sabato 30 marzo 2024

Suggestione

Suggestione [sug-ge-stió-ne] s.f. 1. Condizionamento psichico esercitato da altre persone o da fatti e situazioni o anche ingannevole impressione soggettiva che agisce con tale forza su un individuo da dominare la sua volontà, privarlo del giudizio critico o addirittura del senso della realtà. 2. fig. Incanto, fascino, seduzione.

Etimologia: dal latino suggestionem, "suggerimento", da suggestus, participio passato di suggerere, "suggerire".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Pavel Danilyuk da Pexels


Non era la prima volta che Vesta vedeva qualcosa nelle fiamme del Grande Fuoco. Ogni elemento aveva il suo modo di comunicare con il proprio Custode, questo Prometeus le aveva insegnato, e Vesta da quando ne aveva preso il posto aveva fatto del suo meglio per interpretare le vaghe immagini tracciate dal guizzare delle fiamme. Ma qualcosa come ciò che scorse in quel pomeriggio d'autunno, Vesta non lo aveva visto mai.
Non era concentrata nell'interrogare il Grande Fuoco in quel momento, non si stava scaldando al suo calore che talvolta l'avvinceva con una suggestione ipnotica, inducendola a tuffarvi le dita senza danno come nessun altro al mondo avrebbe potuto fare. Stava soltanto adempiendo ai suoi compiti usuali, riempire lanterne d'olio per mantenere il tempio illuminato, recitare preghiere, consegnare al fuoco le offerte votive, cose del genere, quando le parve di scorgere tra le altre una fiamma diversa, una fiamma che non dava luce, né calore, bensì li toglieva. Fu solo un istante, poiché quando Vesta si girò a scrutare il Grande Fuoco con tutta la propria attenzione, non vide nulla fuori dall'ordinario. Ma quel presagio nefasto appena intravisto fu sufficiente a riempirla di terrore. Vesta conosceva le storie che gli elementi tramandavano, le aveva udite nel crepitio del fuoco e viste nelle fiamme.
L'oscurità che aveva distrutto un mondo, il mondo primigenio di Neerea, e contro la quale il Grande Fuoco e il suo Custode erano l'ultimo baluardo. Era una battaglia per la quale Vesta non si sentiva pronta, e si augurò di non essere chiamata a prendervi parte.
– Non nel corso della mia vita, ti prego – sussurrò al Grande Fuoco. – Fa' che tocchi al prossimo Custode.
Più tardi si disse che era stata la suggestione indotta in lei dalle critiche di chi la giudicava troppo giovane per quel ruolo a farle immaginare di aver visto il cattivo presagio. Non era vero, non aveva visto ciò che aveva visto, si disse Vesta.
E continuò a ripeterselo, finché non lo scorse di nuovo.

giovedì 28 marzo 2024

Audioracconto - Storia di una nave fantasma e di un Leviatano addormentato


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Foto di Ike louie Natividad da Pexels


Mai ignorare il consiglio di un fantasma!

Storia di una nave fantasma e di un Leviatano addormentato
(racconto breve di genere fantasy/horror)


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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2022/03/storia-di-una-nave-fantasma-e-di-un.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Boat Floating di Puddle of Infinity
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=Y0Wa3uDPOQE);
Spirit of the Dead di Aakash Gandhi
dal canale Aakash Gandhi (tema) (https://www.youtube.com/watch?v=lW11Nuou_8Q);
Emerald Therapy di Audionautix (http://audionautix.com)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=MSvz7WJ_HWM).;
Clouds di Huma-Huma
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=VUPrAQVAvcE).

Immagini di: Ike louie Natividad (https://www.pexels.com/it-it/foto/natura-donna-arte-romantico-6336884/), Sam Forson (https://www.pexels.com/it-it/foto/specchio-d-acqua-sotto-la-nebbia-154246/), Vito Giaccari (https://www.pexels.com/it-it/foto/mare-uomo-persona-acqua-6798585/), Alexander Krivitskiy (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-ombre-sfocato-orrore-5540973/), da Pexels distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).
Foto di Matthew Z. (https://pixabay.com/it/photos/pirati-veliero-fregata-nave-nebbia-587988/), Fat Siberian Kurts (https://pixabay.com/it/photos/uomo-demone-fantasma-mostro-paura-5585713/), Angela Yuriko Smith (https://pixabay.com/it/photos/fantasma-vecchio-uomini-uomo-2787609/) e (https://pixabay.com/it/photos/nave-cuthulu-tentacolo-relitto-2784184/), JAE (https://pixabay.com/it/photos/prospettiva-sailor-marinaio-1896815/), Yuri (https://pixabay.com/it/photos/sailor-nave-naufragio-mare-4431281/), Victoria (https://pixabay.com/it/photos/mozzo-ragazzo-nave-marinaio-2974416/) da Pixabay, distribuito ad uso gratuito (https://pixabay.com/it/service/license-summary/).

Effetti sonori: Flute - mystical vibe (https://freesound.org/people/poots/sounds/627786/) di poots, da freesoundslibrary.com, sotto licenza Creative Commons: By Attribution 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/);
Flute - B5 (https://freesound.org/people/MTG/sounds/354435/) di MTG, da freesoundslibrary.com, sotto licenza Creative Commons: By Attribution 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/);
Beast Roar lvl4.flac di cylon8472 (https://freesound.org/people/cylon8472/sounds/332582/),
da Pixabay distribuiti ad uso gratuito (https://pixabay.com/it/service/license-summary/);
Altri effetti sonori da FreeSounds (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 25 marzo 2024

Vita su Marte


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Foto di Following NYC da Pexels


