dell'avamposto, un viaggiatore di cui non avevo afferrato bene il nome, che stava leggendo un libro. Io non l'avrei disturbato e lui non avrebbe disturbato me, mentre mi perdevo nella contemplazione dell'immenso oceano, dei suoi banchi di pesci guizzanti, dei granchi che vagavano tra i coralli cresciuti fin quasi ad abbarbicarsi alle pareti di vetro dell'hotel sottomarino. Avevo studiato la storia del posto: una volta, prima della guerra e della caduta del mondo, era stato un posto di gran lusso, un luogo destinato a pochi, conosciuto con il nome altisonante di "Grand Hawaian Hotel Marine Excelsior Resort" o qualcosa del genere. Adesso era solo la Casa dei Coralli, uno dei tanti avamposti al di fuori delle cupole sottomarine che mantenevano al sicuro le nuove città dei Veri Umani. Un posto isolato per gente strana, fuori di testa, o semplicemente misantropa. Il posto adatto per me.
Lasciavo che pensassero che fossi strana perché me ne stavo tanto a lungo in silenzio a fissare i pesci, anche se non era questo il vero problema con me. Ad ogni modo, me ne stavo tranquilla mezzo sdraiata sul divanetto da appena tre passaggi di banchi di alici, equivalenti più o meno a cinque minuti, quando Jalyne entrò come una furia con una pesante cassa di vecchi barattoli, i capelli ancora bagnati.
– Dove l'hai trovata quella roba? – fece diffidente il vecchio Sonar, un ometto tarchiato dai pazzi riccioli grigi in testa, che era praticamente diventato il proprietario di Casa dei Coralli per essere stato lì da molto più tempo di tutti noi messi assieme.
– In un relitto. – Jalyne lasciò cadere la cassa sul tavolino e iniziò a esaminare i barattoli di vetro a uno a uno, scuotendoli e cercando di leggere qualcosa sulle etichette sbiadite. – A nord. Forse c'è ancora qualcosa di commestibile, potrebbe essere una fortuna...
Sonar le strappò di mano un barattolo di sottaceti. – Commestibile? Ti rendi conto di quello che dici? Questa è roba da prima!
In un angolo, il nostro ospite lettore levò gli occhi dalle pagine del libro, e per un istante temetti che si sarebbe intromesso nella discussione. Ma quello si limitò a un sorrisetto e si rituffò tra le pagine.
– E allora? Erano a lunga conservazione, se l'acqua non è entrata... – Jalyne si morse il labbro inferiore. Aveva capito subito di essersi data la zappa sui piedi.
– A lunga conservazione, appunto – fece Sonar in tono solenne. – Con-ser-van-ti.
Il vecchio lo scandì ben bene. A questo punto, forse farei meglio ad aggiungere che Sonar non era il suo vero nome. Lo chiamavamo così perché era un po' suonato: aveva delle teorie tutte sue sul modo in cui era finito il vecchio mondo.
– È grazie a questa roba se sono cominciati a spuntare i mutati. Vuoi che ti nasca un figlio con due teste, Jalyne? O un Acquatico, o dio non voglia, un Gargoyle? Lo sai quante ne sono morte perché avevano uno di quegli esseri dentro?
L'immagine fece rabbrividire Jalyne. Sonar stava esagerando. In realtà, da quanto ne sapevo io, non era mai morto nessuno per aver partorito un mutato, ma era facile incolpare il mostro per una normale complicazione. Ma non lo dissi. Preferivo non schierarmi in quella diatriba, e soprattutto, non schierarmi dalla parte dei mutati.
Mantenevo un basso profilo, era così che sopravvivevo.
– Che cosa dovrei fare? Riportare tutto dove l'ho trovato? – chiese Jalyne, imbronciata. E, sottovoce, aggiunse: – Dopo tutta la fatica che ho fatto...
– Fa' come vuoi – brontolò il vecchio, alzando una mano in aria. – Io non mangerò quella roba, e di sicuro non la darò ai miei ospiti. Io non avveleno la gente – fu il suo ultimo sibilo, prima di andare ad appoggiarsi alla colonna a braccia conserte, lo sguardo rivolto a un gruppo di spugne e attinie che facevano da rifugio ai pesci pagliaccio.
Fu solo a quel punto che mi feci avanti. – Dalla a me, la mangio io.
Sonar si volse con un sopracciglio inarcato.
– Ho già detto che non voglio avere bambini, è per questo che sono qui – mi giustificai di fronte alla sua muta protesta. – Così i conservanti non danneggeranno nessuno, e potrai risparmiare per qualcun altro i miei prossimi pasti.
Sonar fece spallucce. Me ne andai portando con me la cassa piena di barattoli.
Avevo dato loro a intendere di essere fuggita dalla città perché mi rifiutavo di sottopormi al programma di ripopolamento. Il mio genoma risultava essere tra i più puliti da anomalie, tra i più vicini all'ideale di un perfetto Vero Umano, perciò sarei stata la candidata ideale per il programma, ma io non avrei mai potuto farlo. Quel marchio di approvazione era vero soltanto sulla carta.
Posai la cassa sulla scrivania, chiusi a chiave la porta della mia stanza e mi avvicinai alla grande finestra che dava sull'esterno. La vista non era magnifica come quella che si poteva ammirare dalla sala comune, più vicina al fondale e alla vita che brulicava tra i coralli, ma poteva andare.
