lunedì 28 novembre 2016

Piccole donne

(incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal mercoledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio illusioni, però: dice tante cose. Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scacchiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita dura un’ora o più.

      “Non tocca a me il nero” faccio, come ogni volta.

      “Si invece” dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi come se fossero un piccolo esercito del bene. Le piace sentirsi buona, pura, pulita. Come una scacchiera con i pezzi ben allineati prima di giocare, o un foglio bianco su cui nessuno ha ancora scritto. Caterina dice che allora, all’inizio, è tutto possibile; poi succede qualcosa, la storia si guasta, e non si può più tornare indietro.

      Io protesto senza troppa convinzione, come ogni volta, poi come ogni volta cedo e prendo il nero. A me piace farla felice.

      Caterina sorride e si sdraia a pancia in giù sul pavimento, senza attendere che mi sieda muove uno dei suoi cavalli. Scuoto la testa. La giovinezza non ha pazienza, vuole subito entrare nel vivo delle cose. Io mi siedo sul cuscino, con le gambe allungate di lato, e sposto uno dei miei pedoni. Mi sono sempre stati simpatici, così piccoli e tutti uguali, eppure ognuno sulla sua riga, dritto per la sua strada. La gente tende a sottovalutarli, preferendo i pezzi più “importanti” e con più libertà di movimento sulla scacchiera. Per me invece, perdere anche soltanto uno di quei piccoli soldati è quasi doloroso.

      Caterina risponde alla mia mossa. Io non le bado, preparo la mia strategia con la saggezza degli anni, certa che perfino lei non oserà rischiare, non così presto. Infatti preferisce non rovinare la storia, o la partita.

      All’inizio giochiamo in silenzio, come al solito, godendo ciascuna della presenza dell’altra. Fuori dalla finestra la siepe di biancospino, coi fiori bianchi odorosi di maggio, ci protegge come le mura di un castello incantato, lasciandomi credere che questo sia davvero il suo – il nostro – piccolo momento di piacere. Fuori di qui, altrove, la vita guasta le storie. Qui no, non di mercoledì pomeriggio almeno.

      Caterina fa la sua mossa e poi mi guarda, fremendo d’impazienza. Si calmerà, più avanti, lo so; per ora, ogni mossa le sembra una scelta facile. Sposto uno dei miei alfieri per metterla un po’ in difficoltà.

      “E ora che dici?” le chiedo con un sorriso sornione. Lei sbuffa, si puntella sui gomiti e appoggia il mento sul palmo della destra, scrutando la scacchiera. Mi pare quasi di vedere, dietro i suoi occhi chiari, tutte le mosse che sta considerando assieme alle mie possibili risposte. Distolgo lo sguardo con discrezione, voglio lasciarla pensare in pace. Sul comodino, accanto al letto, la copia di “Piccole donne” che le ho regalato per il suo compleanno sta prendendo polvere.

      “Sei ancora ferma a pagina novantasette?” le chiedo.

      Lei annuisce con un mugolio disperato. So cosa avviene a pagina novantasette: a casa ho una copia della stessa edizione. A pagina novantasette, Amy brucia il libro di Jo.

      Per Caterina, che si era innamorata a prima vista della parola scritta, che a poco più di sei anni aveva deciso di voler fare la scrittrice, per Caterina che era felice ogni volta che prendeva in mano la penna o che leggeva una storia, il gesto di Amy era stato un affronto imperdonabile. E come Jo si era arrabbiata molto con la piccola donna, di quella rabbia ostinata di cui sono capaci soltanto i bambini. Fosse stata una sua amica, Caterina avrebbe smesso di parlare con Amy; dato che era un personaggio in un libro, aveva semplicemente smesso di leggere.

      “Quanto tempo è passato? Dovresti fare la pace con lei” le dico. “Mi piacerebbe che lo finissi. Così potremmo parlarne.”

      Caterina non risponde. So di aver toccato un tasto dolente. Eppure è un peccato: le ho regalato quel libro perché ci unisse, non perché ci separasse.

      Siamo entrambe, in un certo senso, piccole donne. Anche se lei non lo rimarrà ancora a lungo.

      Caterina a dodici anni già sembra un’adulta in miniatura. Indossa sempre quei vestiti aderenti, moderni, che io alla sua età non avrei mai potuto immaginarmi addosso. Anzi, me ne sarei vergognata. Oggi ha una blusa bianca, scollata, e una minigonna in jeans. I piedi, fasciati in collant color pelle, dondolano nudi al di sopra della schiena. Sulla bocca imbronciata ha un velo di lucidalabbra rosa; il massimo che le sia permesso, per ora. La immagino guardare i trucchi di sua madre con desiderio e trepidazione, come tutte le bambine della sua età. Come facevo anch’io in un altro tempo, quando però i trucchi erano pochi e i soldi da spendere in simili lussi ancora meno. Guardavo mia madre, riflessa nello specchio, tingersi le labbra di rosso con parsimonia e indossare la collana di perle. Quel rossetto, quelle perle, erano tesori preziosi, da usare soltanto in occasioni speciali. Era bella, mia madre. Io la guardavo e mi immaginavo allo specchio come lei, bella e alta come non sarei mai stata. Dove è finito quel tocco di rosso? È sbiadito in una fotografia in bianco e nero, ma è vivo più del presente nella mia memoria.

      All’improvviso mi viene voglia di raccontarglielo, perché qualcuno dopo di me lo possa ricordare. Caterina ascolta, annuisce condiscendente; però, dopo poco, fa: “tocca a te, nonna.”

      Non c’è posto per il rosso, negli scacchi.

