lunedì 30 ottobre 2017

La scintilla di ogni storia

Perché inizi a leggere una storia? Che cosa ti spinge a proseguire pagina dopo pagina?

Per quanto mi riguarda, la risposta è semplice: i personaggi. Nei libri che vale la pena leggere, ce n'è sempre uno che spicca tra gli altri, e continuo la lettura perché voglio sapere che cosa gli accade. Riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi? A superare gli ostacoli? Nel seguire le (dis)avventure dei miei beniamini soffro con loro, spero, rido, imparo e talvolta mi sorprendo.

Se al contrario non c'è nessuno la cui sorte mi interessi, non c'è ambientazione, stile, narratore o trama che tenga. La storia diventa, nel migliore dei casi, un semplice esercizio di bravura che non mi trasmette nulla a livello emotivo. E nel peggiore... mi insegna come non va scritto un libro. Non uno che vorrei leggere, almeno.

Così la penso da lettrice. Passando al lato creativo della questione, ritengo ancora valido il mio pensiero di qualche anno fa:

Vivono vite d’inchiostro su fogli di carta. A volte sono così vuoti da apparire inconsistenti; oppure, tanto caratteristici e stucchevoli da essere definiti macchiette. Ma quando li sentiamo prendere forma e sostanza, come si fa a non amarli?
Sono le nostre guide nei loro universi e senza di essi una storia sarebbe incompleta.
Possono avere mille difetti, possono essere scorbutici o perfino cattivi, ma ciò che tutti hanno in comune è questo: sono umani. Tutti, anche gli alieni, le fate e gli animali delle favole. Non potrebbe essere altrimenti, perché noi che li inventiamo siamo umani e a loro affidiamo una scintilla della nostra anima.
Da "Personaggi", Trame x 5 

Ogni personaggio di cui scrivo viene da una parte di me, fosse anche soltanto la mia idea di un concetto. E dato che ognuno ha vissuto esperienze diverse, saranno differenti anche i personaggi che escono dalla sua penna, pur rappresentando magari lo stesso archetipo. Per un antagonista ad esempio, il mio concetto di crudeltà può differire da quello di altri, se non nella sostanza, almeno nella forma attraverso la quale si esprime.


Tu che ne pensi? I personaggi sono importanti in una storia quanto lo sono per me, o altri elementi hanno maggior peso?
E quale personaggio, tra quelli che hai scritto, letto o visto su uno schermo, ti è rimasto particolarmente impresso, e perché?

sabato 21 ottobre 2017

Ircocervo

Questa forse non è la più bizzarra tra le creature fantastiche (nei bestiari medievali si trovano incroci molto più strani!), ma rispetto ad altre ha una particolarità: anche in passato era ritenuta non davvero esistente, ma più il simbolo di un'idea assurda.

Ircocervo [ir-co-cèr-vo] s.m. 1. Animale favoloso, per metà caprone e per metà cervo. 2. fig. Cosa inesistente, idea fantasiosa, chimera.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Quando c'è di mezzo un animale impossibile... non devo nemmeno cercare a lungo, i primi due personaggi che mi vengono in mente sono loro: Alcyone e Trevis, già protagonisti del brano legato alla parola Zufolo.


– Ti dico che esiste! – ribatté Alcyone.
Io calciai un sasso e sbuffai. Ancora con questa storia. Erano due giorni che insisteva sull'argomento. Era una quantità di tempo spropositata per lei, che di solito si distraeva ancor prima di aver finito la frase.
– Ti sbagli. Non esiste nulla del genere – mugugnai. – Non può esistere qualcosa di così assurdo!
– E invece esiste. Io l'ho visto.
Le rivolsi un'occhiata scettica, poi fissai la strada di pietre grigie che tagliava la pianura di Farr sotto un cielo altrettanto grigio. Forse la colpa era del paesaggio che non offriva alcuna distrazione.
– È come dire che esiste l'ircocervo. Dimmi, ne hai mai visto uno?
Mi pentii subito di averlo chiesto. Con Alcyone non si poteva mai sapere. Era interamente possibile che avesse visto anche ciò che non esisteva.
Alcyone si fermò e mi rivolse un gran sorriso. – Non solo l'ho visto – disse, tirando fuori dal taschino della camicetta il suo nastrino rosso. – Ma te lo posso anche mostrare!
Sapevo cosa stava per fare. Scossi la testa e sbottai: – Eh no, con la magia non vale! Troppo facile trasformarsi in un ircocervo o in un drago viola o in un invisibile unicorno rosa...
– Ma Trevis, i draghi viola non esistono, lo sanno tutti! – Alcyone si legò il nastrino al polso. – E io posso trasformarmi solo in animali che esistono. Perciò, se riesco a diventare un ircocervo...
Sospirai, portai le mani al volto e la lasciai parlare. Se stava per farlo, non volevo vedere. Inoltre, avevo appena capito una cosa. Avevamo avuto la soluzione a portata di mano per tutto il tempo.
– A saperlo potevo chiederti di trasformarti nel pesce di fuoco volante, invece di continuare a parlarne a vuoto – mormorai.
Non udivo più il suo chiacchiericcio, perciò mi tolsi le mani dagli occhi e la scoprii a fissarmi con una buffa espressione corrucciata. – Ma, Trevis... – Alcyone portò la mano sinistra alla guancia e inclinò la testa. – Non stavamo parlando dell'indistruttibile ferro da calza e da battaglia di re Pipino il Grande?