Alla mia nascita avrebbero dovuto gettarmi fuori dal primo boccaporto, ma mia madre pagò l'ostetrica per il suo silenzio. Fu lei a procurarci dei campioni di sangue da una bambina perfetta, nata pochi giorni prima di me, da consegnare per gli esami e l'approvazione al mio diritto alla vita. Dopo tanti anni avevo cercato quella donna per ringraziarla, perché aveva mantenuto così a lungo il segreto, ma scoprii che pochi giorni dopo la mia nascita, di ritorno da una visita in periferia, la donna era caduta in un pozzetto di scarico ed era annegata.
Una testimone in meno di cui preoccuparsi.
Da sola, di fronte all'oblò, mi tolsi la veste e lo scintillio delle squame sui miei fianchi si rifletté sul vetro. Era poca cosa, non sufficiente a definirmi un'Acquatica: due file spesse un centimetro su ogni lato, che si assottigliavano fino a sparire sulla pancia e sulla schiena. Altrove, la mia pelle era del tutto normale. Persino le minuscole branchie dietro le orecchie, che nascondevo sempre con un fazzoletto che portavo in testa, erano un orpello inutile, branchie vestigiali, che non mi consentivano di restare più a lungo immersa senza respirare. Per quanto mi riguardava, io ero umana. Eppure non potevo permettermi di conoscere la vera intimità con un uomo, e non avrei mai trasmesso i miei geni sbagliati per nulla al mondo. Su questo, agli altri, non avevo mentito.
Mi misi una vestaglia da camera e mi sedetti alla scrivania a esaminare i vecchi barattoli, per separare quelli ancora commestibili da quelli no. A differenza di Sonar, non ho mai pensato che siano stati i conservanti nel cibo delle generazioni precedenti a mutare il DNA dei sopravvissuti, a fare di me quello che ero. Era più probabile che fossero state le radiazioni, e quelle non si prendevano da un vecchio barattolo finito nell'oceano molto prima del disastro che aveva reso inabitabile la terra. Ero a metà della mia disamina quando un po' di trambusto proveniente dal corridoio mi mise in allarme. Mi rivestii, mi accertai che le squame e le branchie fossero ben coperte e seguii gli altri ospiti ai piani inferiori.
Nella sala comune un drappello di ospiti e residenti circondava un uomo accasciato a terra, in affanno, grondante acqua salata. Aveva ancora le bombole sulla schiena, segno che doveva essere appena entrato dal boccaporto, e dall'indicatore dell'ossigeno quasi a zero doveva aver nuotato a lungo, venire da molto lontano. Chissà perché. mi venne in mente la cupola da cui anch'io provenivo.
– Hanno attaccato la città – ansimò l'uomo, dardeggiando nei dintorni occhiate folli.
– Calmati ragazzo – gli disse Sonar, e fece un cenno a Jalyne affinché andasse a preparargli un tè di alga nera.
– Chi? Cosa? Come? – vociò la folla, prima che Sonar potesse chiederlo.
– Gargoyle... e... Acquatici – rispose l'uomo in affanno. Poi vomitò le parole che aveva trattenuto per tutto il viaggio attraverso le pericolose profondità del mare: – Sono entrati dagli scarichi, hanno sfondato i vetri, hanno rapito gli scienziati, annegato tutti gli altri... oddio... oddio...
Si passò una mano sul volto e non parlò più, lo sguardo perso nello shock di quei ricordi. "Non è possibile" dicevano gli altri. Ascoltai inespressiva i loro commenti.
Tutti sapevano che gli Acquatici erano pacifici, e dotati di scarso intelletto, le mucche dell'oceano li chiamavano, nonostante nessuno avesse più visto una mucca da almeno un secolo, se non nei pochi libri e filmati che si erano salvati e conservati nei musei. Quanto ai Gargoyle, eravamo al sicuro perché non potevano respirare sott'acqua. Una collaborazione tra le due specie di mutati era una cosa inaudita, impensabile, eppure, stando a quanto aveva detto l'uomo, era accaduta.
E stava accadendo alle altre cupole, ci informò Jalyne, che aveva sentito via radio i messaggi dalla Tana delle Tartarughe, dal Rifugio delle Sirene e persino dal Motel Subterra. Tutti gli avamposti stavano accogliendo sopravvissuti dalle cupole più vicine che ripetevano la medesima storia.
Era il Giorno della Rivalsa per i mutati.
Ma per me, la situazione era grave. La gente iniziava a infervorarsi, e il loro odio nei confronti dei diversi cresceva. Ora più che mai dovevo proteggere il mio segreto.
Non mi avrebbero mai visto come mi vedevo io. Io ero stata cresciuta da mia madre, e mi sentivo, come una Vera Umana, solo con qualche gene fuori posto che non avevo intenzione di trasmettere a nessuno. Ma loro mi avrebbero identificato come un'Acquatica, come una nemica dell'umanità.
Nemmeno Sonar avrebbe più creduto che ero solo un'innocente vittima dei conservanti.