      Mi sono distratta. Le chiedo di mostrarmi la sua ultima mossa, lei me la indica con un dito. Mi sembra impossibile ma già ci sono dei pezzi fuori dalla scacchiera, sia neri che bianchi. Lei ha sacrificato quasi tutto l’esercito di pedoni a cui sembrava tenere così tanto, ma almeno ha ancora entrambi i cavalli, i suoi preferiti. Dei neri, mancano all’appello un cavallo, un alfiere, e – ahi – due dei miei piccoli, coraggiosi pedoni. Li accarezzo, vorrei quasi sussurrare loro: “siete stati bravi, non vi dimenticherò”.

      Caterina mi guarda, in attesa. Rifletto sulla mia prossima mossa e nel frattempo lei si rilassa, e come sempre a questo punto diventa ciarliera. Mi racconta della scuola, delle amiche, del fidanzato che ancora non ha ma che spera di conquistare, delle storie che ha scritto. Dice che vuole leggermene qualcuna, forse mercoledì prossimo, o quello dopo, quando riesce a finirle. Dice che mi piaceranno.

      Quando la partita termina con Caterina che dichiara “scacco matto”, mi sembra impossibile che sia già passata un’ora. Mi sembra impossibile che sia già passata una vita intera. Fino a pochi istanti fa, ero io ad avere dodici anni e a giocare a scacchi con mio padre. Il tempo scorre così in fretta.

      Lei si alza da terra prima di me e viene a darmi una mano. Io sgranchisco le mie gambe storte, poi mi faccio aiutare a rimettermi in piedi. Siamo entrambe piccole donne, ma lei ormai mi ha superata in altezza. Non posso che esserne orgogliosa. Caterina diventerà bella e alta come mia madre, come la donna di cui porta il nome, e il solo pensiero mi procura un piccolo brivido di piacere.

      “Già non vedo l’ora che sia mercoledì prossimo” mi confessa ansiosa. Un po’ la capisco: una settimana è un periodo di tempo molto lungo quando si ha la sua età. Per me invece non è che una manciata di momenti.

      Prima di congedarmi accenno al libro sul comodino. “Per favore, perdonala. Fallo per me.” Non le dico che è solo un personaggio in un libro, che succederanno cose più gravi nella sua vita per le quali varrà la pena arrabbiarsi. Lei lo sta prendendo molto sul serio, e va bene così, alla sua età.

      Caterina mordicchia il labbro inferiore velato di rosa. “Jo la perdona?” mi chiede.

      “Oh, furbetta! Devi scoprirlo da sola” faccio, mentre mi accompagna alla porta. La saluto, sperando ardentemente che la curiosità abbia il sopravvento e che lei riprenda a leggere.


      È mercoledì. Caterina è appena tornata dalla chiesa. È vestita di nero; sembra uno dei miei pedoni. Lei, che non ha mai sopportato il nero.

      Tira fuori dall’armadio la scacchiera, prepara i cuscini, dispone con cura ogni pezzo, lentamente, anche se già sa che stavolta non verrò. Accarezza i suoi pedoni bianchi, muta. Il suo piccolo esercito del bene. Poi inizia da sola, muove il cavallo, attende. Guarda il cuscino vuoto. Fuori dalla finestra, la siepe di biancospino non può più proteggerla. È successo qualcosa, la magia si è spezzata, la storia guastata. Con un gesto rabbioso Caterina butta all’aria tutto. Bianco e nero si confondono sulla scacchiera, entrambi gli eserciti abbattuti in una singola mossa.

      Non ha più voglia di giocare, va a sedersi sul letto. Sul comodino, la copia di “Piccole donne” sta prendendo polvere. Caterina l’afferra, passa una mano sulla copertina. La mano le si riempie di polvere e le ricorda una frase che ha sentito oggi, in chiesa. Si spaventa, la pulisce in fretta sull’abito nero e apre il libro. A pagina novantasette, per tenere il segno, c’è una fotografia in bianco e nero che ritrae una donna alta, bella, accanto a una bambina della sua età. Difficile indovinare i colori di un tempo negli abiti lunghi e sui loro volti. Difficile indovinare che cosa pensavano, cosa stavano facendo in quello che a lei sembra un loro piccolo momento di piacere. E dev’esserlo stato, non solo perché sorridono, ma anche perché la gente non vuole avere una fotografia di quando è triste.

      Caterina mette da parte la foto e comincia a leggere ad alta voce, come facevo io per lei quand’era piccola.
 
       Finalmente ha fatto pace con Amy.

sabato 26 novembre 2016

Diorama

La scelta questa settimana è stata ardua. Troppe parole interessanti da cui lasciarsi ispirare. E ho pure cambiato idea all'ultimo istante, ma... eccola qui!

Diorama [dio-rà-ma] s.m. (pl -mi) 1. Raffigurazione con cui, utilizzando una particolare illuminazione, si riesce a dare al pubblico l'illusione di un panorama reale. 2. estens. Veduta panoramica.

Work in Progress: Pullip-scale Room Box, di davidd, licenza Creative Commons. Immagine modificata con l'aggiunta di scritte.


Diorama è anche utilizzato come sinonimo di plastico: rappresentazione tridimensionale, in scala, di un ambiente o una scena, con o senza modellini di personaggi. Ed è in questo senso che l'ho usato per il frammento di racconto di oggi.