giovedì 19 ottobre 2017

La lettera

(racconto ispirato dall'esercizio La storia dei tuoi sogni. In questo caso il sogno presentava tre situazioni differenti completamente slegate tra loro, e sono riuscita a riunirle tutte con il filo conduttore di una lettera che nel sogno non c'era)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Cara sorella, ti lascio questa lettera virtuale su un tavolo virtuale, in caso tu non riuscissi a raggiungermi in tempo nel commlink.

Tipico di Dalia. Aveva sempre fretta. Fretta di crescere, fretta di fare, fretta di partire.
E io ero quella che rimaneva indietro.

Se la stai leggendo ti chiedo scusa, scusa per non averti aspettato, ma il mio volo parte tra un'ora, l'aereo è isolato rispetto all'esterno perciò non potrò raggiungerti e a Mediaterram... beh, sai com'è lì.

Mediaterram. Non vedevo un solo motivo al mondo per cui mia sorella potesse desiderare di andarci.

Ti ricordi la lista di invenzioni di emergenza a bassa tecnologia che ho messo insieme quasi per gioco e ho mandato via commlink ai nostri amici? Il montacarichi a pedali e il trapano a manovella e le altre?

Mi venne da sorridere. Certo che me la ricordavo. Un'altra delle sue folli trovate. Beninteso, alcune potevano anche funzionare, ma nel complesso erano invenzioni inutili e superate. Quella lista era niente più che un esercizio mentale, una fantasia, una barzelletta.

Beh, alla fine è arrivata al commlink di Aron Venedig, e lui mi ha risposto con qualcosa di più di una sua virtuacopia che ride. Mi ha detto che era una buona idea, che a Mediaterram si sarebbero vendute più facilmente del sirru agli gnuf, e che la sua azienda poteva produrle, se io me la sentivo di andare sul posto e trovare gli acquirenti. E io gli ho detto di sì, che me la sento. Insomma, sarei stata stupida a rinunciare e lasciare che Aron mandasse qualcun altro, no? Sono le mie invenzioni. Questa è la mia grande occasione, e non me la lascerò scappare.

Scossi la testa. Dalia, Dalia. Non era cambiata per niente.
Era così ogni singola volta. Vedeva qualcosa, o sentiva qualcuno parlare di fama e ricchezza, e vi si buttava a capofitto. Come quella volta che uscendo dal cinema, a sedici anni, mi aveva detto di voler fare l'attrice. Senza alcuna esperienza di come si recita aveva partecipato per mesi a una serie infinita di provini, prima di invaghirsi di un musicista e cambiare idea sulla sua futura carriera.
Mi mancava andare al cinema con lei. Avevo cominciato a girare alla larga dalle sale da quando erano trapelate via commlink notizie sul killer del cinema. Avevo pregato Dalia di fare altrettanto, ma non sapevo se mi avesse dato retta.
Dalia faceva tante cose senza dirmelo. Come partire di punto in bianco per il continente più arretrato del mondo.

Non starò via molto. Questione di qualche mese, il tempo di prendere contatti e presentare il prodotto, dice Aron.

Sembrava facile, a sentire Aron. Ma Dalia non sapeva niente del mestiere di venditore. Non aveva mai fatto nemmeno la commessa in un negozio.