lunedì 10 ottobre 2022

Troppo giovane


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Ogni volta che guardavo fuori dal finestrino di un aereo, mi tornava in mente il mio primo viaggio. Ero con mio padre, e stavamo solo andando in uno stato confinante, ma quello per me fu un grande passo. Dicevano che ero troppo giovane per iniziare a prendere parte agli affari di famiglia. Ipocriti.
Mia cugina, poco più che una bimbetta scalciante all'epoca di quel mio viaggio, aveva partecipato al suo primo duello quando di anni ne aveva undici, due in meno rispetto a me, e nessuno aveva avuto da ridire. Ma lei era quella normale. Aveva dimostrato fin da bambina di avere ereditato il talento che scorreva nel sangue delle nostre famiglie, la capacità innata di passare dalla realtà comune a quella che chiamiamo distorsione, un dono indispensabile e necessario, fino a qualche anno fa, per partecipare al gioco. Mentre io... io ero l'anomalia.
Non sarei stato in grado di entrare nella distorsione nemmeno se fossi stato in pericolo di vita. Ne ero certo, perché l'unica volta che mi ero trovato in una situazione del genere, era stato salvato dalla prontezza di mio padre. Lui mi aveva sottratto alla collisione con un'auto impazzita trascinandomi con sé nella distorsione. E dopo, quando ero tornato, avevo vomitato anche l'anima.
In un altro tempo, pur conoscendo il segreto dei miei parenti, la mia totale incapacità di seguirli mi avrebbe condannato a una vita comune. E allora mi sarei sentito menomato, nonostante apparissi integro al resto del mondo. Beffato dal destino in una maniera inimmaginabile, poiché al contrario degli esseri umani comuni, io non avrei mai potuto ignorare, o dimenticare, la posta in palio in una guerra millenaria dalla quale ero escluso.
Ma questo era il destino di quelli come me prima dell'avvento della tecnologia. Prima che alcuni delle antiche famiglie scoprissero un nuovo modo, un modo artificiale di generare la distorsione, e iniziassero a produrre i Simpler.
In principio quelle macchinette erano state fatte per tutti coloro che come me appartenevano alle antiche famiglie senza condividerne il potere. Mio padre era nel progetto, perciò ebbi la fortuna di sperimentare uno dei prototipi. Fu grazie a quell'affare enorme e goffo che partecipai al mio primo duello.
Persi. Non mi importava. Ero dentro, non ero più un escluso.
Da lì, conosci la storia. Serviva molto denaro per perfezionare la tecnologia e renderla portatile e discreta, il che costrinse le antiche famiglie a cercare finanziatori e ad ampliare l'uso del Simpler e l'ammissione al gioco a una ristretta cerchia di persone "utili", che a loro volta ne coinvolsero altre, per passaparola, ma sempre su base segreta ed elitaria. Nessuno di loro considerava i duelli come qualcosa di più di un passatempo particolare. Non erano mai stati messi a parte dell'esistenza del gioco prima e al di fuori dell'uso del Simpler. E nessuno di loro si è mai rivelato un avversario degno di questo nome, erano più dei sassolini nella scarpa da togliere, ma dovevo comunque sfidarli poiché con il loro ingresso nella distorsione, seppure artificiale e non parte del loro DNA, avevano inconsapevolmente preso parte a quella guerra segreta. Quello era un effetto collaterale della creazione del Simpler: il numero di persone da dover affrontare per giungere alla vittoria si era notevolmente ampliato. Perciò, mentre la durata dei viaggi si era ridotta - qualche secolo fa i miei antenati ci invecchiavano tra un duello e l'altro, dovendo attraversare l'oceano via nave - le tappe da fare per scovare tutti i partecipanti si erano moltiplicare.
Perciò, per quanto ne dicesse la generazione precedente, non si era mai troppo giovani per iniziare a partecipare al gioco, perlomeno, se si voleva avere una qualche speranza di vincere prima di morire di vecchiaia. Dimenticavano, loro, forti del potere che scorreva nel loro sangue, di aver fatto lo stesso ragionamento all'inizio della loro carriera.
Quanto a me, tra una tappa e l'altra, ormai avevo accumulato parecchie miglia, e i miei viaggi in aereo non avevano più lo stesso sapore di meraviglia, di eccitazione, di quel mio primo viaggio. Non avrei mai potuto dormire quando, con il mio Simpler nel bagaglio a mano, fatto passare come un banale giochino elettronico nelle operazioni di controllo, seguivo mio padre in una città diversa per sfidare i rampolli e i membri più anziani di una famiglia rivale. Adesso invece il rumore bianco, quel ronzio nelle orecchie divenuto così familiare, mi induceva in un sonno troppo a lungo rimandato, in attesa di svegliarmi in un altro luogo, con altri avversari, altre sfide, nella frenetica rincorsa di una vittoria che per la mia giovane età sentivo, se non a portata di mano, perlomeno possibile. La mia rivincita su tutti coloro che ancora mi guardavano dall'alto in basso per la mia carenza, e che dicendo a mio padre che ero troppo giovane, in realtà gli stavano dicendo che per la mia mancanza di un talento naturale non ero un loro pari, e non sarei mai stato in grado di stare al passo con uno di loro.

sabato 8 ottobre 2022

Ilare

Ilare [ì-la-re] agg. Allegro, di buon umore.

Etimologia: dal latino hilarem, a sua volta derivato dal greco hilarós, "felice, lieto", e dolus, "inganno".



