giovedì 13 ottobre 2022

Conservanti


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Foto di Pixabay da Pexels


Dovevo immaginarlo che non avrei trovato pace nella sala comune della Casa dei Coralli. Quando ero scesa, dopo colazione, c'era solo uno degli ospiti temporanei dell'avamposto, un viaggiatore di cui non avevo afferrato bene il nome, che stava leggendo un libro. Io non l'avrei disturbato e lui non avrebbe disturbato me, mentre mi perdevo nella contemplazione dell'immenso oceano, dei suoi banchi di pesci guizzanti, dei granchi che vagavano tra i coralli cresciuti fin quasi ad abbarbicarsi alle pareti di vetro dell'hotel sottomarino. Avevo studiato la storia del posto: una volta, prima della guerra e della caduta del mondo, era stato un posto di gran lusso, un luogo destinato a pochi, conosciuto con il nome altisonante di "Grand Hawaian Hotel Marine Excelsior Resort" o qualcosa del genere. Adesso era solo la Casa dei Coralli, uno dei tanti avamposti al di fuori delle cupole sottomarine che mantenevano al sicuro le nuove città dei Veri Umani. Un posto isolato per gente strana, fuori di testa, o semplicemente misantropa. Il posto adatto per me.
Lasciavo che pensassero che fossi strana perché me ne stavo tanto a lungo in silenzio a fissare i pesci, anche se non era questo il vero problema con me. Ad ogni modo, me ne stavo tranquilla mezzo sdraiata sul divanetto da appena tre passaggi di banchi di alici, equivalenti più o meno a cinque minuti, quando Jalyne entrò come una furia con una pesante cassa di vecchi barattoli, i capelli ancora bagnati.
– Dove l'hai trovata quella roba? – fece diffidente il vecchio Sonar, un ometto tarchiato dai pazzi riccioli grigi in testa, che era praticamente diventato il proprietario di Casa dei Coralli per essere stato lì da molto più tempo di tutti noi messi assieme.
– In un relitto. – Jalyne lasciò cadere la cassa sul tavolino e iniziò a esaminare i barattoli di vetro a uno a uno, scuotendoli e cercando di leggere qualcosa sulle etichette sbiadite. – A nord. Forse c'è ancora qualcosa di commestibile, potrebbe essere una fortuna...
Sonar le strappò di mano un barattolo di sottaceti. – Commestibile? Ti rendi conto di quello che dici? Questa è roba da prima!
In un angolo, il nostro ospite lettore levò gli occhi dalle pagine del libro, e per un istante temetti che si sarebbe intromesso nella discussione. Ma quello si limitò a un sorrisetto e si rituffò tra le pagine.
– E allora? Erano a lunga conservazione, se l'acqua non è entrata... – Jalyne si morse il labbro inferiore. Aveva capito subito di essersi data la zappa sui piedi.
– A lunga conservazione, appunto – fece Sonar in tono solenne. – Con-ser-van-ti.
Il vecchio lo scandì ben bene. A questo punto, forse farei meglio ad aggiungere che Sonar non era il suo vero nome. Lo chiamavamo così perché era un po' suonato: aveva delle teorie tutte sue sul modo in cui era finito il vecchio mondo.
– È grazie a questa roba se sono cominciati a spuntare i mutati. Vuoi che ti nasca un figlio con due teste, Jalyne? O un Acquatico, o dio non voglia, un Gargoyle? Lo sai quante ne sono morte perché avevano uno di quegli esseri dentro?
L'immagine fece rabbrividire Jalyne. Sonar stava esagerando. In realtà, da quanto ne sapevo io, non era mai morto nessuno per aver partorito un mutato, ma era facile incolpare il mostro per una normale complicazione. Ma non lo dissi. Preferivo non schierarmi in quella diatriba, e soprattutto, non schierarmi dalla parte dei mutati.
Mantenevo un basso profilo, era così che sopravvivevo.
– Che cosa dovrei fare? Riportare tutto dove l'ho trovato? – chiese Jalyne, imbronciata. E, sottovoce, aggiunse: – Dopo tutta la fatica che ho fatto...
– Fa' come vuoi – brontolò il vecchio, alzando una mano in aria. – Io non mangerò quella roba, e di sicuro non la darò ai miei ospiti. Io non avveleno la gente – fu il suo ultimo sibilo, prima di andare ad appoggiarsi alla colonna a braccia conserte, lo sguardo rivolto a un gruppo di spugne e attinie che facevano da rifugio ai pesci pagliaccio.
Fu solo a quel punto che mi feci avanti. – Dalla a me, la mangio io.
Sonar si volse con un sopracciglio inarcato.
– Ho già detto che non voglio avere bambini, è per questo che sono qui – mi giustificai di fronte alla sua muta protesta. – Così i conservanti non danneggeranno nessuno, e potrai risparmiare per qualcun altro i miei prossimi pasti.
Sonar fece spallucce. Me ne andai portando con me la cassa piena di barattoli.
Avevo dato loro a intendere di essere fuggita dalla città perché mi rifiutavo di sottopormi al programma di ripopolamento. Il mio genoma risultava essere tra i più puliti da anomalie, tra i più vicini all'ideale di un perfetto Vero Umano, perciò sarei stata la candidata ideale per il programma, ma io non avrei mai potuto farlo. Quel marchio di approvazione era vero soltanto sulla carta.