Per favore, prenditi cura di Tech. La chiave di accesso del mio spazio commlink la conosci, lo trovi lì.

Tech. Il cucciolo virtuale che le aveva regalato il suo ex, quel tipo strambo che lavorava come programmatore. Come si chiamava... Zed Ter?
Non mi ricordavo quasi niente di lui, a parte che aveva una sua teoria sul killer del cinema, e quando me l'aveva raccontata, mi aveva impressionato parecchio. Zed sosteneva che non erano riusciti a prenderlo perché in realtà non c'era un solo killer del cinema. Che il killer del cinema, in effetti, non esisteva.
Secondo Zed, alcuni dei caschi commlink delle sale cinematografiche erano difettosi, e rendevano l'esperienza di immersione nel film più reale di quanto previsto. Così, con i film giusti... horror, gialli, thriller... ci scappava il morto.
Poi la sala veniva posta sotto sequestro, tutto il materiale isolato, messo in un magazzino, e infine, quando non potevano più legalmente trattenerlo, veniva riciclato in una sala diversa.
Non sapevo se la polizia stava seguendo questa pista, ma l'idea mi terrorizzava. Un programma killer faceva più paura di una persona killer.
Dei programmi avevamo imparato a fidarci.

Cercherò di farti avere mie notizie ogni volta che è possibile, ma sai com'è Mediaterram... fuori dall'aeroporto, è come essere fuori dal mondo. O così mi hanno detto.
Devo andare adesso, o perderò il mio volo. Ti voglio bene.
La tua adorata sorella
Dalia Fleur

Alzai gli occhi dalla lettera e mi ritrovai a fissare quella che a prima vista mi parve la virtuacopia di un uomo grasso, baffuto, in una vecchia uniforme. L'immagine tremolò, attraversata da scariche statiche, poi fece un passo in avanti e cominciò a parlare e io mi resi conto che non era un ologramma artificiale, bensì un uomo vero, collegato con me via commlink.
– Signorina Gardenia Fleur?
Annuii, seduta al tavolo virtuale.
– Sono l'ispettore capo dell'aeroporto di Mediaterram. Sono qui per sua sorella. Volevo dirglielo personalmente, prima che lo venisse a sapere dalle notizie via commlink.
L'uomo s'interruppe, si tolse il berretto e lo stritolò tra le mani. Mi fissò con un'espressione contrita che mi fece temere il peggio.
– L'aereo è precipitato? – esclamai, più che chiedere, alzandomi in piedi.
– No, no – fece l'ispettore. – È atterrato regolarmente, più puntuale del solito, anzi. Solo...
Lo fissai in silenzio mentre si schiariva la gola.
– Durante il volo hanno proiettato un film per i passeggeri. Non è una cosa insolita, lo fanno spesso. Ma non era mai accaduto, su un aereo...
Non aveva bisogno di proseguire. Strinsi la lettera virtuale e le sue promesse che nessuno avrebbe più mantenuto. Era solo il frammento di un programma, il residuo impalpabile di una vita.
Il resto, quello che lui non diceva, riuscivo a immaginarlo.

lunedì 16 ottobre 2017

Invisibile

(racconto ispirato dall'esercizio La storia dei tuoi sogni. Tratto da un incubo di qualche anno fa in cui la storia era sotto forma di fumetto, però era un fumetto molto inquietante! Da questo racconto ho tratto un seguito nel brano legato alla parola Tilde)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