Mi chinai sul diorama di ghiaccio, una perfetta rappresentazione in miniatura della sala da pranzo, con tanto di tavolino traslucido e sedie con le gambe più sottili di uno stuzzicadenti. Le tre figure diafane che lo popolavano parevano fatte di vetro: ecco Neve, seduta sul tavolino come la prima volta che l'avevo vista; poco più in là, dentro un cerchio, una creatura bassa, grassoccia e con un pon pon sul cappello, le braccia allargate e la bocca spalancata; e infine c'ero io, proteso verso l'ometto nel cerchio, che stringevo in mano qualcosa che assomigliava a un fiocco di neve. Un indice pallido quanto il ghiaccio con cui lo aveva modellato sfiorò quel dettaglio.
– Quello è il quadrifoglio – spiegò Neve, come se ce ne fosse bisogno.
Tastai la testa della statuetta di ghiaccio che mi rappresentava. Il gelo sotto il mio polpastrello non m'infastidiva, ma mi soffermai sulle due protuberanze sulla sommità del capo, passandoci più volte il dito.
– Lo sai, vero, che io non ho le corna?
A passare per umano sono sempre stato più bravo di lei. E non soltanto perché lo sono almeno in parte.
– Licenza artistica. Le ho fatte in modo che capissi subito quale sei tu – replicò Neve con naturalezza, aggiungendo: – Infero.
La scrutai, poi abbassai lo sguardo al diorama. Come se avessi potuto scambiare per me il folletto grasso, o la versione più minuta e in apparenza innocente della yuki-onna.
Neve plasmò le statuette di ghiaccio per farle muovere e mi spiegò il resto del suo folle piano.

giovedì 24 novembre 2016

Partita a scacchi con il narratore

Lunedì avevo accennato a due differenze che avevo notato tra il primo incipit, "Sentirsi", e questo di "Piccoli piaceri". Una è un inizio di dialogo. La seconda è che stavolta invece di un narratore in terza persona, la storia è raccontata in prima persona ("non mi faccio illusioni", "quando arrivo", ecc.) da un narratore che partecipa alla vicenda.

Non resta a osservare dall'esterno, distante e anonimo. È allo stesso tempo narratore e personaggio.
La differenza è abissale.

Un narratore in prima persona ha per forza di cose un'identità. È qualcuno di riconoscibile per te che leggi, qualcuno che ti sta raccontando una storia che ha contribuito a creare. E oltre ad agire in essa, avrà anche un suo punto di vista, necessariamente limitato, e un suo modo di ricordare/raccontare i fatti che può differire da come si sono realmente svolti. Mentre un narratore in terza persona, slegato da qualsiasi personaggio nel racconto, può permettersi di essere onnisciente (conoscere ogni dettaglio della storia, dal quadro generale fino al singolo pensiero di ogni singolo personaggio) e impersonale, per quanto possibile all'autore (descrivere solo, senza commenti), un narratore in prima persona di solito non è nessuna delle due cose. Non sa tutto, può mentire, omettere dettagli, presentarsi sotto una luce migliore di quanto non sia in realtà. E se non c'è un secondo punto di vista a chiarire la faccenda e svelarti l'inganno, non saprai mai se e quanto il narratore è affidabile. A un narratore in prima persona non bisogna (sempre) credere.

Secondo la mia esperienza è più interessante da scrivere, ma anche più difficile. Perché bisogna filtrare ogni frase attraverso la personalità e il modo di esprimersi di qualcun altro, tener presente quello che può o non può conoscere, adattare metafore e modi di dire, perfino il ritmo della narrazione o gli elementi su cui si concentra o che trascura. Poco male se il narratore è più o meno simile a chi scrive; ma che bella sfida quando appartiene a una cultura, sesso, età, o perfino pianeta diverso! Come giocherebbe a scacchi un simile individuo?


Ma tornando al concorso: avevo il narratore in prima persona, l'inizio e il titolo/tema del racconto. Come già fatto Sentirsi, non ho trascurato di creare una mappa mentale da Piccoli piaceri:


La mappa è meno articolata dell'altra perché in questo caso stavo cercando solo qualche spunto sui "piccoli piaceri" e il loro significato da inserire nel racconto. Inoltre, leggendo gli altri racconti creati con il primo incipit ho scoperto che non era obbligatorio usare il titolo di Giusi Marchetta, perciò a partire da questo mi sono sbizzarrita quanto a titoli.

Del tempo verbale (presente, prima persona) e dialogo (c'è, sia indiretto all'inizio che diretto) ho già scritto.

Restano le classiche domande Who, What, When, Where, Why (Chi, Cosa, Quando, Dove, Perché), e l'analisi approfondita dell'incipit.

Chi? Due persone, una è Caterina, l'altra il narratore dall'identità non specificata
Dove? Una casa, pavimento di una stanza.
Quando? Mercoledì, presumibilmente pomeriggio. Prima di sera.
Cosa? Una partita a scacchi.

La risposta al perché spetta al racconto fornirla. Come anche fare chiarezza sull'identità del narratore e la sua relazione con Caterina.

L'analisi dell'incipit mi ha offerto qualche "indizio" da cui partire.
Non mi faccio illusioni, però: dice tante cose.
 Narratore realista, quasi cinico. Disilluso. Non crede a Caterina.
"Non tocca a me il nero" faccio, come ogni volta.
Azioni e frasi ripetute, parte di un rituale già noto. Il narratore tenta di ribellarsi.
"Sì invece" dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi come se fossero un piccolo esercito del bene.
Caterina comanda, è gelosa del suo ruolo. Contrasto nero/bianco, male/bene.

Non è molto da cui partire, non è nemmeno chiaro se il narratore sia uomo o donna, ma già comincia a delinearsi un passato condiviso, fatto di innumerevoli partite a scacchi e chissà che altro.
Il resto è da inventare.

A lunedì per il racconto completo, e come al solito, qui sotto ho raccolto le riflessioni su come proseguire dal punto in cui l'incipit si interrompe e le possibili trame da sviluppare.
Leggi solo se non riesci a resistere alla curiosità, a costo di rovinarti la sorpresa, o se preferisci indovinare quale ho scelto per questa storia.


lunedì 21 novembre 2016

Piccoli piaceri

Come già scritto, questa serie di incipit fa parte di un concorso di qualche anno fa, che forniva un tema e un inizio ogni mercoledì per otto settimane, con la scadenza per l'invio del racconto fissata entro la domenica della stessa settimana.