Il vento spirava dai canyon della Valle Marineris in raffiche costanti che sollevavano una bruma di polvere rossa tra le ruote e gonfiavano la vela della carronave in testa alla carovana. Avevamo ormai superato la regione di Tharsis e stavamo attraversano a velocità costante l'Amazonis Planitia, in quella che sarebbe dovuta essere la parte più semplice della nostra spedizione, quando avvenne il primo intoppo.
Senza preavviso, l'asse anteriore della carronave si ruppe e la prua si piantò a terra di colpo sollevando nuvole ancora più alte di polvere rossastra.
Noi ragazzi che sedevamo in testa a controllare la vela tirammo tutti su i fazzoletti legati al collo per proteggerci il naso e la bocca dalla nube di sabbia densa come il fumo.
Graeg, che manovrava il timone, imprecò e venne subito a chiederci cos'era successo. Anzi, no: cosa avevamo fatto. Sembrava essere lo sport preferito degli adulti, quello di darci la colpa di qualunque cosa fosse successa mentre eravamo nei paraggi, anche di quelle per cui chiaramente non potevamo essere responsabili. Figuriamoci come avremmo potuto rompere l'asse che stava sotto il nostro mezzo di trasporto e che poteva sopportare forze nell'ordine di tonnellate, con le nostre sole mani e stando sopra la carronave.
Brontolando, una volta esaurito il compito di riempirci di biasimo e di sacrosanta vergogna, di cui non avevamo provato nemmeno un'oncia, Graeg scese dalla carronave a cercare che cosa davvero aveva provocato quel guasto. Sparì nella nuvola di polvere e lo sentimmo armeggiare sotto il pesante mezzo corazzato senza un minimo di precauzioni per evitare di finire schiacciato, e quando ricomparve ci disse che aveva trovato il responsabile: una punta rocciosa dura e aguzza che sporgeva dal terreno.
– Colpa vostra! – disse Graeg, che non aveva ancora rinunciato a praticare quello sport. – Avreste dovuto avvistarla e avvertirmi!
Nel frattempo, il resto della carovana su cavalli di ferro ci aveva raggiunti e si era radunata per supervisionare l'operato di Graeg.
– Serve la colla tripla forza – disse uno dei cavalieri.
– Una saldatura, altro che colla! – protestò un altro.
– Voi siete tutti matti – disse un terzo. – Con un danno così non si può fare niente, o ci troveremo di nuovo chiappe a terra tra una decina di chilometri o anche meno. Tocca per forza farsi mandare un asse di ricambio dalle officine di Arsia Mons.
– Sì, e chi ci pensa a cambiare l'asse, tu? – ribatté il primo che aveva parlato.
– Che ti credi, io ho fatto il meccanico sull'altipiano di Syrtis Major per venti anni, venti dico – ribatté l'interpellato. – Aggiustavo volonavi come ridere, una carronave è un gioco da ragazzi. Datemi solo la leva giusta, e vedrete...
Noi ragazzi sospirammo e ci fissammo negli occhi. Non potevamo fare niente, per il momento, se non aspettare che gli adulti si mettessero d'accordo su come risolvere il problema. La nostra opinione non sarebbe nemmeno stata presa in considerazione.
Sapevamo tutti fin troppo bene quanto fosse importante recuperare al più presto un carico di ghiaccio dalle Cerberus Fossae per rifornire le città abitate al di là della Valle Marineris, e quel contrattempo proprio non ci voleva. Mesy, abbattuta, giocherellava con il suo planetario olografico. Dopo un colpetto che mandò il suo Marte in miniatura al di là del sole, domandò distrattamente: – Voi ci pensate mai come sarebbe stato nascere su un altro pianeta?
– Sarebbe bello non dover andare continuamente a prendere il ghiaccio – disse Sowu.
– Ah, se fossimo nati su una delle lune ghiacciate di Giove! – gli fece eco in tono sognante Rovani.
– Per conto mio, preferirei essere un venusiano – affermò Tikal. – Saper respirare nubi di gas e non farsi niente dev'essere davvero forte!
– Sì, e poi non potresti andare da nessun'altra parte – gli ricordai io. – Perché soffocheresti senza i tuoi amati gas acidi.
– Se fossimo nati su Mercurio – considerò Raremi. – Non patiremmo mai il caldo o il freddo, perché saremmo abituati. Io qui certe volte ho freddo la notte, e siamo solo a settanta gradi sotto zero. E tu, Mesy? Se non fossi nata su Marte, da quale mondo ti piacerebbe venire?
La ragazzina, la più giovane del nostro gruppo, mugolò pensosa, giocò brevemente con i mondi olografici del suo planetario, e infine disse: – Io penso che sarebbe bello nuotare in un gigante gassoso. Nettuno, ad esempio, oppure Saturno. Chi è nato su quei pianeti è fortunato. Non deve andarsene in giro in cerca di ghiaccio, e può fare tutto quello che vuole.
Quando Mesy smise di parlare, rimase solo il respiro cupo del vento che faceva turbinare la polvere rossa attorno alla chiglia della carronave, e le invettive degli adulti che ancora non avevano deciso come procedere. Si erano tutti espressi, tranne me.
Tikal e Sowu chiesero a più riprese la mia opinione. – Il terzo pianeta dal sole – mormorai io, fissandolo. Non aveva nome, quel mondo, perché nessuno sulla sua superficie glielo aveva dato. – Ci pensate mai a come sarebbe stato se anche quello avesse ospitato la vita? Che suono avrebbe avuto il suo vento, e come si sarebbe evoluta la sua forma di vita intelligente? C'è così tanto ghiaccio, che immagino che sarebbe stato bello viverci.
Raremi si grattò una guancia. – In realtà, gli scienziati dicono che c'era vita all'inizio, delle forme di vita unicellulari. Poi qualcosa è andato storto, e non se ne è fatto niente. Peccato. Sarebbero stati i nostri vicini.
Sospirammo, nel ricordare quello che avevamo appreso a lezione.
– Ehi, voialtri scansafatiche! – ci chiamò Graeg. - Smontate da lì sopra e venite a darci una mano, per quanto potete essere utili.
Evidentemente, gli adulti avevano finito di discutere e si erano messi d'accordo su cosa fare. Lasciammo da parte tutti i nostri "e se" e ci sbrigammo a scendere sul suolo marziano, subito avvolti dalla sabbia rossa sollevata dal vento. Era inutile fantasticare su cosa poteva essere, se le cose fossero state diverse. Eravamo nati su Marte, e il trasporto del ghiaccio era la nostra vita e la nostra fonte di sostentamento.

sabato 23 marzo 2024

Alterco

Alterco [al-tèr-co] s.m. (pl. -chi) Violento scontro verbale; litigio, diverbio.

Etimologia: da latino altercare, da alter, "l'uno dei due".


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Foto di Timur Weber da Pexels


Avevo assistito a parecchi alterchi nel corso della mia esistenza, alcuni li avevo visti di persona, di altri era giunto fino a me l'amaro ricordo attraverso il grido di aiuto delle donne che avevo assistito liberandole per sempre da un compagno violento, ma nessuno trovai più divertente dell'ultimo scontro tra Dolores e il suo ex.
Non sto dicendo che vedere due persone che litigano in modo così violento sia uno spasso. Non lo è per me, che posso sentire tutto il dolore di una donna ferita, umiliata, maltrattata. Ma anche per quelli che non sentono le grida interiori, avvertire la rabbia in una voce che si leva più alta o assistere a una scenata, a lacrime, a schiaffi e spintoni provoca nella maggior parte dei casi imbarazzo, compassione o indignazione, e in una ristretta minoranza è causa di un'identica furia contro l'aggressore che spinge il testimone a intervenire.
Non ci furono testimoni del genere, quella notte al pub. Ma Dolores non ne aveva bisogno. Lei era molto più forte di quanto il suo nome facesse supporre. Ma era stanca, tanto stanca dei soprusi e dell'insistenza di qualcuno che nemmeno avrebbe dovuto avvicinarsi a lei. La giustizia umana aveva fallito. Come tante, Dolores aveva udito le storie sulla vendicatrice Mary Autumn che aveva salvato molte donne da destini peggiori del suo, da uomini peggiori del suo. Ma non poteva immaginare di averla accanto ogni notte, dietro il bancone del pub. Mary Autumn era una figura leggendaria, un mito, e come tale, inesistente. Così fu divertente che al termine dell'alterco, quando lei riuscì a sottrarsi alla sua presa e ad allontanarsi dall'uomo, le ultime parole che gli rivolse furono: – Spero tanto che Mary Autumn ti prenda!
E poi a me, nel passarmi accanto, forse per spaventarlo e allontanarlo, disse: – Fallo sparire, Mary.
La presi in parola. Con la scusa di accompagnarlo a casa per sbollire la rabbia e chissà, fare da paciere tra loro, lo attirai nel bosco più vicino e lo lasciai infine a nutrire gli alberi.

giovedì 21 marzo 2024

Garrulo - Audioracconto


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Pover'uomo, lui voleva starsene da solo e in silenzio, e invece...

Garrulo
(racconto breve di genere umoristico)

Garrulo: Che garrisce; di persona, loquace, ciarliero, e per estensione festoso, rumoroso.


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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/04/batiscafo.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Fluffing a Duck di Kevin MacLeod (http://incompetech.com) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=JmrllhArNLA);
If I Had a Chicken di Kevin MacLeod (http://incompetech.com) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=HSAXcgQ8rdk).

Immagini di: Pixabay (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-persona-festa-modello-37862/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/sfondo-della-galassia-grigia-e-nera-2150/), Andrea Piacquadio (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-persona-mano-ritratto-3907657/) e (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-in-camicia-girocollo-blu-3768723/),Ben Mack (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-anonimo-che-cammina-sulla-spiaggia-sabbiosa-in-tempo-nebbioso-5326900/), CECILE HOURNAU (https://www.pexels.com/it-it/foto/cielo-volando-volante-animale-15168301/), Liza Summer (https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-in-camicia-a-righe-bianche-e-blu-e-jeans-in-denim-blu-in-piedi-accanto-a-donna-dentro-dentro-dentro-dentro-6382676/), Hugazo Boss (https://www.pexels.com/it-it/foto/persone-donne-giovane-palcoscenico-17292197/), Wendy Wei (https://www.pexels.com/it-it/foto/gruppo-di-persone-sul-campo-1540396/), Mateusz Sałaciak (https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-in-piedi-sulla-formazione-rocciosa-4275891/), KATRIN BOLOVTSOVA (https://www.pexels.com/it-it/foto/in-legno-campo-giudice-legale-6077326/), da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori da FreeSounds (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 18 marzo 2024

Esperimenti falliti


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Foto di Mehmet Turgut Kirkgoz da Pexels