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Arianna sapeva sempre come farmi tornare di buon umore. Non avrei potuto chiedere una sorella migliore.
Era stata una giornata pesante a scuola e appena rientrata io mi ero rifugiata nella mia stanza a piangere lacrime azzurre sulla mia pelle blu. Avrei voluto riuscire a non pensarci, lasciarmi scivolare tutto addosso come acqua, onde sulla spiaggia di un Oceano Blu, ma non potevo. Ogni parola era lama, era martello, era bastone, era freccia. Frecciatine, quelle che mi lanciavano le mie compagne di classe, facile additare quella diversa, quella strana, quella "anormale".
Spiccavo come una farfalla dalle ali blu su una tovaglia candida, e non importava niente di dov'ero, di dove sarei andata, succedeva e basta. Non potevo far nulla per evitarlo.
Arianna comparve sulla soglia, bambina ilare di pochi anni più grande di me. Sorriso grande, mani piccole che mi tiravano per le braccia e mi costringevano in piedi.
– Dai, vieni con me, – come se non mi avesse trovata in lacrime.
La seguii perché ad Arianna non si poteva dire di no, era la regola, quando lei aveva deciso di fare una cosa, aveva deciso. Meno male che era mia sorella, e che era sempre, immancabilmente, dalla mia parte.
Al parco i ragazzi più grandi si lanciavano l'un l'altro manciate di polvere colorata, gridando, ridendo. Arianna mi tirò in mezzo a loro, e fummo bersagli, e fummo pittrici, spruzzi di rosso e fughe precipitose, lanci di verde e corse in cerchio, voli di viola e via a perdifiato a rifugiarci dietro un albero. Alla fine eravamo entrambe una tavolozza variopinta, indistinguibile il colore della pelle sotto le polveri arcobaleno, e i nostri sorrisi ilari erano lo specchio l'uno dell'altro.