Il secondo mercoledì del concorso sono andata a leggere e stampare l'incipit  di Giusi Marchetta la mattina prima di uscire di casa, e la mia reazione è stata: "no! Di nuovo al presente!"
Questo è il secondo tema/titolo e incipit:

Piccoli piaceri

Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal mercoledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio illusioni, però: dice tante cose. Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scacchiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita dura un’ora o più. 
“Non tocca a me il nero” faccio, come ogni volta.  
“Si invece” dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi come se fossero un piccolo esercito del bene.
(Prosegui a leggere il racconto.) 

Oltre a quel maledetto tempo presente che non sopportavo, ho notato altri due dettagli fin da subito. Due differenze rispetto al primo incipit.

Una è l'inizio di un dialogo promettente (conflitto... il conflitto muove le storie!).

Dell'altra ti parlerò giovedì.

Nel frattempo, che tipo di trama ti ispira il racconto? Come lo avresti proseguito?

sabato 19 novembre 2016

Ciangottare

Per questo sabato ho scelto un verbo dal suono divertente che ha più di un significato.

Ciangottare [cian-got-tà-re] v.intr. (aus. avere) 1. Parlare smozzicando le parole, balbettare; anche, cianciare. 2. Cinguettare 3. Detto di acqua, gorgogliare lievemente.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Mi sono lasciata ispirare... in tutti i sensi!


È di nuovo settembre e io non ho voglia di ricominciare da capo. Ma così è la mia vita.
Nuova città, nuova scuola, nuovo nome. Com'è che mi chiamo stavolta, Emma... Emma Miotti?

Un nome che nessuno ricorderà fra qualche anno.
Seduta al mio posto sento le altre ragazze - mi sforzo di non definirle bambine - ciangottare allegramente fra una risata e l'altra. Le guardo.
Una parte di me sente i loro versi striduli e non può fare a meno di pensare a tanti piccoli uccellini che cinguettano e vorrei solo divorarle e farle tacere e sparire per sempre.
L'altra parte di me confonde le loro parole finché non avverto solo puro rumore, uno scroscio d'acqua che zampilla fresca e mi accarezza la pelle e quanta voglia avrei di alzarmi, adesso, correre in bagno a lavarmi le mani, tuffare la testa sotto il filo liquido del rubinetto o anche immergermi nella mia vasca, se solo potessi...
Prendo la bottiglietta dallo zaino e bevo un sorso. Ed è allora che la noto. L'unica ragazza che non gesticola frenetica, che non ciangotta o blatera o ride. Se ne sta lì a fissare la cattedra vuota e la lavagna pulita, col quaderno aperto e una matita in mano. In un piacevolissimo, benedetto silenzio.
Prima che la classe si riempia afferro lo zaino e mi sposto a sedere a uno dei banchi liberi vicino al suo. Lei si volta, mi guarda a occhi spalancati, sorride e non dice niente.
Scelta azzeccata, mi dico io. Ecco il mio biglietto per un anno di totale relax.

giovedì 17 novembre 2016

Mostrare, non raccontare

"Mostra, non raccontare", è il consiglio che ogni aspirante scrittore si sente ripetere fino allo sfinimento. Ma che cos'è mostrare, e cosa raccontare?

Stai mostrando quando usi il dialogo diretto, quando descrivi le azioni di un personaggio e cosa vede, sente, tocca, prova; stai mostrando quando sei più specifico e fornisci dettagli concreti, quando permetti a chi legge di immergersi nella vicenda dimenticando le parole, di ricostruire visivamente il mondo in cui è ambientata la storia, di immaginarne i profumi e i sapori.

Stai raccontando quando usi dialoghi indiretti, quando resti sul vago e tagli corto, esprimi un giudizio o ragioni su concetti astratti; stai raccontando quando il suono delle parole è più pressante e forte del loro contenuto, quando chi legge riesce a sentire il timbro della voce narrante, percepirne il ritmo e l'intonazione, come se qualcuno gli stesse sussurrando all'orecchio.

"Mostra, non raccontare" è una buona regola, perché dà vita a un tipo di scrittura più coinvolgente. Ma non tutto può essere mostrato, e non sempre raccontare è quell'atroce bestialità che sembra a prima vista. Ho letto storie raccontate in modo egregio, con una voce narrante ironica e musicale, che non si vergognava di interrompere la storia per rivolgersi al lettore, commentare e rivelargli segreti che il resto dei personaggi non avrebbe mai lontanamente immaginato. Come fosse un confidente, un amico.

E allora quando (e quanto) mostrare, e quando raccontare? Cercando in rete fra gli articoli di scrittori affermati o lettori attenti le opinioni sono le più disparate, la mia risposta è un generico... dipende. Dipende dall'effetto che vuoi ottenere.

Nel caso del racconto di lunedì, Sentirsi, il mio scopo era costruire un percorso sensoriale che esaltasse udito, olfatto, gusto, tatto, e sminuisse la vista: quindi una prevalenza di testo scritto in modo da mostrare, che però non risultasse troppo dettagliato o pesante (cercavo anche la continuità di stile con l'incipit, così leggero e delicato).

Non sono del tutto soddisfatta. Rileggendo a distanza di anni mi rendo conto dei punti in cui avrei potuto mostrare, e invece ho raccontato. Ad esempio, la frase "Subito il mondo la circonda: voci, passi, odori, colori.". Troppo vaga, quando bastava inserire giusto un paio di dettagli, il ticchettio ritmato di un'elegante bionda in un tubino nero che al suo passaggio profuma il marciapiede di una dolciastra zaffata alla violetta, il risucchio di un bimbo di quattro o cinque anni con un brick di succo tra le mani che muta in un gorgoglio, e la madre dalla maglietta a righe rosse e bianche come la cannuccia che si china e sbotta: "Adesso basta Samu', o la smetti di giocare e te lo bevi, o me lo riprendo e me lo bevo io!" Non è necessario mostrare ogni singolo passante che la protagonista incrocia, ma è già diverso scriverne almeno due o tre invece di lasciare una descrizione astratta e generale. Stessa cosa per i frammenti di conversazione al bar, o per la preparazione della cena.