La prima volta che sentii parlare di quel pianeta promettente ma marginale negli interessi del kathrà che aveva il nome di Earth o Terra, secondo il linguaggio dei nativi, fu nel periodo del mio affrancamento. Gli scienziati del mio mondo avevano ormai ricavato tutti i dati che potevano da me, la batteria di test era terminata e il prossimo soggetto quasi pronto per prendere il mio posto, perciò tutto quello che mi restava da fare era decidere che cosa avrei fatto della mia vita da quel momento in avanti.
Una mezza idea già ce l'avevo. Avevo raccolto nel corso degli anni una discreta collezione di esperimenti falliti da studiare a mia volta, ma perlopiù si trattava di specie vegetali, funghi e qualche microorganismo unicellulare. Le uniche creature animali che avevo nella mia collezione non erano ormai più viventi quando le avevo acquisite, ma i loro resti mi avevano comunque offerto prospettive di studio interessanti.
Avevo già individuato tra quelli appartenenti al kathrà un pianeta che era in un certo senso esso stesso un esperimento fallito, ed ero in trattativa con il suo governo per ottenere i permessi di trasferirmi nella zona selvaggia. Dico che era un esperimento fallito, perché al contrario di qualsiasi altro mondo che si era unito al kathrà, Kamlo resisteva in una condizione unica: per metà faceva parte a pieno titolo del sodalizio, con tutti i vantaggi e i doveri del caso, e per la restante metà, la zona selvaggia, era considerato un pianeta neutrale il cui equilibrio non doveva essere turbato da interferenze esterne.
Isolarmi in un angolo disabitato della zona neutrale, evitando i contatti con i nativi, era il mio piano.
Lì avrei potuto continuare a studiare i miei esperimenti falliti senza timore di essere disturbato.
Sul mio mondo ero, in un certo senso, una celebrità. Restare lì dove ero stato creato e costruirmi un'esistenza indipendente dal mio passato come soggetto da esperimenti sarebbe stato impossibile.
Poi, prima della mia partenza, uno degli scienziati che mi avevano allevato tornò a trovarmi.
– Occhi grandi – mi disse, un nomignolo che lui e altri mi avevano dato da bambino, quando gli occhi che i quattro donatori adulti avevano fornito per crearmi erano davvero troppo grandi per il mio volto di infante. Non era più così, ma suppongo avesse pensato, in quel momento, che appellarmi con il codice identificativo del mio esperimento ormai terminato non fosse più un'opzione praticabile.
– Ti interessi ancora di esperimenti falliti? – mi chiese, e quando gli dissi di sì, mi pregò di seguirlo e prendere con lui una navetta diretta verso una nave in orbita. Era una nave di scienziati-mercanti di Xiegzavjib, gente con cui la mia si intendeva alla perfezione, non fosse stato che gli alieni che erano venuti in visita non si interessavano di niente che non avesse un risvolto pratico.
Non apprezzavano, in pratica, la conoscenza per amore della conoscenza.
Dovemmo procedere curvi lungo i corridoi della nave, fatti su misura per la gente a cui apparteneva, fino alla, per loro, grande sala del laboratorio centrale.
Dimensioni a parte, era un ambiente che ben conoscevo. File di teche trasparenti che custodivano campioni di materiale, strumenti e talvolta gli stessi soggetti; bombole di gas e tubi, scanner e console, pavimenti asettici e luci intense. Avevo vissuto tutta la mia vita in un luogo del genere.
Quando mi videro, gli scienziati alieni prima ancora del nome mi chiesero la mia età.
Avevano sperato che il collezionista di cui avevano tanto sentito parlare fosse più vecchio, mi dissero.
Sul loro mondo, vecchio era sinonimo di ricco.
Non sapevano che sul mio, qualcuno nato come soggetto di un esperimento cominciava la sua vita già con parecchi crediti a suo nome, e ne otteneva ancora per tutti gli anni del suo "servizio".
Una volta saputo che avevo fondi più che sufficienti per pagare, gli alieni mi portarono a conoscere il loro, di soggetto. Era una creatura bipede, con lunghe zampe per correre e una dentatura da predatore, ma stranamente pacificato.
Era un prototipo, mi dissero. Un esempio di quello che potevano fare.
Avevano studiato quel pianeta marginale chiamato Terra, come tanti altri popoli che attendevano con trepidazione l'ingresso di quel mondo nel kathrà, e quindi il momento in cui avrebbero potuto finalmente intrattenere rapporti commerciali con il nuovo mondo.
I loro studi preliminari avevano rivelato che gli abitanti di quel pianeta avevano problemi di conservazione del patrimonio faunistico, e si dava il caso che loro avevano da tempo ideato una soluzione a quel problema.
Per presentarla al meglio avevano quindi deciso di donare agli abitanti di Terra i risultati ottenuti con la loro invenzione, ovvero un esemplare appartenente a una specie animale scomparsa originaria del loro pianeta che gli scienziati-mercanti di Xiegzavjib erano stati in grado di ricreare, opportunamente privato degli istinti predatori, perché un dono che divora l'ambasciatore a cui è stato regalato non fa mai una bella impressione.
Purtroppo per loro, reintrodurre su un pianeta alieno una specie estinta da milioni di dei loro cicli di rivoluzione era vietato dalla convenzione dei protettorati, e così gli scienziati-mercanti si erano ritrovati con un costoro prototipo di cui non potevano nemmeno disfarsi, perché togliere la vita a quella creatura non sarebbe stato etico.
– Abbiamo incenerito le uova degli altri prototipi non ancora schiuse, ma di questo non sappiamo proprio che farcene – mi disse il capo scienziato-mercante. – Non ci interessa studiare una specie che non possiamo usare.
Allungai una mano e accarezzai il muso squamato della creatura, incurante delle fila di denti aguzzi. I suoi occhi intelligenti mi valutarono, prima di cedere con uno sbuffo al mio tocco.
Il piccolo alieno elencò tutte le modifiche fatte al progetto "originale", il dna appartenuto alla specie estinta, che avevano fatto per rendere il prototipo più "appetibile" per i futuri clienti dalla terra.
La maggior parte si concentravano sulla capacità cerebrale e la soppressione degli istinti, ma li avevano anche resi inoffensivi riducendo la dimensione di denti ed artigli, e avevano reso esteticamente appagante la livrea dell'animale che in origine non coincideva con i disegni tramandati dagli abitanti di Terra.
Per me, non avrebbe potuto essere più bello. Qualunque fosse stato il motivo per cui lo avevano creato, quella creatura era un esperimento abbandonato, proprio come me, e pagai con gioia la cifra richiesta per il primo esemplare animale vivente della mia collezione.
Me ne sarei preso cura come già facevo con le specie vegetali.
Prima di andarmene, c'era un'ultima cosa che il capo scienziato-mercante non mi aveva detto.
Sapevo come nutrirlo, come curarlo in caso di malattia, di cosa aveva bisogno. Ma non conoscevo il suo nome.
– Come individuo, non gli abbiamo dato un nome – mi rivelò il piccolo alieno, cosa per me inconcepibile, perché anche un soggetto creato in laboratorio per un esperimento aveva automaticamente un nome, consistente appunto nel codice dell'esperimento di cui faceva parte. – Se intendi la specie, i nativi del pianeta da cui proviene la chiamano... dinosauro.
Molte rivoluzioni della mia nuova casa più tardi, quando il nativo con cui ero entrato in contatto nella zona selvaggia mi chiese di dare rifugio a una abitante di Terra, pensai di recarmi a incontrarla portando con me, come forma di cortesia, una creatura che le fosse familiare.
Non avevo assolutamente considerato che alla vista di Dinosauro lei si sarebbe spaventata.

sabato 16 marzo 2024

Subitaneo

Subitaneo [su-bi-tà-ne-o] agg. Che avviene o si manifesta all'improvviso, in modo rapido; repentino.

Etimologia: dal latino subitaneus, da subitus, "repentino, improvviso".


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Nikolett Emmert da Pexels


L'attacco fu subitaneo, e inarrestabile.
Non avevo mai visto la magia, perciò non la temevo. Ai miei occhi era qualcosa di astratto, di impossibile, come una storia che si racconta ai bambini. Non era affilata come una spada, né rapida come una freccia, né pesante come un mazza ferrata. Conoscevo le armi. Conoscevo il loro potere offensivo, nelle mani giuste, e sebbene nel castello non vi fosse un solo cavaliere che pensavo mi fosse superiore o che potesse almeno tenermi testa, salvo mio fratello che nei giorni buoni riusciva a eguagliarmi, non li ritenevo tuttavia del tutto inutili o privi di abilità nel loro campo.
Eppure è questo che furono di fronte a Zohar delle Torri di Smeraldo e al suo seguito di stregoni: inutili.
Le guardie e i cavalieri del castello caddero come morti prima ancora di potersi avvicinare agli invasori, le frecce degli arcieri cozzarono contro muri invisibili. Piano dopo piano, gli stregoni conquistarono il castello senza incontrare resistenza. Chi poteva, tra coloro che non avevano addestramento alle armi, fuggì. Io e la regina li vedemmo dalla finestra della sua stanza.
Lei continuava a tormentarsi perché avrebbe dovuto proteggere la sua gente, e invece, in quel frangente, era impotente.
Non aveva fatto nulla di sbagliato, le dissi, aveva semplicemente rifiutato un pretendente com'era nel suo diritto fare. Zohar non aveva motivo di ritenersi offeso, e nulla se non la sua brama poteva giustificare quell'attacco.
Ci rifugiammo sulla sommità della torre quando sentimmo che i nostri nemici stavano per raggiungere le stanze reali. Mio fratello, venuto a proteggere la regina su ordine del suo comandante, si unì a noi e insieme formammo l'ultima linea di difesa. Dal racconto di ciò a cui aveva assistito, capii quanto fosse reale e terribile la magia, e iniziai a temerla. Avevo ancora fiducia, però, nella spada e nelle mie capacità. Nelle nostre capacità.
Finché la subitanea parola dello stregone Zohar non cambiò tutto quanto.

giovedì 14 marzo 2024

Audioracconto - I fantasmi del Castello di Privskayac


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Charles Parker da Pexels


Secondo la signora Nora Pickett, la custode, "non ci sono fantasmi nel Castello di Privskayac".
E allora qual è l'origine degli strani fenomeni paranormali che attirano i turisti e i cercatori di fantasmi amatoriali?