giovedì 6 ottobre 2022

Ciò che spuntò un giorno nella Foresta Incantata


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Non tutte le storie iniziano con un "c'era una volta". Alcune iniziano con un "non c'è mai stato". Non c'era mai stato, infatti, a memoria di fata (ed è una memoria molto lunga, badate, più ancora di quella degli elefanti) qualcosa di simile a ciò che spuntò un giorno nel giardino di Fata Violetta, ma all'inizio, seppure la cosa suscitò qualche curiosità tanto che giunsero fate e gnomi da tutto il bosco per ammirarlo e cercare di indovinare che cosa fosse, nessuno si diede più di tanto pensiero.
– Sarà una nuova varietà di fiore selvatico – si dicevano gli ospiti di Fata Violetta, e la vita scorreva più o meno come prima, lì accanto al ruscello che scrosciava gioioso, tra i canti delle fate accompagnate da zufoli suonati dai folletti e i magici giochi di luce che dipingevano il bosco d'arcobaleni.
Solo Fata Violetta era leggermente indispettita, poiché lei sapeva che non aveva mai parlato alla terra di quel nuovo fiore, se davvero la cosa era tale, né aveva mai desiderato che spuntasse nel suo giardino.
Dovete sapere, infatti, che la terra della Foresta Incantata era magica. Bastava piantarvi qualche seme mentre si descriveva ciò che si voleva veder crescere, e subito dalla terra cominciava a crescere ciò di cui si era parlato. La sua magia era tanto potente che non si limitava a far crescere alberi, cespugli, erba e fiori come fanno tutte le altre normalissime terre. La terra della Foresta Incantata aveva dato vita a tutte le case delle fate e dei folletti e degli gnomi che la abitavano, nelle forme che esse preferivano. Gli gnomi, quando avevano bisogno di una nuova casa, chiedevano alla terra di far spuntare un fungo gigante, cavo all'interno, con una porticina e finestrelle e tutta la mobilia. I folletti generalmente si accontentavano di un buco in un tronco d'albero, d'altra parte loro amavano gironzolare e non stavano quasi mai in casa. Le fate invece erano più esigenti, e parlavano alla terra di casette dipinte in colori sgargianti, o sfumature pastello, o ancora iridescenti e traslucide come le ali di una libellula, con tetti di marzapane o ricoperti da un prato fiorito, ciascuna secondo la sua indole e le sue esigenze. I giardini delle fate, poi, erano quanto di più bello si potesse vedere, profumati di gigli e rose e lillà e con mille tulipani colorati, narcisi e mughetti e campanelle che tintinnavano nella brezza. Oh, non potete nemmeno immaginare una tale bellezza. Pochi tra noi sgraziati esseri umani hanno avuto la fortuna di vederli, e tra essi, il contadino Girolamo, amico di Fata Margherita.
Dopo aver provato una immensa meraviglia di fronte ai giardini delle fate, Girolamo si era lamentato con la sua magica amica di un raccolto sfortunato dell'anno precedente, e di non essere in grado di curare come avrebbe voluto il giardino che sua moglie amava tanto. Fata Margherita allora gli aveva regalato un sacchetto di terra della Foresta Incantata, spiegandogli come parlare gentilmente alla terra di quel che voleva far crescere una volta seminato.
Ahimè, il rimedio fu peggiore del problema.
Mentre lavorava la terra con gli altri contadini infatti, capitò loro di chiacchierare del più e del meno, anzi, più del meno che del più. Sapete come siamo fatti noi esseri umani, no? Invece di parlare di cose belle, delle gioie che rallegravano le loro giornate, dei piccoli traguardi quotidiani e della bellezza che pure esisteva nel mondo, anche al di fuori della Foresta Incantata, costoro non fecero altro che brontolare per tutto il tempo, lamentandosi di guai, di malanni, di ingiustizie e di acciacchi. E così, furono guai, malanni, ingiustizie e acciacchi ciò che spuntò nel campo in cui Girolamo aveva sparso la terra magica. Non andò meglio nel giardino a casa di Girolamo, poiché la moglie, quando dalla finestra lo vide parlottare tra sé invece di darsi da fare a strappare erbacce e piantare bulbi, uscì di casa e subito prese a rimproverarlo a gran voce per la sua pigrizia e perché non faceva mai niente per darle una mano, e niente fu quello che spuntò nel loro giardino.