La donna era là, tra i rami dell’albero. Gialla ed un po’ trasparente, come parte dell’aria che la circondava. Molto diversa da come l’aveva vista quel giorno, ma era lei. Dora. Dora Sanchez. Spagnola. Biologa…
Era stato mandato assieme ad un’equipe di medici a causa dell’emergenza biologica. A casa di Dora. Non gli avevano dato molte spiegazioni. Tutto ciò che sapeva era che Dora il giorno prima aveva analizzato una nuova specie di fungo trovato in una grotta. Deuteromiceti. La sua tuta però aveva uno strappo e Dora probabilmente era entrata in contatto con le spore. Ma nessuno se ne era accorto, e lei era tornata tranquillamente a casa. Il giorno dopo la zona era stata isolata. Una squadra era stata mandata per controllare la situazione dell’epidemia. Lui era nella squadra. Ricordava perfettamente il corpo di Dora. Sembrava ricoperta da una polvere gialla… giallo zafferano, per la precisione. Ed era morta. Ogni cosa, nell’area isolata, era morta. Era bastato un giorno. Un solo giorno. Niente, prima di allora, era stato in grado di uccidere ed espandersi così rapidamente. Se non fosse stato per l’anziana Madre di Dora, allarmata dalle sue condizioni, l’epidemia non sarebbe stata fermata in tempo. La signora Sanchez aveva descritto al telefono le strane macchie e cicatrici sul viso della figlia. Ma ormai era troppo tardi per Dora, sua madre e l’intero quartiere. Una volta costatato che tutti erano morti, fu presa l’unica decisione possibile: bruciarli… bruciare tutto. Un’immensa fiammata che durò per tutto il giorno e la notte. Un rogo immane.
Ed ora Dora era là, sull’albero. Lei, l’unica che il poliziotto avesse visto in viso, tornava ad angosciare non solo le sue notti, ma anche i suoi giorni. Per un improvviso, immotivato terrore puntò la sua pistola verso l’immagine, gialla ed un po’ trasparente, di Dora. Gli sembrò che sorridesse. No, possibile che… stava forse impazzendo? Guardò nuovamente tra i rami, ma Dora era sparita.

Eccoti, ora sei qui, finalmente. Sei uno di quelli, no, di più… Sei stato tu a guardarmi negli occhi. Sei stato tu a dirlo. Non dovevi…
–È morta.–
–Sono tutti morti.– Aveva risposto, come un eco, il medico legale.
Tu mi hai guardata e non hai capito. Non stavo morendo. Stavo cambiando. Ma tu non l’hai capito. Forse sei stato tu a dare quell’ordine… le fiamme, che mi hanno dispersa nell’aria? Non importa più. Non ora.
Scendo, invisibile, mescolata al vento. Invisibile, giro la tua stessa arma, nelle tue mani, fino a puntarla contro il tuo viso attonito. Invisibile, premo il grilletto.
Bang.

E mentre tu stai cadendo a terra io volo, invisibile, nel vento.

sabato 14 ottobre 2017

Hybris

Si scrive hybris, ma si legge iubris. Essendo cresciuta, almeno in parte, a tragedie greche (non è una metafora... proprio Euripide, Sofocle e compagnia), non potevo esimermi dal presentare, prima o poi, questo termine affascinante mutuato dal greco. Sono certa che, anche se non viene citato esplicitamente, il concetto trova posto anche in molte storie moderne.

Hybris s.f. gr. (solo sing.); in it. s.f. inv. (solo sing.) Nell'antica Grecia, presunzione di forza, di potenza, propria dell'uomo che offende gli dei e ne provoca la vendetta.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Mi sono chiesta: quale dei miei personaggi rappresenta meglio l'hybris? Avevo i falsi dei del racconto di Night Shamyan, ma in effetti non sono neanche umani. Poi, complice l'immagine azzeccatissima (ce lo vedo a commissionare una statua del genere!) mi è tornato in mente lui, il presidente contro il quale tramano Helanna e l'altro uomo non nominato in Amaricante.


– Immortale – dichiarò il presidente a bassa voce, gustando la parola. Proseguì in tono stentoreo, la voce di comando con la quale affascinava le folle. – Non nel ricordo dei miei concittadini, in una statua da venerare per il resto della storia, ma qui, ora, in carne e ossa.
Gli rispose uno sbuffo e una voce roca. – Non immortale. Invulnerabile. C'è una certa differenza, signor presidente.
La voce apparteneva al mago trattenuto in ginocchio, in catene. La mano destra aveva i polpastrelli anneriti, non per la tortura, ma per l'eresia che aveva commesso.
Il presidente rivolse un cenno a una delle guardie che colpì il mago al volto, sibilando: – Silenzio!
Ai miei occhi erano entrambi colpevoli di una diversa forma di hybris. Il presidente che voleva governare il mondo come un dio immortale. Il mago che aveva piegato le energie che manipolava in un modo mai tentato prima, pur di creare un mezzo per disfare il dono che aveva elargito.
Quanto a me, ero un uomo pratico, e preferivo stare dalla parte di quello dei due che aveva più probabilità di sopravvivere alla propria arroganza. Il mio vecchio maestro era già condannato, non dal presidente, ma dalla stessa magia.
– Il traditore tradito dal suo apprendista – dichiarò il presidente. Dal mio posto alle sue spalle, mi concessi un sorriso. – Credo che il modo migliore per confermare la sua nuova lealtà sia di assistere mentre l'apprendista rende... conveniente, per il maestro, rivelare dove ha nascosto il secondo medaglione.
Il mago biascicò qualcosa sottovoce, con l'irritazione di chi rumina una serie di bestemmie. Avrei continuato a sorridere, ma mi si rizzarono i peli sulla nuca.
– Presidente, sta scappando! – urlai, riconoscendo una parola dell'incantesimo.
Ci fu un lampo di luce e il mago era svanito.
Il presidente si rivolse a me con occhi accesi d'ira: – Non lo avevi perquisito, idiota?
Avevo creduto di essere il più furbo e di poter manipolare chiunque, perfino gli dei. Ma forse ero io quello affetto da hybris, dopotutto.