I fantasmi del Castello di Privskayac
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)


Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2022/01/illusione-di-vita.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: TipToes di Myuu (https://soundcloud.com/myuu)
dal canale di Myuu (https://www.youtube.com/watch?v=lJKeIzPzrWE);
Skeleton Dance di Myuu (https://soundcloud.com/myuu)
dal canale di Myuu (https://www.youtube.com/watch?v=asrxMvrp0qU).

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lunedì 11 marzo 2024

Qualcosa di alieno


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
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Quando le braccia squamose che mi sorreggevano mi lasciarono andare, crollai sul pavimento della cella che condividevo con Anna. Tremavo ancora per l'agonia dell'ultima sessione di tortura a cui mi avevano sottoposto, e la mia unica consolazione era che quella sarebbe stata davvero l'ultima, perché non mi era rimasto più niente di umano che potessero togliermi, a parte la mia anima. Immobilizzato sul lettino in quella stanza dalla luce abbacinante, avevo visto con sgomento i capelli che mi venivano strappati assieme alla pelle del viso, e le loro zampe orrende plasmare il mio nuovo volto.
Non avevo bisogno di uno specchio per sapere che adesso, al posto della faccia, avevo il muso allungato di un rettile.
Scambiai uno sguardo con Anna, che se ne stava rannicchiata in un angolo, trasformata ormai in un incubo dalle squame color sangue e ali telate da demonio.
Avevamo smesso di parlare da quando eravamo diventati più alieni che umani, forse perché non ci fidavamo più l'uno dell'altro, forse perché avevamo la gola riarsa per tutte quelle urla, e ci eravamo astenuti per prudenza dal bere l'acqua o mangiare la brodaglia calda che ogni tanto quelle bestie ci lasciavano in un paio di ciotole sul pavimento della cella, ma i nostri occhi dicevano tutto. Guardandola, avevo la sensazione di capire che cosa stava pensando.
E così, è fatta, la immaginai dire in tono stanco. Hanno finito anche con te.
Sospirai e chiusi gli occhi. Non volevo vedere le mie braccia ricoperte da squame bianche come la morte. Mi avevano trasformato in uno di quei rettili albini, ne avevo visti alcuni nel mio andare e venire dalla stanza delle torture, non sapevo perché proprio in uno di quelli, o perché a me avessero dato una coda e un muso bestiale, mentre ad Anna erano toccate ali, artigli e zampe da rettile al posto dei piedi. Tutto quel che sapevo era che, nonostante tutto quel candore, dentro io mi sentivo sporco.
Sentii i suoi artigli ticchettare nervosi sul pavimento della cella. Sbirciai nella sua direzione, ma lei non si era mossa, tamburellava solo con le dita dei... non piedi, zampe, ricordai a me stesso, distogliendone subito gli occhi. Non volevo alzarmi, non volevo ancora muovermi. Il pavimento era gradevolmente tiepido, ed era una buona cosa, dato che ci avevano lasciato ben poco dei nostri vestiti per coprirci. Anzi, l'intera stanza sembrava essere diventata più confortevole a mano a mano che la trasformazione dei nostri corpi procedeva, come se fosse stata fatta su misura per la fisiologia di quegli esseri alieni e non per un umano, o forse era la repulsione per la stanza della tortura a farmela gradire di più a ogni mio ritorno.
Anna si tolse una ciocca di capelli dagli occhi con il dorso della mano, badando a non toccarsi il viso. A lei almeno avevano lasciato i capelli, e la sua faccia aveva ancora un aspetto quasi umano sotto tutte quelle squame cremisi e gli spigoli pronunciati.
Che facciamo, ora? sembrarono dirmi i suoi occhi. Non possiamo tornare a casa. Anche se riuscissimo a fuggire e a raggiungere la stazione Indipendence, i nostri ci sparerebbero a vista.
Aveva ragione, naturalmente. Era quello che avevo pensato anch'io. Non c'era speranza di tornare alla vita di prima. A questo punto, sarebbe stato molto meglio se ci avessero uccisi.
Anna chinò la testa sulle ginocchia, con un lieve sbuffo. Si girò di lato a guardarmi. Sì, ma che cosa vogliono? immaginai di leggere in quegli occhi dal vago cipiglio interrogativo. Occhi rossi come le sue squame, occhi carichi di rabbia. Credono che solo perché sembriamo essere dei loro, passeremo dalla loro parte e agiremo in modo disumano come fanno loro?
Riluttante, puntai una mano sul pavimento e mi alzai a sedere. Come se quella conversazione stesse avvenendo davvero, se non me la stessi solo immaginando, scossi la testa. Io non ero un traditore, e nemmeno Anna. Piuttosto, avremmo potuto stare al loro gioco, se davvero era loro intenzione arruolarci nei loro ranghi, e al momento opportuno trovare il modo di sabotare le loro navi, magari con un po' di fortuna distruggere quella stazione spaziale, o almeno mandare un segnale per fare in modo che venisse identificata la sua posizione, così da aiutare la causa degli esseri umani. Non ne saremmo usciti vivi, ma era la cosa migliore che potessimo fare, date le circostanze.
Anna piegò le labbra in un sogghigno, come se avesse indovinato quello a cui stavo pensando.
Sarebbe un buon modo di morire, mi dissero i suoi occhi.
Il cigolante meccanismo che serrava la porta della nostra cella si mise in moto ancora una volta. Clangore di metallo, e sibili di pompe pneumatiche, e stridio di barre che scorrevano annunciò il ritorno dei nostri aguzzini. Per la prima volta dopo il tempo della tortura che ci era parso infinito, non sapevamo che cosa attenderci. Quando le porte si aprirono scoprii che erano venuti in cinque stavolta, non in tre, segno forse che non ci avrebbero separati: ci volevano entrambi.
Quello verde con le ali, che sembrava essere il capo tra loro, squadrò le ciotole colme di acqua e della poltiglia ormai fredda che ci avevano portato, e che per l'ennesima volta non avevamo nemmeno toccato. Sbuffò, poi volse uno sguardo truce dall'uno all'altro di noi. Quando aprì la bocca per parlare, rimanemmo scioccati.
– Non avete mangiato – disse quell'essere dalle squame verdi.
Anna e io ci scambiammo uno sguardo. Non era possibile che avessimo di colpo imparato a decifrare la loro lingua gutturale e inumana, solo in virtù del fatto che i nostri corpi erano diventati identici ai loro, e d'altra parte, avevamo riconosciuto quelle parole. Era la nostra lingua, senza dubbio.
Potevano capirci, mi disse l'occhiata di Anna. Avevamo ragione. Hanno sempre potuto ascoltarci, fin dall'inizio.
Lo avevamo sospettato, ma adesso era una certezza. Buona cosa che avessimo scelto di non scambiarci informazioni strategiche o qualsiasi notizia che quei rettili infidi avrebbero potuto usare contro la nostra gente.
– Alzatevi – ordinò quello in verde. Poi, dato che non accennavamo a muoverci, con un gesto della mano inviò gli altri, un paio di quelli dalle squame rosse come Anna ma con il mio stesso muso animalesco e senza ali, accompagnati da uno blu scuro con la medesima fisionomia e da un altro che aveva il colore metallico del rame e un aspetto alato simile al loro capo, ad afferrarci per le braccia e tirarci su in piedi. Anna si divincolò e lottò a quel trattamento, pur indebolita dal dolore, dalla fame e dalla sete, finché non la squadrai cercando di consigliarle con quell'occhiata e la mia calma di stare al loro gioco, di fingere, e di attendere la nostra occasione.
In qualche modo Anna sembrò capire quello che mi passava per la testa, e anche se da parte mia intuivo che non le piaceva, si arrese e si mise docilmente nelle mani dei nostri nemici.

