giovedì 27 ottobre 2022

L'uomo con la valigetta


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Josh Hild da Pexels


– Potrei farlo – disse l'uomo con la valigetta. – Potrei aprire la mia valigia, rompere una fiala o due, e stare a vedere che succede. Non sarebbe divertente?
Sorrideva sicuro di sé, come uno che ha l'aria di non stare affatto scherzando. Il suo non era un bluff. Non gli importava di causare la propria morte o quella di qualcun altro.
Feci per alzarmi, ma lui posò una mano sulla mia e mi guardò di sottecchi, con una smorfia di falsa contrizione. – Dove vai, non abbiamo finito. Davvero non ti importa nulla di tutta questa brava gente? Fossi in te, io non vorrei avere sulla coscienza la morte di quella cameriera così carina.
Accennò alla ragazza dai capelli scuri dietro al bancone del bar, a malapena visibile dietro alla folla vociante degli avventori seduti sugli sgabelli o in piedi nello stretto spazio tra il lungo bancone e i tavoli. L'avevo notata, entrando. E l'uomo con la valigetta, probabilmente, aveva notato che io l'avevo notata.
Mi sedetti controvoglia, arrendendomi al tono carezzevole con cui mascherava le sue minacce. L'uomo, che mentalmente chiamavo Philip dato che non si era presentato, mi sorrise e si rilassò contro lo schienale. – Bravo – mi disse. – Se ti può consolare, hai fatto la scelta giusta. Parlare con te, adesso, è la sola cosa che mi trattiene.
Mi guardai intorno in cerca di aiuto, ma nessuno sembrava interessato a noi. Erano tutti in compagnia di qualcuno, un amico, una donna, una famiglia. Solo io ero lì da solo, o meglio, avrei preferito esserlo. Meglio soli che male accompagnati, no? E invece ero incastrato in quella situazione impossibile, in apparenza senza aver fatto nulla per meritarmelo. Maledissi il momento in cui Philip si era venuto a sedere al mio tavolo, sulla seggiola vuota di fronte a me. Maledissi di aver scelto quel bar, di esserci andato senza la solita compagnia di amici, maledissi persino di essermi alzato dal letto quel giorno. Fissai con astio l'uomo dall'altro lato del tavolo.
– Che cosa vuoi? – tagliai corto, bruscamente.
Sapevo per esperienza che quelli come lui volevano sempre qualcosa. Soldi. Attenzione. Vendetta. Mandare un messaggio. Cose del genere.
Philip sgranò gli occhi e replicò in tono mellifluo: – Perché mai dovrei volere qualcosa? Io ho tutto ciò che mi occorre qui, a portata di mano. – Accennò alla valigetta legata al suo polso da una catenella e concluse: – Io sono Dio.
Rise. Una risata morbida, appena accennata, ma resa ancora più inquietante dalle minacce che aveva snocciolato in precedenza, con leggerezza. – È una bella sensazione. Dovresti provarla, una volta o l'altra.
Folle. Quell'uomo era folle. Non c'era altra spiegazione per quello che stava facendo. Mi sforzai di cercare di comprenderlo, per poter trovare una via d'uscita, e mi resi conto che aveva mentito.
– Ah, però tu vuoi qualcosa – lo contraddissi. – Vuoi che io ti ascolti.
Fece un cenno noncurante, con un mugolio. – Più che altro, lo devi volere tu. Perché è una questione di vita o di morte per te, ascoltarmi. Se ti alzi da quella sedia, ti assicuro che non riuscirai ad andare abbastanza lontano da evitare di respirarlo, con tutta questa bella gente che ti blocca la strada.
Ancora una volta mi guardai attorno. Aveva ragione. Troppe persone, troppo ammassate, e nessuna di loro era minimamente consapevole del pericolo che stava correndo. Avrebbero sgomitato pur di proteggere il proprio posto in fila alla cassa, per essere proprio lì appiccicati al bancone quando il loro caffè fosse stato pronto. Come se fossero quelle le priorità nella vita. Un posto in prima fila per non rinunciare alle piccole comodità a cui erano abituati.
Al contrario di me, che avevo un posto in prima fila dinnanzi all'orrore.
– E non lo è per te? – chiesi all'uomo con la valigetta, nel tentativo di riportarlo alla realtà di quello che aveva minacciato di fare. – Una questione di vita o di morte, intendo.
Philip mi fissò inespressivo. – Noooo – mormorò lentamente, strascicando la o. – No davvero. Un dio non può morire. Un dio è immortale, nel momento in cui rivela la sua creazione.
Spostò la valigetta sulle ginocchia e la accarezzò. Aveva creato lui le microscopiche entità contenute nelle fiale che mi aveva mostrato per un breve attimo, me lo aveva detto fin dall'inizio, ed era evidente che ne andava fiero.
– Un giorno sarà una cosa da nulla, accessibile a tutti – mi aveva detto, come se non stesse parlando di generare nuovi ceppi di patogeni letali in laboratorio. – Imparare ad hackerare la vita sarà semplice ed economico come sviluppare un nuovo programma al computer. Qualunque adolescente brufoloso lo potrà fare nel garage di casa propria.