giovedì 12 ottobre 2017

Ispirazione onirica

Alterando una celebre domanda, "scrivere è un sogno o i sogni aiutano a scrivere meglio"? Io non lo so. Ciò che so, è che i miei sogni sono popolati di magia, vampiri, fate, alieni, streghe, fantasmi, draghi, metamorfosi e voli, e spesso mi forniscono lo spunto per una storia. Sogno anche eventi quotidiani, ovviamente; ma nulla di così memorabile da finire sulla pagina. Le storie pensate di notte hanno un vantaggio: possiedono un filo diretto con l'inconscio, quel calderone di immagini e simboli su cui ci interroghiamo da Freud in avanti. Hanno un senso per chi, senza volerlo e senza sapere come, le crea. E sono interpretabili da chi ne viene a conoscenza.

Raccontare un sogno durante la colazione alla propria famiglia è qualcosa di così universale che dubito tu non l'abbia mai fatto. Sulle pagine di un libro è un po' meno comune, ma chissà quanti romanzi e racconti, a tua insaputa, sono partiti da questa scintilla. Ad esempio, riesci a indovinare quale dei romanzi di Stephen King è stato scritto a partire da un sogno durante un viaggio aereo?

Ma... c'è un ma. I sogni e le storie sono fatti in maniera talmente diversa che è necessario colmare la distanza, nel passare dagli uni alle altre. Questi sono i principali ostacoli che ho incontrato nel mio cammino.


Coerenza
Partirò dal più grande di tutti, ovvero la mancanza di coerenza. Durante le mie avventure notturne, non mi sconvolge il cambiamento di un dettaglio in corso d'opera, un'assenza, un'improvvisa comparsa, o l'assurdità di una situazione impossibile che resta priva di spiegazione, fosse anche una fantasiosa. Quelli che definirei errori nella scena di un film o tra le pagine di un libro, nel sogno sono la norma. Quando scelgo di usare un sogno come base per una storia tutte queste piccole o grandi incoerenze vanno eliminate, gli strappi ricuciti, le spiegazioni trovate.

Dettagli superflui
In un sogno, tanti dettagli su cui la mia mente si sofferma sono di troppo. Non ha senso sottolineare il colore di un'automobile che passa e non sarà mai più nominata, o inserire in una scena un personaggio che non ha alcun motivo di essere lì, e che non modifica minimamente la vicenda con la sua presenza. Tutto ciò che è poco utile ai fini della storia, lo tolgo senza pietà. So che devo ridurre all'essenziale, trovare il fulcro della vicenda, e ricostruire il sogno attorno a esso.

Sequenza di eventi
Così come non c'è coerenza nei dettagli, ugualmente non la ritrovo nel modo in cui gli eventi sono presentati. Il percorso seguito da un sogno può essere erratico: la causa non precede l'effetto e salta da una scena all'altra senza un filo logico. Una storia difficilmente può riuscire seguendo lo stesso modo di precedere (non lo nego: le eccezioni esistono... ma più spesso, almeno nel mio caso, preferisco procedere con ordine). Quindi riorganizzo la sequenza di eventi in modo che fluiscano naturalmente l'uno nell'altro, senza quei salti continui che tanto mi confondono nel ricordarli da sveglia.

Inizio e fine
Una storia è compresa tra due punti precisi: l'incipit e il finale. Un sogno non sempre ha confini così netti. Posso non sapere esattamente dove inizia perché non me lo ricordo, o perché il sogno, mentre lo sperimento, mi dà l'impressione di essere una continuazione della vita, o almeno di una versione alternativa della vita. Quanto al finale... il sogno finisce quando mi sveglio sì, ma raramente avviene in un punto che mi offre l'idea di una vera conclusione. Per trasformarlo in una storia, faccio così: il punto di inizio lo scelgo, e il finale lo creo.