Per la prima volta da quando, giorni prima, mi avevano condotto nella prigione dove Anna era già rinchiusa, rividi gli interminabili corridoi, i tubi lungo le pareti che parevano sostanza organica, e l'enorme vetrata che dava su un pianeta che poteva essere Giove. Ci eravamo spostati, le macchie e le striature nell'atmosfera erano in una posizione diversa rispetto a come le ricordavo, ma eravamo ancora in orbita.
Il rettile verde in testa al gruppo ci guidò attraverso una porta e di colpo ci trovammo in una zona totalmente diversa della nave. C'era ancora la gravità artificiale a tenere i nostri piedi incollati al pavimento mentre percorrevamo il corridoio eppure, a parte questo, avrei giurato che ci trovassimo in una stazione spaziale umana, forse addirittura nell'Indipendence che mi era così familiare. Quelli che ci circondavano erano ambienti puliti, dai riflessi metallici, e file di luci sul soffitto. Niente liquidi strani che colavano dalle pareti, o tubi che parevano le budella di chissà quale bestia. Persino i pulsanti accanto alle porte e il modo in cui queste ultime si aprivano a scorrimento erano dettagli che riuscivo a riconoscere.
Anna mi sbirciò, confusa quanto me. Perché hanno copiato la nostra tecnologia? era la domanda che sembrava aleggiare nei suoi occhi.
Non riuscii a immaginare una risposta, perché oltrepassata l'ennesima porta ci ritrovammo in una serra. Anche quello sembrava un ambiente familiare, e le piante che vi crescevano non erano aliene, bensì fiori terrestri che un tempo era stata pratica comune coltivare come rose, gigli, gerbere, tulipani, assieme a piante più utili quali lattuga, pomodori, fagioli, patate, piselli, e altre varietà di verdure.
Gli alieni che ci avevano tenuto in piedi in quella lunga traversata ci lasciarono, e io scoprii così di riuscire a reggermi sulle gambe anche senza di loro. Sotto la pianta dei piedi sentii la terra della serra, suolo terrestre. Non credevo che sarei mai riuscito a toccarlo di nuovo, a maggior ragione non dopo che Anna e io avevamo capito quale destino ci avevano riservato dopo la nostra cattura. Affondai le dita dei piedi nella terra. Era piacevole, dopo quella lunga passeggiata a piedi nudi su un duro pavimento di metallo, sentire la morbida consistenza della terra sulla mia pelle... sulle loro squame, ricordai, su quelle squame che non erano mie, ma che mi avevano messo addosso i miei nemici per rendermi uguale a loro. Nondimeno, la sensazione era piacevole, e mi sorprese scoprire che potevo ancora provare una sensazione simile, così semplice e così umana, nel corpo alieno che ero stato costretto ad abitare.
Non eravamo soli nella serra. C'era una donna più avanti, lunghi capelli castani stretti in una treccia, piedi nudi sporchi di terra che si intravedevano oltre l'orlo della gonna rosa pastello. Una donna umana, in ginocchio, di spalle, troppo occupata a piantare un arbusto di mirtilli per accorgersi di un gruppo di alieni pericolosamente vicini a lei.
Inerme, inconsapevole.
Gli alieni che ci avevano accompagnato fin lì si ritirarono senza darci spiegazioni, ma nella mia testa mi ero già fatto un'idea di quello che si aspettavano da noi.
– Non la uccideremo, se è questo che volete! – urlai con quel che restava della mia voce roca, girandomi a guardarli prima che uscissero dalla serra. – Noi non siamo animali!
Un paio di quelli senza ali risero alle mie parole. Dall'altro lato mi giunse la voce della donna, morbida e carezzevole, quasi materna, ma anche molto sicura di sé.
– Non riusciresti ad arrivarmi vicino.
La donna posò accanto a sé una paletta da giardinaggio prima di aggiungere in tutta calma, senza voltarsi: – Sei come un bambino, incapace di controllare i tuoi doni, a malapena consapevole del tuo fuoco. Entrambi lo siete.
Sbirciai Anna, che però si strinse nelle spalle e si accosciò per toccare con una mano la terra, affascinata quanto me da quella materia familiare così lontano da casa.
La donna si prese tutto il tempo di compattare la terra sulle radici, poi si alzò, si strofinò le mani per pulirle dalla terra e si girò verso di noi. Anna scattò in piedi, subito in allerta, sebbene la donna misteriosa non avesse affatto l'aspetto di una minaccia. A guardarci eravamo noi, piuttosto, quelli che la donna avrebbe dovuto temere.
– Anna, Walden... benvenuti a casa – disse la donna, dimostrando di conoscere i nostri nomi. – Io sono Saya, e sono qui per aiutarvi ad ambientarvi.
Stavo per ribattere con rabbia che quella non era la nostra casa e non lo sarebbe mai stata, quando un'occhiata in tralice da parte di Anna mi trattenne. Ricordati il piano! sembravano dire i suoi occhi.
Dovevamo fingere di aver accettato la nostra nuova affiliazione, fare in modo che si fidassero di noi. Tuttavia non potevo cancellare l'indignazione e il disprezzo per quella che ai miei occhi era una traditrice della sua gente.
– Saya – la chiamai per nome, forzando la voce a uscire dalla mia bocca arsa e dalla gola dolorante. – Perché un'umana dovrebbe lavorare per loro... per noi... per gli alieni?
Cercai di ragionare su che cosa potevano averle promesso per convincerla e giunsi alla conclusione che forse voleva essere trasformata. Scambiai un'occhiata con Anna e immaginai come avrebbe reagito, che cosa ne avrebbe detto se quello fosse stato realmente l'intento della donna. Ma è pazza? Non lo sa quanto fa male, come ti fa sentire, dopo?
La donna mugolò e piegò la bocca in una smorfia fugace, appena uno sporgersi di labbra seguito da un accenno di sorriso a sinistra, poi con rapidi passi si portò di fronte a me, vicinissima, e disse: – Guarda i miei occhi.
Li guardai ed ebbi un tuffo al cuore. Pupilla verticale, da rettile, e l'iride di un color mattone con sfumature metalliche, tinta rame, come le squame di uno degli alieni che ci avevano accompagnato.
Non era una donna umana.
Li vide anche Anna e mi lanciò uno sguardo allarmato. Sapevo quello che stava pensando.
Le basterebbe un niente, occhiali scuri, una visiera, per infiltrarsi in una delle nostre basi. Ce ne sono altri, come lei... ci sono già delle spie aliene in mezzo a noi?
La donna fece un passo indietro e una strana calma scese su di me. Dal suo sguardo all'improvviso rasserenato, dalla sua postura più rilassata, compresi che l'avvertiva anche Anna.
– La vostra pelle umana ricrescerà – annunciò la donna. – Ci vorrà tempo, e aiuto da parte dei guaritori, ma potrete di nuovo usare entrambe le forme. Mi dispiace che la rivelazione sia stata così dolorosa, ma non c'era altro modo. Non possiamo usare il fuoco, non con il rischio che qualcuno con il tuo dono, Anna, possa inavvertitamente causare un incendio incontrollato a bordo di un'astronave nello spazio, e nessuno degli anestetici che finora abbiamo provato a mescolare all'acido ha avuto effetto. Perciò mi dispiace, ma davvero non c'era altro modo di aiutarvi a vedere.
– ...vedere? – fece Anna, e per la prima volta udii quanto anche la sua voce fosse arrochita dal dolore e dall'arsura.
– Vedere quello che è dentro di voi – rispose la donna, allargando le mani a indicarci. – Vedere chi siete, chi siete sempre stati, pur senza saperlo.
A quelle parole avvertii un peso nel petto, e sentii Anna, al mio fianco, vacillare. Mi presi un momento per considerare quella rivelazione perché se era vero, se eravamo alieni fin dall'inizio e tutto quello che credevamo di sapere non era altro che una bugia, che senso aveva continuare a lottare per conservare un'umanità che non era mai stata davvero nostra?
Eravamo noi le spie in incognito tra gli umani?
Anna mi afferrò la mano, senza stringere troppo con gli artigli, e il suo sguardo determinato sembrò quasi volermi avvertire. È una menzogna. Nient'altro che questo, una menzogna. Vogliono che tu ci creda, così combatterai per loro, ucciderai i tuoi amici per loro. Non cadere nei loro tranelli da rettile.
Forse stavo solo immaginando il senso recondito di quello sguardo, ma quel pensiero mi diede la forza di rifiutare l'idea che quella serpe voleva inculcarmi.
Io sono un essere umano. Possono anche trasformarmi nel più orrido dei mostri, ma la mia anima resterà umana.
Saya doveva aver colto qualcosa nelle nostre espressioni, perché disse: – Siete alieni, sì, e siete anche umani. Ibridi, i figli di due mondi, come quasi tutti quelli che si trovano a bordo di questa astronave. Ma per gli esseri umani, non siete umani abbastanza da potervi accettare.
La donna si interruppe e guardò alle nostre spalle. Un alieno dalle squame arancioni stava entrando con un comunissimo tavolino e tre sedie che gli fluttuavano accanto, e dietro di lui, con vassoi di piatti e bottiglie tra le mani, venivano quelli che avrei definito un uomo e una donna, se nel passarmi accanto non avessi visto che i loro occhi alieni denunciavano la loro appartenenza alla razza dei rettili, esattamente come Saya.
– Ho saputo che non avete bevuto né mangiato, mentre vi tenevamo nella zona di contenimento... non è piacevole quel posto, lo so, ma è una precauzione necessaria. Se nonostante tutto foste riusciti a fuggire e a essere riaccolti tra gli esseri umani prima di completare la rivelazione, era imperativo che non sapeste quanto in realtà siamo simili, per non rischiare di scatenare paranoie e ingiustificate cacce all'alieno nelle comunità umane.
Mentre parlava, i tre nuovi arrivati prepararono la tavola nello spiazzo libero alla nostra sinistra. Al sentire il profumo di quella che pareva una comune zuppa di verdure, accompagnata da fette di pane tostato sottile e croccante, il mio stomaco brontolò. Ma mi feci forza, e mi imposi di non cedere alle lusinghe ingannatrici di quel banchetto, nemmeno per alleviare il dolore che avevo in gola e l'arsura che mi seccava la lingua.
– Coraggio – ci spronò Saya, mentre il trio di alieni già si allontanava silenzioso. – Dovete rimanere in forze, nutrire il vostro fuoco. Di cosa avete paura, che voglia avvelenarvi?