Posai la cassa sulla scrivania, chiusi a chiave la porta della mia stanza e mi avvicinai alla grande finestra che dava sull'esterno. La vista non era magnifica come quella che si poteva ammirare dalla sala comune, più vicina al fondale e alla vita che brulicava tra i coralli, ma poteva andare.
Alla mia nascita avrebbero dovuto gettarmi fuori dal primo boccaporto, ma mia madre pagò l'ostetrica per il suo silenzio. Fu lei a procurarci dei campioni di sangue da una bambina perfetta, nata pochi giorni prima di me, da consegnare per gli esami e l'approvazione al mio diritto alla vita. Dopo tanti anni avevo cercato quella donna per ringraziarla, perché aveva mantenuto così a lungo il segreto, ma scoprii che pochi giorni dopo la mia nascita, di ritorno da una visita in periferia, la donna era caduta in un pozzetto di scarico ed era annegata.
Una testimone in meno di cui preoccuparsi.
Da sola, di fronte all'oblò, mi tolsi la veste e lo scintillio delle squame sui miei fianchi si rifletté sul vetro. Era poca cosa, non sufficiente a definirmi un'Acquatica: due file spesse un centimetro su ogni lato, che si assottigliavano fino a sparire sulla pancia e sulla schiena. Altrove, la mia pelle era del tutto normale. Persino le minuscole branchie dietro le orecchie, che nascondevo sempre con un fazzoletto che portavo in testa, erano un orpello inutile, branchie vestigiali, che non mi consentivano di restare più a lungo immersa senza respirare. Per quanto mi riguardava, io ero umana. Eppure non potevo permettermi di conoscere la vera intimità con un uomo, e non avrei mai trasmesso i miei geni sbagliati per nulla al mondo. Su questo, agli altri, non avevo mentito.
Mi misi una vestaglia da camera e mi sedetti alla scrivania a esaminare i vecchi barattoli, per separare quelli ancora commestibili da quelli no. A differenza di Sonar, non ho mai pensato che siano stati i conservanti nel cibo delle generazioni precedenti a mutare il DNA dei sopravvissuti, a fare di me quello che ero. Era più probabile che fossero state le radiazioni, e quelle non si prendevano da un vecchio barattolo finito nell'oceano molto prima del disastro che aveva reso inabitabile la terra. Ero a metà della mia disamina quando un po' di trambusto proveniente dal corridoio mi mise in allarme. Mi rivestii, mi accertai che le squame e le branchie fossero ben coperte e seguii gli altri ospiti ai piani inferiori.
Nella sala comune un drappello di ospiti e residenti circondava un uomo accasciato a terra, in affanno, grondante acqua salata. Aveva ancora le bombole sulla schiena, segno che doveva essere appena entrato dal boccaporto, e dall'indicatore dell'ossigeno quasi a zero doveva aver nuotato a lungo, venire da molto lontano. Chissà perché. mi venne in mente la cupola da cui anch'io provenivo.
– Hanno attaccato la città – ansimò l'uomo, dardeggiando nei dintorni occhiate folli.
– Calmati ragazzo – gli disse Sonar, e fece un cenno a Jalyne affinché andasse a preparargli un tè di alga nera.
– Chi? Cosa? Come? – vociò la folla, prima che Sonar potesse chiederlo.
– Gargoyle... e... Acquatici – rispose l'uomo in affanno. Poi vomitò le parole che aveva trattenuto per tutto il viaggio attraverso le pericolose profondità del mare: – Sono entrati dagli scarichi, hanno sfondato i vetri, hanno rapito gli scienziati, annegato tutti gli altri... oddio... oddio...
Si passò una mano sul volto e non parlò più, lo sguardo perso nello shock di quei ricordi. "Non è possibile" dicevano gli altri. Ascoltai inespressiva i loro commenti.
Tutti sapevano che gli Acquatici erano pacifici, e dotati di scarso intelletto, le mucche dell'oceano li chiamavano, nonostante nessuno avesse più visto una mucca da almeno un secolo, se non nei pochi libri e filmati che si erano salvati e conservati nei musei. Quanto ai Gargoyle, eravamo al sicuro perché non potevano respirare sott'acqua. Una collaborazione tra le due specie di mutati era una cosa inaudita, impensabile, eppure, stando a quanto aveva detto l'uomo, era accaduta.
E stava accadendo alle altre cupole, ci informò Jalyne, che aveva sentito via radio i messaggi dalla Tana delle Tartarughe, dal Rifugio delle Sirene e persino dal Motel Subterra. Tutti gli avamposti stavano accogliendo sopravvissuti dalle cupole più vicine che ripetevano la medesima storia.
Era il Giorno della Rivalsa per i mutati.
Ma per me, la situazione era grave. La gente iniziava a infervorarsi, e il loro odio nei confronti dei diversi cresceva. Ora più che mai dovevo proteggere il mio segreto.
Non mi avrebbero mai visto come mi vedevo io. Io ero stata cresciuta da mia madre, e mi sentivo, come una Vera Umana, solo con qualche gene fuori posto che non avevo intenzione di trasmettere a nessuno. Ma loro mi avrebbero identificato come un'Acquatica, come una nemica dell'umanità.
Nemmeno Sonar avrebbe più creduto che ero solo un'innocente vittima dei conservanti.

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