Un caso in cui ho mostrato invece di raccontare, e ne vado fiera, è il punto focale del racconto. A volte mi chiedo se ho mostrato abbastanza per farlo intuire, ma non ho scritto mai, in nessuna parte del racconto: Andrea (nome scelto in velocità, ispirato non a un Andrea nella mia vita, bensì al celebre Bocelli) è un non vedente. L'ho mostrato in tanti piccoli dettagli che si avvicinano sempre di più, dalla reazione di lei ai colori, al suo correggersi nel descrivere la camicia, all'importanza del fatto che lui conosca bene la casa di lei per potersi trasferire, l'esplorazione del volto e infine gli occhi di lui. Come una telecamera che fa una zumata per stringere su quel particolare.
Spero di essere riuscita a renderlo così come lo avevo in mente.

Ti lascio con tre frasi del racconto che ancora oggi mi colpiscono in modo particolare, e sono grata a qualunque musa abbia voluto donarmele. A lunedì per il prossimo incipit, e per qualunque considerazione, domanda, spunto di riflessione o... se la frase che è piaciuta a te non è tra queste e vuoi dirmelo, scrivimi un commento!

Il telefono è una farfalla nella sua borsa, lieve e senza voce.
La prima volta è stato per sfida; ora, da quando c’è lui, dello zucchero non ha più bisogno.
Cantare dà sapore alle cose.

lunedì 14 novembre 2016

Sentirsi

(titolo e incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto. Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.

      Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.


      L’attesa è il momento più dolce.


      Non c’è fretta: è domenica, ha tutto il tempo di prepararsi. Con cura infila la camicia nella stampella, la ripone nell’armadio e la guarda un’ultima volta, lì tra le sue, prima di chiudere l’anta. Le sembra sia al suo posto.

      Va alla finestra. Nell’aria le voci del mercato, i profumi. Chiude gli occhi per un momento. Ascolta.

      Nella stanza, il silenzio. Fuori, la vita.

      Stare in casa, da sola, è impossibile. Riapre gli occhi e prende la borsa, l’altra, vi infila il telefono ed esce. Subito il mondo la circonda: voci, passi, odori, colori. Lei cammina senza fretta, gustando ogni cosa. Passa davanti alle bancarelle, davanti alle vetrine. La sua immagine riflessa le sorride. Ha sempre il sorriso sulle labbra quando pensa a lui. Il telefono è una farfalla nella sua borsa, lieve e senza voce. Impossibile non pensarci, per quanto si sforzi.

      Il profumo di pane e caffè riempie la via. È così buono e invitante, che lei sceglie di lasciarsi rapire. Nel bar il vociare è ancora più intenso. Per gioco, ascolta e si lascia guidare da frammenti di conversazione. Frasi di amici, di famiglie o di innamorati. Frasi che scrivono la storia di una vita o che si dimenticano appena fuori dal bar.

      Si avvicina al bancone e ordina un caffè. Lo beve amaro. Il gusto è forte, corroborante. La prima volta è stato per sfida; ora, da quando c’è lui, dello zucchero non ha più bisogno.

      Paga ed esce. Riprende a vagare tra i banchi del mercato. Al banco del fiorista si ferma ad annusare i gigli. Ne prende uno, uno soltanto, bianco come la camicia nel suo armadio. Ha un buon profumo il fiore, quasi quanto il suo. Curioso. Qualsiasi cosa, oggi, le ricorda lui.

      Cammina sicura verso il banco della verdura, dall’altra parte della strada. Nelle cassette di legno sembra ci sia un arcobaleno su un prato, un mosaico di colori. Lei cerca di non pensare ai colori, solo alle consistenze, ai sapori.

      Ma è inutile.

      Pomodori. Fanno subito venire in mente il rosso.

      Carote. Arancione, senza alcun dubbio.

      Insalata. Verde nelle varietà più conosciute.

      Ora basta.

      Prende quello che le serve, guardando soltanto il tempo necessario per assicurarsi della qualità della verdura.  I colori spariscono in un sacchetto di plastica bianca. Si sente più tranquilla ora.

      Un altro paio di tappe, poi è tempo di tornare a casa. Il telefono oggi non ha proprio voglia di squillare. Lei lo posa sulla credenza, dietro un grosso orologio da tavolo. Preferisce non vederlo se non può sentirlo.

      Passa al sacchetto della spesa. Prima mette il giglio in un vaso pieno d’acqua, poi mette via il cibo. Tiene fuori solo quello che le serve. Comincia a sminuzzare le verdure sul tagliere. Solo dopo un po’ si accorge di stare cantando, ma non smette. Anzi, canta a voce più alta. Come se la canzone fosse un ingrediente da mettere in pentola assieme alla carne e alle verdure. Cantare dà sapore alle cose.

      Un canto le risponde dalla sala da pranzo. Lei lo riconosce, e il cuore le batte forte. Mette giù il coltello, si lava le mani, si affretta in sala. Non guarda il numero sul display, risponde subito.

      “Ciao.” Riconosce la voce. La sua voce, anche distorta dal telefono, è la melodia che preferisce.

      “Ciao” ripete lei. Si sente avvampare, timida come la prima volta.

      “È bello sentirti.” Una frase che può sembrare banale ma che non lo è affatto, non per lei, non oggi. “Temo di aver dimenticato qualcosa da te, ieri sera.”