Saya si avvicinò al tavolo, spezzò l'angolo di una fetta di pane, lo mise in bocca e masticò, poi tuffò un cucchiaio in una ciotola di zuppa e assaporò il brodo fumante, infine si versò un bicchiere d'acqua e lo bevve fino all'ultima goccia.
– Visto? È solo cibo caldo e acqua, nulla più. Tutto ciò di cui avete bisogno adesso.
Non mi mossi, e provai a riflettere su quale trappola poteva celare quell'offerta così generosa, ma non mi venne nulla in mente. Non avrebbero mai perso tanto tempo a trasformarci se ci avessero voluti morti, e debilitati come eravamo, non sarebbe stato un problema somministrarci a forza droghe, sonniferi o chissà che altro, senza ricorrere a un trucco che si era già dimostrato inefficace.
Anna si fiondò a sedere prima di me e bevve un bicchiere dopo l'altro, avidamente, prima di passare a sfamarsi quasi con le lacrime agli occhi dopo giorni di digiuno forzato. Io procedetti con maggiore cautela, sentendo il calore della zuppa donarmi forza a ogni cucchiaiata. Era più che cibo, quello.
Saya, che ci osservava stando seduta col mento appoggiato al palmo della mano, sorrise. – Il vostro Latmas ha ripreso vigore, vero? – ci disse, e poi precisò: – Il vostro fuoco. La vostra anima.
Anna e io ci scambiammo uno sguardo. Pur se eravamo ormai in grado di riprendere a parlare senza affaticare come prima le nostre gole, non pronunciammo una sola parola, eppure a me parve di sentire lo stesso la sua voce. Non ho capito. Che intende?
Nemmeno io lo sapevo. Sapevo però che mi sentivo più forte, e più caldo di prima.
Dall'altro lato del tavolo, la donna si raddrizzò a sedere composta. – Quello che abbiamo scoperto è che il dolore, per quanto vorremmo evitarvelo, ha almeno un vantaggio. La sofferenza non spezza le barriere della vostra mente, ma le ammorbidisce, le rende più permeabili, e se condivisa, può allentarle a tal punto da creare un canale di comunicazione privilegiato, soltanto vostro. Per questo cerchiamo sempre di fare in modo che la rivelazione avvenga in coppia, se non addirittura in gruppo, quando possibile. Sarà più facile poi per voi capire come adattare le vostre barriere a una società di telepati, per comunicare con il pensiero con chiunque vogliate farlo.
– Aspetta! – interruppi in fretta la donna, e mi volsi verso Anna. Pensai di dirle che se avevo capito bene, quello che l'aliena dalle sembianze umane intendeva era che tutte quelle conversazioni immaginarie che avevo avuto con lei si erano svolte davvero, che davvero ci eravamo scambiati pensieri, e per provarlo lei avrebbe dovuto rispondermi ad alta voce, e cominciare con una parola assurda per la nostra situazione, una parola che non c'entrava niente, qualcosa come "cinciallegra".
– Mh... cinciallegra? – fece un po' incerta la voce di Anna, e dalla mia reazione allo stesso tempo incredula e trionfante, capì. – È vero... Walden, è tutto vero! Anch'io pensavo che fosse solo nella mia testa, uno di quei dialoghi che puoi immaginarti con una persona assente, solo che nel mio caso, tu eri qui.
Anna sbirciò la donna, poi mi guardò e proseguì, ma non ad alta voce. Ha detto "privilegiato", vero? Solo nostro. Quindi tutto quello che ci diciamo col pensiero rimane privato e lei non lo può sentire?
Credo di sì, né lei né gli altri
, le risposi. Se ricordi, abbiamo complottato contro di loro fin dall'inizio, e gli alieni non hanno mai fatto una piega. È utile, nella nostra situazione. Ci hanno dato un'arma. Però, d'altra parte, il rovescio della medaglia...
Saya ci aveva praticamente detto che cosa avevano voluto ottenere con la nostra trasformazione in alieni, con quel potere che sembrava un dono, ma che in realtà era la vera trappola. Vogliono che abbassiamo le barriere, vogliono che li lasciamo entrare nella nostra mente, così scopriranno tutto quello che sappiamo, ogni piano, ogni codice, ogni segreto!
Anna posò il cucchiaio, sbatté la mano sul tavolo e si girò verso la donna. Nei suoi occhi rossi vidi passare un bagliore di fuoco. – Vuoi leggere la mia mente, lucertola aliena? Ti dico io quello che troverai. – Anna prese un respiro, poi iniziò a declamare in tono solenne: – Chandra Abaroa. Stephan Wilmer. Declan O'Neal...
E continuò così, a sciorinare nomi, in una sequenza che mi era nota, perché anch'io la conoscevo a memoria. Era la Lista dei Caduti. I nomi di tutti quelli che gli alieni avevano ucciso, almeno da quando avevamo iniziato a tenere il conto. Con le navi disintegrate, non avevamo corpi da seppellire, ed era quello il nostro cimitero, per ricordare perché dovevamo resistere, per chi stavamo combattendo. Per non allungare di un altro nome la lista.
– ...e l'intero Battaglione Delta – concluse Anna, ricordando uno scontro così recente e così catastrofico in termini di vite umane che ancora non eravamo riusciti a memorizzarne i nomi uno per uno. – Puoi condire la tua offerta con zuppe calde e belle parole quanto vuoi, puoi trasformarmi fino a rendermi irriconoscibile, ma non puoi comprare la mia lealtà. Non finché ricorderò tutto il male che ci avete fatto, e per cosa? Avete rapito la nostra gente anni fa, Dio solo sa per quale scopo, e ora volete sterminare quelli che sono rimasti per... rubare la nostra terra? – concluse, accennando alla serra in cui ci trovavamo e alle sue piante di chiara origine terrestre.
La donna sulla sedia non si scompose. Avvertii di nuovo quell'influsso calmante e stavolta compresi che era lei, era il suo potere, che era in grado di placare la nostra rabbia quando si presentava.
Ecco perché era stata così sicura che non avrei potuto farle del male.
– Hai dimenticato due nomi – disse la donna, e nello stesso tono solenne con cui era stato pronunciato quell'elenco, aggiunse: – Anna Reed. Walden Townsend. A quest'ora, vi avranno ormai aggiunto alla lista.
– No – Anna scosse la testa. – No, noi siamo vivi. Non possiamo tornare a casa, è vero, ma siamo vivi. Non abbiamo alcun diritto di stare...
La donna alzò una mano e Anna tacque, forse tranquillizzata di colpo dal suo potere.
– Declan è in missione sul suolo terrestre – disse la donna, come se non stesse parlando di un morto. – Chandra e Irving sono fuori con la squadra di ricognitori. Sono ottimi piloti, li avete addestrati bene. Quanto a Stephan, e... – a quel punto, la donna sciorinò un'altra dozzina di nomi tra quelli pronunciati da Anna, e di loro disse: – ...sono all'Osservatorio di Nettuno, lontano dal fronte. Non sono combattenti per indole, e non avrebbero mai voluto arruolarsi, e noi rispettiamo la loro scelta. Gli altri sono su questa nave, se volete posso farli chiamare, così avrete una prova di quel che dico.
Anna e io ci scambiammo uno sguardo. Tu le credi? fu il pensiero che formulammo entrambi, assieme. E la risposta fu la medesima, ma fui io a prendere parola per primo.
– Vorresti farci credere che sono tutti vivi, trasformati in alieni ma vivi, e hanno accettato di lavorare per voi?
– Non tutti – mi corresse la donna. Sospirò e chiuse gli occhi, e la sua voce si fece sofferente nel raccontare: – Il Battaglione Delta è incappato in un residuo dello sciame prima che lo trovassimo noi. Non abbiamo potuto fare niente per salvarli. Io li ho sentiti, nell'istante della fine.
Custode di ogni anima. A volte, il mio dono è una condanna.
Scambiai uno sguardo con Anna per chiederle se anche lei aveva sentito, giusto per un attimo, la voce della donna nella propria testa. Sì, lo aveva sentito, non lo stavo immaginando.
La donna riaprì gli occhi, e con un mesto sorriso, aggiunse: – Può aiutarvi sapere che non siamo i nemici dell'umanità che vi hanno fatto credere che siamo? Un tempo, all'inizio di questa guerra, combattevamo assieme, difendevamo assieme la Terra contro un invasore venuto da lontano che minacciava di distruggere tutto ciò che vive. – La donna indicò con un ampio gesto le piante della serra. Poi proseguì: – La minaccia esiste, ed è reale, ma non siamo noi. Molti di noi sono cresciuti sul suolo terrestre, tanti ci sono nati, e poi ci sono quelli come voi, che non hanno la minima idea di chi sono davvero. Li stiamo cercando perché abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. Abbiamo sconfitto gli invasori ma non li abbiamo del tutto annientati, non ancora, e da quando gli esseri umani hanno rivolto le loro armi contro di noi, siamo rimasti in pochi a dare la caccia al vero nemico. Ciò che è accaduto al Battaglione Delta non deve accadere mai più.
Non ci chiedeva di combattere contro gli esseri umani, ma contro... qualcos'altro. Sembrava troppo bello per essere vero. Stavo per chiedere ad Anna se la pensava come me, quando la sentii dire: – Questi trasformati... ibridi alieni che credevano di essere del tutto umani – si corresse, segno che cominciava a credere a ciò che la donna ci aveva detto. – Posso parlarci?
– Naturalmente – rispose la donna. – Ci vorrà un attimo per inviare loro un pensiero. Li sto chiamando proprio in questo momento.
E mentre attendevamo di vedere chi si sarebbe presentato, nello studiare le dita dotate di artigli delle sue nuove mani e nel sollevare e distendere le ali che fino ad allora pendevano flosce sulla sua schiena, Anna rivolse a me i suoi pensieri. Non so se crederle... non so più cosa pensare. Credevo che avrei preferito essere morta piuttosto che restare così... un mostro... per tutta la vita. Ma se posso usare quello che sono per salvare vite umane, allora mi sta bene. Anche se non tornerò mai più a casa. E, Walden, se lei sta dicendo la verità... significa che sono io. Sono ancora io, siamo noi, questi sono i nostri corpi, non qualcosa di alieno che ci è stato imposto. Noi.
Le ricordai che Saya aveva anche detto, all'inizio, che la pelle umana sarebbe ricresciuta. Io non vedevo l'ora, ma nel frattempo ci toccava accontentarci di quello che avevamo, e abituarci a coda, ali e zampe. Le posai le mani dalle squame candide sulle spalle, e per la prima volta non la vidi tirarsi indietro con disgusto di fronte al mio muso da rettile. Anna mi fissò negli occhi, mi accarezzò il cranio pelato e squamoso stando attenta a non graffiarmi con gli artigli, e scoppiò a ridere.
Sono io. Siamo noi.