Insomma, per evitare la catastrofe, Fata Margherita dovette andare a riprendersi il suo dono granello per granello, e Girolamo riconoscere che gli esseri umani non ci sanno proprio fare con la magia. Fortunatamente per Fata Margherita, nessuna delle altre fate scoprì la disavventura del suo sventurato dono, poiché Fata Margherita aveva riportato di nascosto tutta la terra, e l'aveva poi suddivisa tra i vari giardini per evitare che un grosso mucchietto sospetto nei pressi della sua casa sollevasse domande inopportune.
Ma tornando alla cosa che spuntò un giorno nel giardino di Fata Violetta. Salvo una normale ondata di curiosità, questa non suscitò troppi clamori nella Foresta Incantata, almeno finché rimase un fatto isolato. Ma ben presto altre cose mai viste iniziarono a spuntare nei giardini di Fata Rosa, e di Fata Primula, e di Fata Elleboro, e in tutti gli altri giardini, compreso, sì, quello di Fata Margherita. E sebbene le "cose" fossero notevolmente diverse tra loro, alcune bianche e sottili, che si gonfiavano al vento, altre rigide e lucide, dal suono tintinnante se vi si battevano le nocche, altre tondeggianti e trasparenti, e altre ancora sfilacciate e opache, erano tutte accomunate da due soli fatti: erano spuntate soltanto dei giardini delle fate, e mai altrove, in nessun luogo della Foresta Incantata; e nessuno, né fata, né folletto, né gnomo, e neppure gufo, dato che erano stati interrogati perfino loro a riguardo, sapeva dire con certezza di che cosa si trattasse. Nuovi funghi, nuovi fiori, nuovi sassi erano state le ipotesi ripetute più spesso, ma non avevano mai convinto gli abitanti della Foresta Incantata.
Fata Margherita però aveva un sospetto. Mentre le altre ancora si interrogavano, si dileguò e lesta andò a chiamare il contadino Girolamo, supponendo che quelle nuove piante o funghi o sassi fossero ciò che Girolamo aveva tentato di coltivare senza successo quando Fata Margherita gli aveva, per così dire, "prestato" la terra magica. Quelle cose dovevano essere assai comuni lì dove vivevano gli esseri umani, poiché Girolamo non ci mise molto a identificarle.
– È immondizia – sentenziò il contadino, e poi dovette procedere a spiegare il concetto alle fate, avvampando d'imbarazzo. Perché era fin troppo semplice capire come fossero arrivati fino a lì sacchetti di plastica, lattine, barattoli di vetro e tutti gli altri rifiuti: li avevano portati gli esseri umani, con le loro parole incaute pronunciate sulla terra magica, restituita dopo che ormai aveva già assorbito il sudiciume di parole malsane.
Fu così che le fate scoprirono la verità sul dono che Fata Margherita aveva voluto tenere nascosto, e su quella che per loro era una incomprensibile bizzarria degli esseri umani, quella di creare cose che dopo poco non servivano più o che non si potevano più usare. Lo scoprirono perché per quanto a fondo si possano seppellire, la verità e i rifiuti tornano sempre a galla. E così si conclude la nostra storia.
...ah, e per quanti se lo stessero chiedendo: tranquilli, i giardini delle fate furono ripuliti per bene, Fata Margherita e Girolamo che avevano causato il problema si impegnarono a risolverlo e lo fecero senza usare nemmeno un briciolo di magia, e adesso nei giardini delle fate crescono solo bellissimi fiori profumati. E se ce l'hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi, no?