Fissare il ricordo
I sogni tendono a svanire velocemente dalla memoria: come un'immagine su un vetro appannato, si riducono sempre più, fino a non lasciare traccia. A meno che io non li descriva a qualcuno, o non prenda appunti appena sveglia, nel giro di poco tempo non mi rimane niente su cui lavorare. I sogni che ricordo sono quelli che racconto, non necessariamente ad altri, ma almeno a me stessa.


E tu, hai mai provato a trasformare un sogno in una storia? Hai trovato le mie stesse difficoltà, o altre ancora che non ho nominato? Scrivile pure nei commenti, e ricorda che aspetto ancora il tuo brano! Ah, e per quanto riguarda il romanzo che Stephen King ha sognato prima di scriverlo, lo hai indovinato? Si tratta di Misery. Una curiosità: in quel caso, se l'autore avesse seguito in tutto e per tutto la sua ispirazione onirica, il protagonista se la sarebbe passata molto peggio!

lunedì 9 ottobre 2017

La storia dei tuoi sogni

Buongiorno sognatore!

Dormito bene? Sì? Lo spero, perché anche se non lo sapevi, la tua avventura di stanotte fa parte della tua missione di oggi.

Ma ora, occhi aperti e mente sveglia, perché ho da rivelarti i dettagli della tua missione. Non devi far altro che seguire queste semplici istruzioni:

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Ricordi il tuo ultimo sogno?
Se non l'ultimo, il penultimo. O quello della settimana scorsa. O quello che sognerai stanotte. Non serve nemmeno che lo ricordi tutto: basta che tu ne abbia memorizzato almeno qualche dettaglio.
Male che vada, se non ti viene in mente nessun sogno recente, puoi usare un sogno ricorrente della tua infanzia.

Usalo come base di partenza per raccontare una storia.
La storia che scriverai può riguardare l'intera sequenza del sogno, o prendere spunto da pochi dettagli. A te la scelta.


Non ho altro da dirti per ora. Se hai dei dubbi, giovedì ti rivelerò come io affronterei un esercizio del genere. Se invece ti senti abbastanza sicuro da cominciare, scrivi il tuo brano nei commenti qui sotto.
Buona fortuna, e sogni d'oro!

sabato 7 ottobre 2017

Grottesco

Se pensi che la parola di oggi abbia a che fare con le grotte... un po' hai ragione. Infatti è quella la sua etimologia: deriva dagli arabeschi ritrovati su cripte o grotte antiche. Poi il suo significato si è ampliato fino a includere tutto questo.

Grottesco [grot-té-sco] agg., s. (pl.m. -schi, f. -sche) 1 agg. Bizzarro, deforme al punto da risultare ridicolo. 2. agg. Paradossale, innaturale; stravagante, eccentrico. 3. s.m. (solo sing.) Situazione e sensazione che scaturiscono da ciò che è strano, paradossale. 4. s.m. (solo sing.) In letteratura, aspetto del comico che deriva da uno squilibrio voluto tra gli elementi di una rappresentazione.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Di solito scelgo personaggi e ambientazioni tratte dai miei appunti di lunga data per il brano che accompagna la parola del sabato. Stavolta però ho usato un'idea recentissima, che mi è frullata in testa proprio negli ultimi giorni. Così recente che non si è ancora del tutto affrancata dalla sua fonte di ispirazione, e se ti piacciono i giochi di ruolo, potresti riuscire a rintracciarla.
Come scrivevo in un gruppo, non amo le schede dei personaggi, e per idearli ne approfondisco il background e la psicologia scrivendo dei brani preparatori. Questo potrebbe essere uno di essi.