sabato 9 marzo 2024

Rocambolesco

Rocambolesco [ro-cam-bo-lé-sco] agg. (pl.m. -schi, f. -sche) Caratterizzato da incredibili peripezie.

Etimologia: dal francese rocambolesque, derivato da Rocambole, nome dell'audace e spericolato protagonista dei romanzi d’avventura dello scrittore francese Pierre Alexis Ponson du Terrail.


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Dopo la nostra rocambolesca fuga dalla città degli umani nella quale i gremlin come Talon non erano graditi, pensai che il peggio fosse alle spalle. Avevamo camminato parecchio ed eravamo stanchi, era buio e i detriti dei rottami mi facevano inciampare di continuo, ma tutto sommato non era niente in confronto a lanciarsi da una finestra con un unico paio d'ali, o sfuggire a una folla inferocita, o saltare attraverso un cerchio di fiamme in un labirinto di ingranaggi. Ero sopravvissuta a tutto quello. Conoscere la famiglia di Talon, pensai, sarebbe stata una passeggiata.
Oh, quanto mi sbagliavo.
Non lo vidi nemmeno quando mi piombò addosso dall'alto. Mi ritrovai sbattuta a terra con la schiena dolorante e il peso di un macigno a tenermi giù, e ondate d'aria che mi soffiavano la polvere in faccia.
– Umana! – urlò la creatura che mi sovrastava, che solo allora riconobbi come un gremlin. – Malvagia umana, lasciaci in pace, vattene via!
Il suo accento strano era lo stesso di Talon, ma a differenza di lui, questo gremlin era un uomo adulto. Le unghie che mi graffiavano le braccia mi fecero ritrovare la voce.
– Basta, smettila, mi fai male! Talon, aiuto!
Lo gridai anche se avevo già visto il mio amico avventarsi sul collo del gremlin e venire sbalzato via da un colpo d'ala. Nel momento di confusione in cui il gremlin si rese conto che parlavo la sua lingua, venne in mio soccorso il più improbabile degli alleati.
Danger. Il cugino di Talon.
Avevamo avuto qualche divergenza e ancora non mi fidavo di quello scavezzacollo, eppure lui si lanciò senza esitazione contro il gremlin più massiccio e riuscì a togliermelo di dosso.
– Smettila nonno – lo sentii dire – te l'ho detto, lei è l'umana che Talon ha addomesticato, quella che stavamo aspettando.
Sopportai di malavoglia quella definizione. Almeno una volta chiarito l'equivoco non ci furono altri intoppi sulla strada verso un gruppo di gremlin in attesa di ascoltare le rocambolesche avventure che mi avevano condotta fin lì.

giovedì 7 marzo 2024

Audioracconto - La scettica e la sognatrice


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Talvolta il tuo peggior nemico è chi ti somiglia di più... oppure sei tu?

La scettica e la sognatrice
(racconto breve di narrativa non di genere)


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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/01/la-scettica-e-la-sognatrice.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Preludio Op. 28 n. 4 in Mi minore di Fryderyk Chopin, dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=lo32HqRyPTg).

Immagine di: Ivan Oboleninov (https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-in-camicia-nera-rivolta-verso-lo-specchio-211024/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 4 marzo 2024

Non sono tatuaggi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Ivan Samkov da Pexels