lunedì 3 ottobre 2022

Cade una goccia


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Apro gli occhi e il buio si ricama di stelle. Per un momento ho provato l'assurda sensazione di cadere, come se fossi stata in volo, e ora non più. Mi sono arenata su una spiaggia, e la mia coda si dibatte invano, avvolta in un velo di sabbia. Lo scroscio delle onde che si susseguono sul bagnasciuga è il mio richiamo, ma la marea è calata, e io sono troppo lontana per raggiungerle.
Non posso far altro che guardare le stelle, che io stessa ho posto nelle profondità del buio con il suono della mia voce, diradarsi man mano che ciascuna di loro cade in una scia scintillante, consumandosi e lasciando al suo posto uno spazio vuoto.
Nel mio mondo le stelle cadenti sono davvero stelle, o lo erano, prima di sciogliersi nell'ultimo viaggio.
Rabbrividisco nel vento freddo che accarezza la mia pelle nuda, madida d'oceano, e stille salate piovono dai miei occhi sulla rena.
Cade una goccia sulla mia fronte, ma non dagli occhi, né dal cielo, bensì dalle dita del mio nemico, Shinji l'ingannatore, in piedi sopra di me nella sua veste bianca, piedi nudi e una pietra blu sulla cintura, più blu del mare. Zaffiro, pietra da maghi.
Shinji che con la sua voce di serpente mi ha indotto a pronunciare una parola proibita a ogni nostro incontro, rovinando sempre di più il mio mondo perfetto. Chiudo gli occhi e giro di lato la testa, non ho la forza di combatterlo, non più. "Combattere", ho dovuto pronunciare quella parola per poterlo fare, ma renderla reale con la mia voce non mi ha reso più forte, bensì più debole. Pesci, uccelli, delfini e balene e ogni altra creatura a cui la mia voce ha dato vita non avevano mai conosciuto la lotta, ma adesso, il mio intero mondo è in guerra con sé stesso. E tutto a causa del mago.
La sua veste mi sfiora un braccio, Shinji siede accanto a me sulla spiaggia. Fissa le onde, l'orizzonte, le stelle che a una a una lasciano il loro posto nel cielo.
– Non pensavo saresti arrivata a tanto pur di restare aggrappata al tuo mondo, piccola dea – mi schernisce con la sua voce melliflua e cantilenante.
Mi asciugo gli occhi, sporcandomi il volto di sabbia. – Tu vuoi che me ne vada. Così avrai tutto il mio mondo per te.
Shinji ride. – Non lo hai ancora capito? Io non voglio il tuo giocattolo rotto.
Mi indispettisce, che Shinji abbia usato la mia stessa voce per guastare la meravigliosa perfezione che avevo creato senza alcun reale motivo. Non per cupidigia, non desidera quello che è mio. Non per cattiveria, non gode nell'infliggermi dolore. Non per vendetta, io non gli ho mai fatto un torto.
Punto le mani sulla sabbia e mi sollevo a sedere a fatica. La mia coda è pesante, così come il resto di me.
– Che cos'è che vuoi, allora? – Non gliel'ho mai chiesto.
– Se le tue stelle potessero esaudire un desiderio – dice lui, indicando una scia in cielo che si consuma in un breve attimo, – chiederei loro di poter tornare indietro con te. Ma ciò è impossibile. Io mi sono assopito per non svegliarmi mai più. – Shinji si sdraia sulla sabbia, immobile. – Tutto ciò che posso desiderare adesso è di aiutare gli altri. Coloro che come te si sono persi dentro il loro mondo. Perché sei tanto restia ad abbandonarlo?
Piego la coda, la raccolgo vicino a me e la abbraccio, come se dentro, sotto le squame, avessi un paio di gambe, delle ginocchia. – Ho paura – mormoro. Subito mi mordo un labbro, invasa da un sentimento che non avevo mai conosciuto, o riconosciuto. Come sempre, Shinji ha carpito la mia fiducia, mi ha indotto a parlare, a pronunciare una parola proibita, e a renderla reale. Per la prima volta nel mio mondo i pesci tremano nel mare e nuotano a nascondersi, gli uccelli spiano frementi dai nidi sugli scogli, non osando lasciarli, e persino le stelle si affievoliscono in cielo, chiedendosi chi fra di loro sarà la prossima a cadere.
– Lo capisco. – Il tono di Shinji è sicuro, di nuovo beffardo. – Hai paura di lasciare un mondo di cui sei l'unica dea, per entrare in un altro nel quale sei solo una goccia in un vasto mare.
Voglio alzarmi, ma non posso. Lasciarlo, nuotare libera nel mio profondo oceano, ma non ne ho più la forza. E allora, sono costretta ad ammettere ciò che non ho osato confessare. – In quel mondo, io non ho voce.
Tutte le stelle abbandonano il cielo in una scintillante scia collettiva mentre Shinji mi abbraccia.
Cade una goccia dal sacchetto di plastica alla camera di gocciolamento della flebo. La luce ferisce i miei occhi stanchi, il mio corpo esausto e debole. Accanto al mio un altro letto, un altro corpo avvolto nelle lenzuola bianche come un sudario, o una lunga veste candida. Pur nella confusione che mi stordisce e annebbia i miei sensi, ho l'impressione di conoscerlo.
Somiglia a qualcuno assopito per sempre, che mi ha aiutato a svegliarmi.