Era stato tutto assurdo, da quando Kàli mi aveva trascinato oltre la porta. Gli spiriti che aleggiavano sulle sue braccia squamate mentre mi guariva. L'eterogeneo gruppetto che mi guardava con compassione parlandomi del Giorno delle Urla, del loro passato che era il mio futuro. L'uomo-cavallo e la donna-pianta e le altre Aberrazioni. Tutto assurdo.
Pensavano che sarei morto comunque, perché avevo respirato la loro aria.
Avevo fatto i miei calcoli, e se la popolazione umana si era ridotta della metà nel Giorno delle Urla, significava che avevo il cinquanta per cento di probabilità di non farcela. La mia vita era legata al lancio di una moneta: morire, o cambiare. Perciò avevo chiesto di vedere il futuro.
La scusa ufficiale era che nel mio ultimo giorno avevo il diritto di fare il turista. Di vedere la tecnologia e la vita del ventiquattresimo secolo. La mia motivazione inconfessabile era che volevo valutare le varianti umane più comuni e capire quale speravo si nascondesse nei miei geni, in caso fossi sopravvissuto.
Della visita a Metronas, ricordo un uomo con una maschera grottesca che gli copriva tutto il volto, perfino gli occhi. Chiesi spiegazioni a Kàli: pareva una maschera antigas, ma lei mi aveva detto che non esisteva niente in grado di filtrare il mana nell'aria.
– Quella non serve per respirare. Vedi le fiamme sulle sue dita? Quell'uomo è un'Aberrazione, una Salamandra per essere precisi. Non vede, ma percepisce il calore.
– La maschera è per evitare che gli cada la faccia – mi sussurrò uno degli altri.
Non avevo idea che mi sarei ritrovato, qualche giorno più tardi, a fissare un riflesso che non riconoscevo. Quel volto non era meno grottesco della maschera dell'uomo-Salamandra. Pelle nera, dura e secca, come carbonizzata. Denti lasciati scoperti da una bocca priva di labbra. Due fessure al posto del naso.
Solo gli occhi erano ancora i miei. Il resto di me era come una mummia avvizzita.
In quel momento desiderai che la mia moneta fosse caduta sulla faccia opposta.

giovedì 5 ottobre 2017

Un uomo di un certo peso

(racconto ispirato dall'esercizio Il racconto è la risposta. Stavolta la domanda è: "E se le sedie potessero parlare?")

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Che fa quell’armadio ambulante? Mi sta fissando. È già da un po’ che mi fissa. E poi si muove. Non credevo che riuscisse a muoversi, ma lo fa. E allora mi prende il panico.
Non verrà mica da me, quello? Strillo alle mie compari. No, eh! Ma non lo vede che è enorme, più grosso di un elefante e di una balena messi insieme, non lo capisce che se ci provasse, a sedersi qui, le sue natiche grosse come due angurie da record, ma non altrettanto compatte, deborderebbero in un ammasso informe proteso verso il pavimento? Non riesce a farsi due calcoli e intuire che potrei non reggere la sua stazza, svenire e farci finire entrambi col culo all’aria, o peggio ancora rompermi una gamba, e poi sì che sarebbero dolori per tutti e due?
Che se ne vada di là, in poltrona. Lei di certo riuscirebbe a sorreggerlo, facilmente e dignitosamente. Ma niente, quello fa orecchie da mercante e prosegue imperterrito, mi trascina sul pavimento, si gira, e cala le chiappe colossali. Da sotto ne ho una perfetta visione mentre si avvicinano sempre di più, minacciose e inesorabili. Ormai è impossibile fargli cambiare idea, è lanciato e nulla lo può fermare. Mi faccio forza e stringo più che posso le gambe e lo schienale, preparandomi al contraccolpo che giunge poderoso, scuotendomi tutta. Lo reggo. Miracolosamente, lo reggo. Sento le mie comari bisbigliare. Mi compatiscono, ma non muoveranno una scheggia per aiutarmi nel mio ingrato compito. Non mi resta che tentare di star più rigida e salda che posso, e pregare che gli venga voglia di alzarsi presto.

lunedì 2 ottobre 2017

Lui non c'è

(racconto ispirato dall'esercizio Il racconto è la risposta. Per non rovinare il gusto di scoprirla leggendo, ti rivelerò la domanda solo alla fine)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