      “La camicia. Quella bianca…” Si interrompe. Non ha senso. “Quella col colletto doppio e i bottoni piccoli. La mia preferita.”

      “Sì, quella” le risponde. Poi attende. È il suo turno.

      “Puoi passare a prenderla, sto cucinando, ti andrebbe di cenare da me? La strada la conosci.” Parla in fretta, per paura di essere interrotta. Silenzio. “Andrea?” Non risponde, chissà a cosa sta pensando. “Scusa, lo capisco se non ti va…”

      “No, è solo che mi hai preso alla sprovvista. Volentieri. A stasera.”

      “A stasera” ripete lei, e aspetta che sia lui a riagganciare.

      Il resto della giornata è tediosamente lungo. Lei prepara le cena, rassetta la casa, si fa una doccia e indossa un vestito carino. Si trucca, anche se lui continua a dirle che è bella anche senza. Il tempo riprende a scorrere soltanto quando lui bussa alla porta.

      “Entra pure” gli dice dalla sala da pranzo. Sistema il giglio a centro tavola. Con il suo profumo, è certa che lui non potrà non notarlo.

      Sente la porta aprirsi e chiudersi, lo sente spostarsi nell’ingresso.

      “Dovevi portarmi la camicia. Hai rotto il patto” le dice. Non sembra arrabbiato. Divertito, piuttosto. “Se non dimentichi qualcosa di tuo da me, che scusa avremo per continuare a sentirci?”

      “Puoi sempre lasciarla qui” gli risponde dalla sala da pranzo. “Sembra si trovi bene nel mio armadio. Ha conosciuto tante nuove amiche.”

      Lo sente ridere. Quanto le piace la sua risata!

      Si affaccia sul corridoio. Lui la sente, si volta.

      “Potresti portarne altre” gli dice lei. Esita, prima di concludere: “potresti venire a stare qui, da me.”

      Lui scuote la testa. “Lo sai, io non…”

      “Lo so” taglia corto lei. Ne avevano già parlato. “Pensavo solo… stai imparando a conoscere la mia casa.”

      “Vieni qui” le dice, tendendole la mano. Lei si avvicina, la sfiora con le dita. Lui le prende la mano tra le sue. Le accarezza il volto seguendo il profilo delle labbra, poi sale a lato del naso, percorre l’arco delle sopracciglia e scende lungo gli zigomi. Ormai le sue dita conoscono a memoria la sua fisionomia.

      “Un giorno, forse. Per ora… è bello sentirti.”

      Lei sospira, lo abbraccia. Alza gli occhi a guardare il suo volto, a cercare i suoi che invece guardano lontano, in un luogo in cui non esistono forme e colori. Il suo cuore le batte contro la guancia. Stretta al suo petto, inspira il suo profumo.

     “Sì… è bello sentirti.”

sabato 12 novembre 2016

Batrace

Ci sono parole che hanno dentro il suono di ciò che rappresentano. Si chiamano onomatopeiche, e personalmente le trovo affascinanti. Questa ad esempio par di sentirla gracidare.

Batrace [ba-trà-ce] s.m. Vertebrato anfibio. Rana, rospo.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Non è stato semplice scegliere a quale fra i personaggi di strega nei miei appunti affidare il ruolo per questo frammento di racconto. Era come se avessi già il copione, ma mi mancasse l'attore per interpretarlo. Alla fine ha vinto la parte la più recente, e la più inquietante.


– Ti senti meglio, adesso?
Afferrai il bordo del tavolo e mi alzai a sedere. Nella penombra le sue mani dalle dita sottili lavoravano alacremente, fra il tintinnio di anelli di metallo. La guaritrice in catene: non sapevo in che altro modo chiamarla. Ripulì gli aghi e le lame, gettò in un braciere gli stracci, raccolse la cenere dell'incenso i cui fumi aleggiavano ancora in quell'angusto spazio. L'odore non mi sembrava più tanto terribile. Sapeva di primavera, di aria aperta, di prati e di sole. Tutte cose che qui mancavano.
Accennai alla ciotola di terracotta. – Cos'è?
– Issopo. Valeriana. Erba di San Giovanni. E altro, che preferisci non sapere.
La sua voce era sempre un sussurro, quasi avesse timore di svegliare il silenzio dal suo sonno. Afferrai un barattolo dallo scaffale e lo scossi: nel liquido grigio turbinavano forme tonde e molli. – E questo?
Non ebbe bisogno di guardare per più di un istante per rispondere: – Occhi di batrace.
– Batrace?
– Sì. Rane. Rospi. Ogni strega che si rispetti deve avere almeno un barattolo di occhi di batrace nella sua dispensa. –  Annodò il laccio dell'astuccio in pelle in cui aveva riposto le lame e mi passò accanto, trascinando con fracasso le catene sul pavimento. Si fermò allo stipetto. – Mai usati per una pozione. Però in cucina sono deliziosi.
– Stai scherzando, vero?
Fissai i suoi occhi, chiari come il cristallo. I suoi occhi, che sembravano dire contemporaneamente "sì" e "no".

giovedì 10 novembre 2016

Metodi, domande e mappe

Una delle prime cose, e spesso anche l'unica, che mi dice chi scopre che mi piace scrivere racconti è: "Devi avere una bella fantasia!"

Di solito faccio scena muta, sorrido, annuisco. La risposta che vorrei dare, ma che non ho mai detto, è: "Anche, ma non solo."
Per me fantasia e tecnica vanno a braccetto e non può esistere l'una senza l'altra. L'ho imparato provando e riprovando, confrontandomi con altri che hanno la mia stessa passione e leggendo i consigli di chi ha già percorso questo sentiero di parole (gustosissimi e molto divertenti i 36 consigli di Umberto Eco, che trovi QUI).