La stazione spaziale di Cetus Primo era stranamente silenziosa in quell'ora astrale, tanto che era possibile avvertire non solo il ronzio a bassa densità dei motori gravitazionali, ma perfino le vibrazioni trasmesse al pavimento dell'occasionale accensione di un razzo propulsore che si attivava automaticamente per correggere l'orbita secondo i calcoli stabiliti dall'Intelligenza Centrale. Il sibilo dei gas nei tubi luminosi e l'odore stantio dell'aria riciclata che circolava nei condotti mi stavano già causando un fastidioso cerchio alla testa, ma non avevo alternative.
Se volevo incontrare il Tatuato, dovevo farlo in territorio neutrale, lontano dall'autorità di qualsiasi pianeta.
Non mi sarei risolto a tanto se i miei precedenti piani non fossero falliti. Avevo mandato un sicario Nemeciano con una leggendaria mira infallibile che li aveva mancati, avevo inviato una compagnia di avvelenatrici Antociane che avevano finito con l'essere ricoverate sul pianeta Lazarus per "intossicazione irreversibile", avevo perfino scatenato loro contro il Collettivo delle Macchine che dopo un'inseguimento inconcludente attraverso il pianeta Tempesta aveva concluso che era economicamente più vantaggioso rinunciare a riscuotere il loro credito e limitare le perdite.
Dopo che quei tre piantagrane avevano fatto esplodere il Divoratore che flagellava da tempo immemore il pianeta trappola ormai conosciuto soltanto con il nome di Morte Bianca, a causa del deserto d'ossa accumulate nel tempo dal Divoratore, non mi restava altra scelta.
Il Tatuato era un mercenario maledettamente costoso, ma era il migliore sulla piazza. Su di lui circolavano poche notizie, che fosse frutto di un esperimento durante le guerre di Aldebaran, del quale ero riuscito a scoprire soltanto il nome in codice, "Buco Nero", e cosa per me più interessante, che non aveva mai mancato di portare a termine un incarico. Non c'era personalità di spicco o spia nemica che non fosse riuscito a individuare e far sparire, tanto che i mandati sulla sua testa si moltiplicavano, ma nessuno sembrava in grado di catturarlo.
Eppure, quando me lo trovai di fronte, pensai subito che non fosse difficile da riconoscere, anche in mezzo alla folla. Massiccio e glabro, la sua pelle era interamente ricoperta da una fitta tela di tatuaggi, prevalentemente volti di alieni urlanti, corpi contorti dal dolore e qua e là membra in decomposizione e qualche teschio o uno scheletro intero. Molto intimidatorio, non c'è che dire.
– Bei tatuaggi – mi complimentai con lui, non appena mi si fermò di fronte e mi squadrò. Io non ero altrettanto spettacolare, potevo passare per un essere umano anche se non lo ero, e la mia forza stava proprio lì: nell'anonimato.
Lui fece una smorfia e ribatté in tono basso e minaccioso: – Non sono tatuaggi.
– Ah sì, e cosa sono?
– Vittime – fece il Tatuato, truce.
Scrollai le spalle. – Senti, non mi importa se hai il vizio di farti dei disegnini dei tuoi trofei, a me importa soltanto che tu sia in grado di eliminare questi tre.
Trassi dalla mia valigetta un foglio olografico con le registrazioni che avevo ottenuto facendo sorvegliare la capitana in bianco, l'ex militare in divisa nera e l'Arturiano.
– Nessun problema – riferì il Tatuato, dopo aver dato un'occhiata sbrigativa alle immagini.
– Sta' attento. Non sembrano granché, ma quei tre hanno già fatto fuori la bestia della Morte Bianca, le Letali Sorelle di Antocia e... beh, all'Infallibile Nemeciano non è successo niente, a parte che ha cambiato nome e si è unito a un circo spaziale per la vergogna. Adesso fa il clown.
E sono anche l'unica voce in perdita che il Collettivo delle Macchine abbia mai registrato nell'intera storia della loro esistenza, pensai, ma quello non contava. A nessuno interessava ciò che faceva il Collettivo delle Macchine, a meno che non avesse un debito da saldare a quegli implacabili strozzini.
– Nessun problema – ripeté il Tatuato. – Tu puoi pagare?
Scoppiai a ridere. Avevo le mani in pasta in più affari di quanti tatuaggi lui avesse nel corpo.
Sbirciai nei dintorni. La plancia di scambio era deserta, a quell'ora, ma di tanto in tanto una porta scorrevole si apriva con un sibilo e un alieno ne usciva fuori, diretto alle altre sezioni della stazione spaziale. Inservienti che spingevano i carrelli levitanti, o contrabbandieri con un carichi di merce illegale nell'hangar delle loro navette, o affaristi senza scrupoli disposti a tutto pur di arricchirsi ed eliminare i propri nemici: erano tutti abbastanza intelligenti da girare al largo da me e dal Tatuato.
– Nessun problema – gli dissi, ripetendo le sue stesse parole. – Ma devo essere sicuro che sto spendendo bene i miei soldi, perché non mi stancherò mai di ripeterlo, ma quei tre impiastri sono talmente astuti, o fortunati, che il Nemeciano, le Antociane, i migliori assassini della galassia non hanno saputo...
Mentre parlavo, vidi il Tatuato digrignare i denti in una smorfia sempre più rabbiosa, finché non mi zittì sbottando: – Io non sono Nemeciano o Antociano! Io! Sono! La Fine!
Di scatto il Tatuato allungò una mano ad afferrare la testa di un piccolo Adhariano in divisa da meccanico che gli era incautamente passato accanto mentre puntava alla sezione dei condotti alle mie spalle. L'alieno strillò un verso acuto dalla bocca tubolare e agitò i tentacoli, ormai sollevati da terra, e si contorse per un paio di secondi mentre la sua testa triangolare era già scomparsa nell'enorme mano del tatuato. In un lampo, il resto del corpo azzurrognolo dell'Adhariano venne risucchiato, e un grumo si spostò sottopelle sul braccio del tatuato, dal polso fino alla spalla, lì dove i tatuaggi esistenti si scostarono per far posto a un nuovo disegno, estremamente realistico, di una testa di Adhariano con i tre occhi e le tre orecchie spalancate attorno alla bocca urlante.
– Non sono tatuaggi – constatai a quel punto, comprendendo finalmente che cosa aveva inteso dire "il Tatuato", e anche il nome in codice dell'esperimento in cui lo avevano creato, Buco Nero.
– L'ho detto, io – replicò il Tatuato, tornato alla calma dopo quella dimostrazione. Fece una smorfia, e si diede una lieve pacca sulla spalla, borbottando: – Sta' zitto!
– Sono... ancora vivi? – indagai nell'indicare i tatuaggi, una mera curiosità scientifica, perché per i miei scopi, vedere come agiva era stato sufficiente. – Tu li puoi sentire?
– Si lamentano e urlano tutto il tempo, finché non sono digeriti abbastanza – brontolò il Tatuato, accennando a un teschio sull'altro braccio. – Non ti preoccupare, nessuno scappa.
Nessuno può mai sfuggire a un buco nero. Che nome azzeccato! Mi chiedevo come mai non fosse noto in quel modo, invece che come "il Tatuato". Ma forse preferiva tenere i suoi metodi segreti, perché altrimenti i suoi bersagli avrebbero capito che per usare il suo talento doveva per forza arrivare tanto vicino da toccarli.
Quella era l'unica falla nel mio ultimo piano, ma in quel momento, non ci pensai.
– Molto bene, non ho più dubbi che tu sia la persona adatta all'incarico – gli riferii, dopo essermi preso un attimo per la connessione al sistema bancario neurale. – Ho già trasferito la cifra in crediti che hai richiesto come anticipo sul tuo conto, attendo solo di vedere i tuoi tre bei nuovi... tatuaggi... e avrai il resto. Mi scuserai se non ti stringo la mano, ma non ci tengo a farti da decorazione per il resto della mia, a quel punto breve, vita.
Pensavo fossero crediti ben spesi, e che il Tatuato sarebbe davvero stato la fine di quei tre rompiscatole.
Col senno di poi, avrei fatto meglio a risparmiarli.

sabato 2 marzo 2024

Mendace

Mendace [men-dà-ce] agg. Falso, menzognero; bugiardo.

Etimologia: dal latino mendacem, connesso a mentiri, "mentire", a sua volta connesso a mens, "mente"; propriamente "che si cava di mente, che inventa il falso".


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di SHVETS production da Pexels


Era un gran giorno, un magnifico giorno davvero, quello in cui riconquistai la mia libertà. Il capitano radunò tutti quanti sulla tolda di quella prigione volante per salutarmi, e invece di dir loro come avevo pagato la mia libertà con il silenzio, raccontò una stupenda storiella su una missione che per il momento mi avrebbe affidato a terra, quella di raccontare a tutti l'esistenza e le incredibili avventure della Fortuna Maior, l'unica e sola nave del cielo. Avevamo un cantastorie a bordo, e nessuno si chiese come mai non avessero mandato giù lui invece di inviare in questa missione il truffatore.
Più di qualcuno pianse nell'accomiatarsi da me per quelli che sarebbero stati, a detta del capitano, "parecchi mesi o forse più". Probabilmente quella scena era un ultimo tentativo per intenerirmi e convincermi a desistere. No, non avrebbe funzionato.
Il cantastorie che mi aveva incastrato per poi reclutarmi a forza in quel male assortito equipaggio si trattenne più degli altri accanto a me.
– Non so come tu sia riuscito a convincerli, con quale inganno – mi disse, accettando senza problemi la maschera da marinaio che indossavo in quel momento. – Ma ti prego di riflettere bene su quello che fai. Una volta sceso non potrai tornare. Sicuro di voler proprio rinunciare all'avventura della tua vita?
Sogghignai, mi protesi verso di lui e replicai: – Un vero e proprio profeta di Galam, come ne ho conosciuti pochi. Tieni per quei mammalucchi le tue parole mendaci. Io scelgo la libertà.
Era stato qualcuno come lui a rivelarmi che appartenevo al Dio Nascosto, prima ancora che io lo scoprissi. Diceva il vero, ma nessuno crede mai a un profeta di Galam.
Il capitano volle scendere con me nella scialuppa. Forse pensava ancora di potermi indurre a cambiare idea. In ogni caso non gli diedi le spalle.
Aveva mentito all'equipaggio sul nostro accordo. Faceva un gran parlare dell'onore, ma chi poteva sapere fin dove si sarebbe spinto dopo aver rivelato la sua natura mendace?