Lo scenario che Philip mi aveva prospettato era da brividi. Seguendo l'analogia del computer, era semplice immaginare che non tutti avrebbero usato quelle conoscenze per dare vita a microorganismi utili, come batteri in grado di accelerare la guarigione delle ferite o di attaccare gli insetti nocivi, o innocui come stringhe di bacilli bioluminescenti. Come per i virus informatici, schiere di malintenzionati si sarebbero appropriati di quella conoscenza e l'avrebbero usata per attuare ricatti in cui la posta in gioco era più alta dei semplici dati perduti o sottratti per essere messi in vendita.
Un intero pantheon di nuove divinità malefiche a cui non interessava di giocare con la vita degli altri come a lui non interessava di mettere a rischio la propria.
– Sai, non capisco proprio da che parte stai – dissi rassegnato. Anzi, di più: stanco. Quella conversazione era la più estenuante che avessi mai avuto. – Non capisco se vuoi aprire la strada ai tuoi successori, o se intendi portare l'attenzione pubblica sul problema e fermarlo.
– Oh, tu non ascolti – fece lui, contrariato. – Tu non ascolti, ti ho detto che non voglio nulla, non mi importa. Non mi importa come finirà qui, oggi, e non mi importa che messaggio ne trarrà la gente domani. Il senso, il significato... non mi riguarda.
Philip sollevò la valigetta dalle ginocchia e la posò sul tavolo, accanto al bicchiere che aveva già vuotato nel corso della nostra conversazione. Armeggiò con la chiusura della valigetta. Non sapevo se aveva intenzione di mostrarmi ancora quanto fosse concreta la sua minaccia, o se si fosse già indispettito a tal punto da metterla in atto, ma io non avevo più intenzione di stare alle sue regole, di cercare disperatamente di tenerlo in stallo per evitare qualcosa che in fin dei conti era inevitabile.
Lui, in fondo, aveva già deciso. Se non lo faceva, non sarebbe stato Dio, e tutte le sue pretese di esserlo sarebbero risultate vane.
E io avevo un'idea che forse avrebbe salvato tutti.
Mentre era distratto con la valigetta, mi alzai in piedi e urlai: – Ha una bomba!
Il panico si diffuse rapidamente.
Iniziò da quelli che ci stavano più vicini, che potevano vedere la sua valigetta, quella valigetta posata sul tavolo e legata al suo polso da una catenella, chiaro segnale che doveva contenere qualcosa di molto prezioso, o di molto pericoloso. Nel dubbio, e guidati nell'interpretazione dal mio urlo, uomini e donne si girarono e si pigiarono contro i vicini, sgomitando e ripetendo il mio urlo che percorse la folla come un'onda, e tra le grida ripetute si mossero tutti, scontrandosi, spingendosi, lottando per uscire dallo stretto passaggio rappresentato dalle porte aperte. Scorsi corpi schiacciati contro le vetrate del locale, ragazzini che si erano rifugiati sotto i tavoli, piangendo, nella speranza di non essere calpestati dalla massa urlante.
L'uomo con la valigetta si alzò e mi rivolse uno sguardo severo. – Scelta sbagliata. Ma ricordati: qualunque cosa accada, lo hai voluto tu.
Per un istante, un terribile istante temetti che avrebbe aperto la valigetta e infranto una delle sue fiale, liberando chissà quale virus dagli effetti devastanti. Invece l'uomo si voltò e si mescolò alla folla. Non lo fermai. Forse perché credevo che non sarebbe riuscito a passare in mezzo alla calca, sembrava impossibile, e invece quelli che lo vedevano, con la sua valigetta stretta tra le braccia, si facevano indietro, inorriditi, rischiando di travolgere chiunque si trovasse alle loro spalle, salvo poi essere spinti di nuovo in avanti da questi ultimi e richiudere il passaggio, impedendomi così di seguirlo. Quando uscii, assieme a qualche fortunato che aveva trovato rifugio nei bagni del locale dove si era chiuso a pregare e sperare, una fila di ambulanze parcheggiate di fronte al bar già rischiarava la notte con i suoi lampeggianti accesi. Squadre di paramedici erano affaccendati a caricare barelle di feriti calpestati dalla folla in panico, o caduti sui frammenti di un bicchiere. A terra, un paio di sacchi neri, e in uno, prima che lo chiudessero, intravidi i capelli scuri della cameriera carina.
L'uomo con la valigetta non si vedeva da nessuna parte.
Mentre me ne stavo lì istupidito, in piedi tra le luci lampeggianti e il dolore di chi fino a poco prima non aveva altra preoccupazione al mondo che trovare un posto a sedere per gustarsi un caffè, qualcuno mi urtò da dietro. Mi voltai di scatto, ma non era l'uomo con la valigetta, non era Philip.
Tuttavia, infilando le mani nelle tasche della giacca, vi scoprii un foglietto che prima non c'era. Lo trassi di tasca e lo lessi, nel bagliore lampeggiante che oscurava la luminescenza soffusa proveniente dalle vetrate del bar, e la tingeva a tratti di una tinta fosca.
"Te lo avevo detto" c'era scritto nel biglietto. "Io non vorrei avere sulla coscienza la morte di quella cameriera così carina, ma a quanto pare, a te non importa. Allora, come ci si sente a essere Dio?"

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