sabato 1 ottobre 2022

Frusto

Frusto [frù-sto] agg. 1. Di abito, logoro, liso, consunto; estens. spossato, stanco. 2. fig. Che non interessa più a nessuno perché troppe volte detto o ascoltato; trito.

Etimologia: dal latino frustum, "pezzetto", dal participio passato del verbo latino frustare, "lacerare, consumare".


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Da bambino vagavo per i boschi della mia collina con addosso un paio di calzoni frusti, troppo grandi per le mie gambette magre e con le ginocchia lacerate in ampi squarci incorniciati da un groviglio di fili. Li avevo sottratti a uno spaventapasseri giù nei campi, pericolosamente vicino ai paesi della valle. Non sapevo nulla, allora, dell'incantesimo che proteggeva la collina e del motivo per cui mia madre e le mie zie non si avventuravano mai così lontano da casa. Due volte al mese una donna saliva l'unica strada che portava a Tana del Diavolo per portarci ogni sorta di genere di prima necessità tra quelli che non potevamo procurarci noi stessi tra i boschi della collina e un piccolo allevamento di galline e capre. Quando arrivava, se ero in casa, io dovevo restarmene nella mia camera, nascosto. Praticamente non incontravo mai nessuno che non fossero mia madre o le mie zie. Non che mi dispiacesse. Non avevo mai sentito il bisogno di contatto umano.
Avrei potuto restarmene tutto il tempo nei boschi con quei calzoni laceri e non mi sarebbe importato.
Ma più crescevo, più quei pantaloni aderivano alle mie gambe, e più le nove donne con cui condividevo Tana del Diavolo bisbigliavano alle mie spalle o mi rimproveravano apertamente.
– Somiglia sempre di più a uno di loro, Maria – diceva Ingrid a mia madre. – Non sa controllarsi, e diventa sempre più forte. Un giorno o l'altro farà del male a qualcuno.
Mia madre scuoteva la testa e le ripeteva di non venirsene fuori con quella storia frusta e che non c'era bisogno di allarmarsi, era tutto sotto controllo.
Era vero che il mio potere era cresciuto con me, ma era altrettanto vero che mia madre e le mie zie erano in grado di fare magie che io nemmeno mi sognavo, perciò non riuscivo a capire che cosa ci fosse di tanto pericoloso nel cambiare aspetto a seconda delle emozioni e in qualche soprammobile che galleggiava in aria se mi sentivo felice.