La mattina dopo mi svegliai e il mio riflesso non c'era. Lo cercai per primo nello specchio del bagno, ma come se fossi stato trasparente, il rettangolo sulla parete rifletteva l'intera stanza tranne me.
"Quella di stanotte è stata un casino di festa", pensai, "e io sono ancora sbronzo".
Mi sciacquai la faccia con l'acqua gelida, alzai il viso, e il mio riflesso ancora non c'era.
"Cristo!" Pensai, con la testa che mi scoppiava. "Vuoi vedere che sono schiattato e adesso sono un fantasma? Oppure un vampiro. Può essere, sì. Come si chiamava quella tizia mai vista che è venuta con Marco? Debora? Lo dicevo io che era pallida. E baciava troppo bene per essere vera."
Fissando il vuoto nello specchio, presi a schiaffeggiarmi le guance. "Svegliati... svegliati, dai!"
Mi sentivo un po' troppo fisicamente ingombrante per essere uno spettro incorporeo, e la luce del mattino che entrava dalla finestra del bagno non mi aveva ancora incenerito. Nel mio stato mentale annebbiato, c'era solo un'ultima prova per liquidare quelle ipotesi fantasiose: afferrare il tubetto del dentifricio e  sollevarlo di fronte allo specchio.
Le mie dita non lo attraversarono: non ero un fantasma.
Il tubetto del dentifricio non apparve fluttuando nel riflesso dello specchio, trattenuto da una mano invisibile: non ero un vampiro.
Mi grattai la testa. "Ma allora cosa..." Solo in quel momento notai che al di là dello specchio, il dentifricio non si era mai mosso dal suo posto sul lavello.
Scoppiai a ridere.
Davide, quel gran burlone del mio amico Davide. Non era la prima volta che mi giocava un tiro del genere, ma quello era il più elaborato che avesse mai messo in atto. Non sapevo come avesse sostituito lo specchio con una fotografia del mio bagno incorniciata. Aveva coinvolto tutti gli altri per farmi ubriacare ed effettuare lo scambio?
Ridendo, mi diressi allo specchio a figura intera in salotto. Dovevo schiarirmi le idee e restituirgli il favore, se possibile, in maniera ancor più eclatante. Presi il telefono e mi girai a guardarmi nello specchio, pensando che dovevo avere un aspetto spaventoso.
Non lo scoprii, perché anche lì il mio riflesso non c'era.
Possibile che Davide fosse arrivato al punto da scambiare anche l'enorme specchio inchiodato alla parete del salotto?
Mi protesi in avanti così tanto che la mia fronte sembrò affondarvi dentro, come se fosse composto da morbida gelatina, invece che da una lastra di vetro. Mi tirai indietro. Appoggiai la mano, ma lo specchio non offrì alcuna resistenza, e io caddi in avanti.
Mi guardai attorno. Ero nel mio salotto, ma era tutto al contrario. Il televisore, il mobiletto dello stereo, i cuscini sul divano dove aveva sonnecchiato Andrea erano dalla parte sbagliata. Persino le scritte sulle etichette delle bottiglie vuote abbandonate a gruppi qua e là erano al contrario.
Mentre mi guardavo attorno, frastornato da quel bizzarro dopo sbornia, la mia voce uscì da una bocca che non era la mia.
– Non è possibile, sono di nuovo in ritardo. Questi festini notturni mi ammazzeranno, se non lo fa prima il capo...
Dalla porta del salotto entrò uno del tutto identico a me. Giuro, avrebbe potuto essere il mio gemello perduto. Non appena quello mi vide, spalancò gli occhi e prese a sbraitare, per la gioia del mio mal di testa: – Che ci fai tu qui? Fuori! Fuori! Tornatene nel tuo mondo!
L'altro me mi raggiunse e mi spinse indietro, da quella che ormai avevo capito essere la mia parte dello specchio. Poi mi lanciò il telefono che mi era caduto di mano, borbottando: – E guai a te se lo racconti a qualcuno. Non ho proprio voglia di perdere il lavoro, amico.
Si sedette a terra, si spettinò i capelli e assunse la mia stessa espressione stordita. E da quell'istante in avanti, fu tutto come prima. Il mio riflesso era identico a me, sincronizzato con me, e non riuscii più ad attraversare lo specchio, poiché ogni volta che allungavo una mano, lui faceva altrettanto, spingendo contro il mio palmo con la dura freddezza di una lastra di vetro. Neanche provare a saltarci dentro all'improvviso ha funzionato. Niente, per quanto ci provi, lui è sempre pronto a imitare ogni mia mossa, sempre pronto a respingermi.
Da allora, sto aspettando il giorno in cui il mio riflesso si sveglierà di nuovo tardi.


La domanda da cui ha preso spunto questo racconto è: e se gli specchi fossero portali per un altro mondo, e i nostri riflessi le persone pagate per tenerci fuori?