Eppure lo stereotipo dello scrittore alla ricerca di una musa di fronte alla pagina bianca o allo schermo del computer è così radicato che fantasia, creatività, immaginazione, estro, ispirazione, sono i soli vocaboli che vengono generalmente associati alla scrittura narrativa. Lo ammetto, quando l'ispirazione giusta si presenta spontaneamente è fantastico, ma il problema è che la musa non è un granché nel rispettare le scadenze. Quando serve e non arriva, ci sono molte strategie che si possono usare per sopperire alla sua mancanza (o per invitarla alla festa). Quale usare dipende dalla preferenza personale, dal momento e da ciò che si cerca di ottenere.


Per il concorso Blusubianco quello che volevo era che il racconto centrasse il tema/titolo proposto, e che potesse proseguire dall'incipit in modo fluido, con uno stile simile, così che lo stacco tra il testo altrui e il mio si notasse il meno possibile. Cosa non facile perché appena ho scoperto che era stato scritto tutto al presente ho avuto un moto di repulsione, abituata com'ero a narrare nel più classico passato remoto da racconto fantasy.

Ho cominciato dal titolo, e ho scelto di costruire una mappa mentale a partire da questo. Quella della mappa mentale è una tecnica molto utile per estrarre più idee possibili da una singola parola, spremendola come un limone. Non è difficile. Si tratta solo di chiedersi "Questo che cosa mi fa venire in mente?", scrivere le risposte attorno alla parola di partenza, e per ognuna porsi di nuovo la domanda e così via, fino ad avere uno schema più o meno così:


Non esiste una mappa mentale giusta e una sbagliata, la mia è solo una delle tante possibili. Se dieci persone ripetessero questo esercizio separatamente, anche partendo dalla stessa parola, otterrebbero dieci schemi diversi, che magari potrebbero in parte sovrapporsi ma non del tutto.

Dal titolo sono passata sono passata all'incipit. Ho cominciato con una analisi superficiale, notando la persona e il tempo e verbale (terza persona femminile, tempo presente) se c'era dialogo (no), azione o descrizione. Ho approfondito l'indagine tentando di rispondere per quanto mi era possibile alle 5 W del giornalismo, Who, What, When, Where, Why (Chi, Cosa, Quando, Dove, Perché)?

Chi? Una donna
Dove? Una casa, camera da letto
Quando? Probabilmente mattina, riferimento alla sera prima
Cosa e perché erano domande la cui risposta spettava al resto del racconto

Per finire ho analizzato l'incipit frase per frase, cosa che ti risparmio (e già sento il sospiro di sollievo!). Per ogni frase dell'incipit ho annotato qualsiasi domanda o considerazione mi venisse in mente, come:

A chi appartiene la camicia?
Borsa nuova: appena acquistata o appena usata per la prima volta per una occasione speciale?
Attende una telefonata?

O ancora:

Sul ripiano più alto: non è qualcosa da usare spesso.
"E’ bella": oggettivo, non soggettivo come in "si sente bella".
La camicia è importante, speciale. Non è una camicia qualsiasi. Ma non so se di lui o di lei.


Non tutte le domande o le riflessioni mi sono servite poi per costruire il racconto, ma non sapendo a priori in quale direzione volevo andare, non potevo sapere cosa è utile e cosa inutile. Quando si utilizza questo metodo bisogna ricordarsi continuamente che non esistono domande o commenti sciocchi: come con il metodo del brainstorming, prima si parla, o scrive, a ruota libera senza censura, e solo dopo si valuta, si critica, si taglia (ancora roteo gli occhi a quel "cerca la stampella per mettere via la camicia?" E per che altro, se no? A meno di non scrivere un racconto paradossale in cui ogni azione ha motivazioni e scopi diversi da quelle che ci si aspetterebbe normalmente. Anche questa è un'idea).


Alla fine ho condensato tutte le riflessioni fatte in un breve appunto su come è composto l'incipit e come potrei proseguire da dove si interrompe, abbozzando più trame tra cui scegliere. Le trovi qui di seguito, ma attenzione: contiene spoiler! Se non vuoi rovinarti il racconto ti consiglio di aspettare e dare un'occhiata solo dopo averlo letto. Se invece preferisci giocare a indovinare quale idea ho scelto di sviluppare, prosegui pure a leggere.

A lunedì per il primo vero racconto (finalmente!).


lunedì 7 novembre 2016

Blu su bianco

...ovvero otto racconti in otto settimane. Anzi meno, dato che il tempo per scriverli andava da mercoledì a domenica. Quel concorso è stato tra le mie prime esperienze di questo genere: raramente prima avevo dovuto cimentarmi con uno spunto fornito da qualcun altro, con così pochi giorni a disposizione.

Il concorso funzionava così: ogni mercoledì veniva pubblicato un titolo/tema e un incipit, che stampavo la mattina prima di uscire di casa per avere tutto il tempo di rifletterci.  
Il primo incipit, di Giusi Marchetta, è questo:

Sentirsi

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto. Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.
(Prosegui a leggere il racconto.)

Il mercoledì lo dedicavo all'analisi del testo e a buttar giù su carta le prime idee. Da giovedì iniziavo effettivamente a scrivere il racconto. A penna, sulla carta: la prima stesura per me è così e non c'è tastiera che possa sostituire quell'approccio. Solo nel fine settimana trascrivevo al computer e rifinivo il testo, che inviavo domenica. I due giorni successivi passavano nell'attesa di scoprire se il mio racconto sarebbe stato scelto tra i finalisti.
E mercoledì tutto ricominciava.

Giovedì ti svelerò il metodo con cui ho affrontato l'impresa. A presto!

sabato 5 novembre 2016

Aruspice

Inauguro oggi il bonus di Parole dal dizionario con il termine Aruspice. Parola che non capita di usare spesso nella vita quotidiana ma che potrebbe essere utile conoscere se stai scrivendo o leggendo un romanzo storico.
 
Aruspice [a-rù-spi-ce] s.m. In epoca etrusca e romana, sacerdote che traeva presagi dall'osservazione delle viscere degli animali sacrificati.

Runes on Stones, di Nathaniel_U, licenza Creative Commons. Immagine modificata con l'aggiunta di scritte.


Per illustrarne l'uso ho scritto un frammento di racconto. O un incipit, volendo. Ho spostato l'aruspice dal suo tempo e luogo di origine a un altro per sfruttare ambientazione e personaggi ideati da me (non ho ancora nulla ambientato in epoca romana tra i miei vari appunti). Eccolo qui. 


Una mattina Tsachel si alzò e disse: – Gli aruspici mentono.
Lo pensavamo tutti, naturalmente; ma non era compito dei cacciatori mettere in discussione le visioni dei saggi, parlare con gli spiriti o ascoltare il canto della carne e delle ossa. L'unica voce delle ossa che conoscevamo era il rumore secco che emettevano quando, una volta spolpate, le spezzavamo per ricavare dalla morte altri strumenti di morte.
Pochi soli più tardi gli aruspici mandarono Tsachel a caccia sul Sentiero delle Lunghe Zanne. Quando tornò con una ferita bruciante, che rese la sua pelle nera come un albero consumato dal fuoco, gli aruspici dissero che era il volere degli spiriti, e che il suo sacrificio ci avrebbe resi tutti più forti.
L'equilibrio era ristabilito.

giovedì 3 novembre 2016

Motivazioni

Come si risponde alla domanda: perché scrivi (disegni/suoni/fai qualunque attività artistica o perché no, agonistica, ogni volta che ne hai il tempo)?
Oggi, come ieri, la mia risposta rimane la stessa. Questo è il racconto/esercizio che ho composto durante un laboratorio di scrittura creativa, e allo stesso tempo uno dei motivi dell'esistenza della Piuma Tramante.

Comunicare.

Sfuggenti motivazioni!


 
Non so perché sia così difficile per me. Forse perché la vita è troppo complessa per ridurla a un intreccio lineare. Non è che non abbia motivi per scrivere. Ne ho fin troppi.

Nelle ultime due settimane ho provato a comporre mentalmente il mio testo decine di volte, salvo poi appallottolare ogni falsa partenza e gettarla in un immaginario cestino. Oggi è martedì 7 febbraio, ed è il primo giorno in cui prendo davvero in mano carta e penna per scrivere queste benedette motivazioni invece di proseguire un racconto o correggere le pagine di un romanzo. Non mi resta che estrarre un elenco da tutte le mie infruttuose riflessioni.

Scrivo perché mi piace. Adoro tutto del processo creativo. Invento storie in continuazione, ma arrivano all'inchiostro solo in minima parte. Sono le migliori, le più coerenti, quelle che si sono affrancate dall'originaria fonte di ispirazione fino ad assumere vita propria.

Scrivo perché sono innamorata del mondo. Vedo la gloria di un tramonto in raggi d’oro tra le nubi, l’evanescenza di un arcobaleno, l’abile danza di un tatuaggio su una mano di cassiera. Mi pare terribile che simili dettagli passino inosservati. Io ne faccio tesoro. Prima o poi, ognuno troverà posto in un racconto.

Scrivo per rispondere a domande che non possono avere risposta in questa vita. Esistono altri mondi abitati nell’universo? Come sarà la terra tra cento o mille anni? E se le mitologie del passato in qualche altro luogo fossero reali? Oh, i “se”… non c’è nulla di più intrigante!

Ma amare e porsi domande non basta. Avrei potuto esprimermi in altri modi, tramite un fumetto, una canzone, un quadro. Scrivo perché mi piace questo mezzo espressivo, che così tanto spazio lascia all’immaginazione. È inoltre il più versatile. Non riuscirei a dipingere un odore, a trasporre in melodia un gusto. La scrittura si presta a rappresentare tutta la gamma dell’esperienza umana, dalla più concreta e sensoriale fino ai concetti più astratti.

Mi piace scrivere anche quando è difficile. La sfida è un'ulteriore motivazione. Qualcuno compone puzzle o risolve cruciverba. Io raffino testi. Rileggendo mi chiedo se la frase scorre, se sono riuscita a trasmettere le informazioni e le emozioni che avevo in mente. Quando scopro il sinonimo perfetto o la sintassi ideale provo la stessa soddisfazione, la sensazione di completezza e vittoria di chi posiziona la tessera mancante del mosaico o riempie l’ultima casella rimasta in bianco. E ricomincio con la frase successiva.

Ma ancora non basta. Se fosse sufficiente avrei pile di quaderni nascosti in un armadio. La mia sarebbe una segreta passione di cui nessuno saprebbe alcunché.

Non è così, perché scrivere è comunicare. È trasmettere il risultato del mio amore per le storie e la parola, tramandare le improbabili risposte inventate e i frammenti di realtà nascosti nei mondi nuovi che la fantasia mi ha permesso di esplorare. Quando una pagina che funziona per me ha lo stesso valore per qualcun altro, quando riesco a strappare un’esclamazione sorpresa a un’inaspettata svolta della trama, mi sento realizzata. Vanità, forse? Anche. A chi non piace essere apprezzato?

Alla resa dei conti, scrivere fa parte di me. È un tratto così importante della mia identità che se smettessi da un giorno all’altro di scrivere, probabilmente sarei una persona completamente diversa.



 
La settimana prossima ti racconterò la mia esperienza con un concorso che più che un concorso è stato una maratona... ma non perderti la sorpresa di sabato!