lunedì 11 marzo 2024

Qualcosa di alieno


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Karolina Grabowska da Pexels


Quando le braccia squamose che mi sorreggevano mi lasciarono andare, crollai sul pavimento della cella che condividevo con Anna. Tremavo ancora per l'agonia dell'ultima sessione di tortura a cui mi avevano sottoposto, e la mia unica consolazione era che quella sarebbe stata davvero l'ultima, perché non mi era rimasto più niente di umano che potessero togliermi, a parte la mia anima. Immobilizzato sul lettino in quella stanza dalla luce abbacinante, avevo visto con sgomento i capelli che mi venivano strappati assieme alla pelle del viso, e le loro zampe orrende plasmare il mio nuovo volto.
Non avevo bisogno di uno specchio per sapere che adesso, al posto della faccia, avevo il muso allungato di un rettile.
Scambiai uno sguardo con Anna, che se ne stava rannicchiata in un angolo, trasformata ormai in un incubo dalle squame color sangue e ali telate da demonio.
Avevamo smesso di parlare da quando eravamo diventati più alieni che umani, forse perché non ci fidavamo più l'uno dell'altro, forse perché avevamo la gola riarsa per tutte quelle urla, e ci eravamo astenuti per prudenza dal bere l'acqua o mangiare la brodaglia calda che ogni tanto quelle bestie ci lasciavano in un paio di ciotole sul pavimento della cella, ma i nostri occhi dicevano tutto. Guardandola, avevo la sensazione di capire che cosa stava pensando.
E così, è fatta, la immaginai dire in tono stanco. Hanno finito anche con te.
Sospirai e chiusi gli occhi. Non volevo vedere le mie braccia ricoperte da squame bianche come la morte. Mi avevano trasformato in uno di quei rettili albini, ne avevo visti alcuni nel mio andare e venire dalla stanza delle torture, non sapevo perché proprio in uno di quelli, o perché a me avessero dato una coda e un muso bestiale, mentre ad Anna erano toccate ali, artigli e zampe da rettile al posto dei piedi. Tutto quel che sapevo era che, nonostante tutto quel candore, dentro io mi sentivo sporco.
Sentii i suoi artigli ticchettare nervosi sul pavimento della cella. Sbirciai nella sua direzione, ma lei non si era mossa, tamburellava solo con le dita dei... non piedi, zampe, ricordai a me stesso, distogliendone subito gli occhi. Non volevo alzarmi, non volevo ancora muovermi. Il pavimento era gradevolmente tiepido, ed era una buona cosa, dato che ci avevano lasciato ben poco dei nostri vestiti per coprirci. Anzi, l'intera stanza sembrava essere diventata più confortevole a mano a mano che la trasformazione dei nostri corpi procedeva, come se fosse stata fatta su misura per la fisiologia di quegli esseri alieni e non per un umano, o forse era la repulsione per la stanza della tortura a farmela gradire di più a ogni mio ritorno.
Anna si tolse una ciocca di capelli dagli occhi con il dorso della mano, badando a non toccarsi il viso. A lei almeno avevano lasciato i capelli, e la sua faccia aveva ancora un aspetto quasi umano sotto tutte quelle squame cremisi e gli spigoli pronunciati.
Che facciamo, ora? sembrarono dirmi i suoi occhi. Non possiamo tornare a casa. Anche se riuscissimo a fuggire e a raggiungere la stazione Indipendence, i nostri ci sparerebbero a vista.
Aveva ragione, naturalmente. Era quello che avevo pensato anch'io. Non c'era speranza di tornare alla vita di prima. A questo punto, sarebbe stato molto meglio se ci avessero uccisi.
Anna chinò la testa sulle ginocchia, con un lieve sbuffo. Si girò di lato a guardarmi. Sì, ma che cosa vogliono? immaginai di leggere in quegli occhi dal vago cipiglio interrogativo. Occhi rossi come le sue squame, occhi carichi di rabbia. Credono che solo perché sembriamo essere dei loro, passeremo dalla loro parte e agiremo in modo disumano come fanno loro?
Riluttante, puntai una mano sul pavimento e mi alzai a sedere. Come se quella conversazione stesse avvenendo davvero, se non me la stessi solo immaginando, scossi la testa. Io non ero un traditore, e nemmeno Anna. Piuttosto, avremmo potuto stare al loro gioco, se davvero era loro intenzione arruolarci nei loro ranghi, e al momento opportuno trovare il modo di sabotare le loro navi, magari con un po' di fortuna distruggere quella stazione spaziale, o almeno mandare un segnale per fare in modo che venisse identificata la sua posizione, così da aiutare la causa degli esseri umani. Non ne saremmo usciti vivi, ma era la cosa migliore che potessimo fare, date le circostanze.
Anna piegò le labbra in un sogghigno, come se avesse indovinato quello a cui stavo pensando.
Sarebbe un buon modo di morire, mi dissero i suoi occhi.
Il cigolante meccanismo che serrava la porta della nostra cella si mise in moto ancora una volta. Clangore di metallo, e sibili di pompe pneumatiche, e stridio di barre che scorrevano annunciò il ritorno dei nostri aguzzini. Per la prima volta dopo il tempo della tortura che ci era parso infinito, non sapevamo che cosa attenderci. Quando le porte si aprirono scoprii che erano venuti in cinque stavolta, non in tre, segno forse che non ci avrebbero separati: ci volevano entrambi.
Quello verde con le ali, che sembrava essere il capo tra loro, squadrò le ciotole colme di acqua e della poltiglia ormai fredda che ci avevano portato, e che per l'ennesima volta non avevamo nemmeno toccato. Sbuffò, poi volse uno sguardo truce dall'uno all'altro di noi. Quando aprì la bocca per parlare, rimanemmo scioccati.
– Non avete mangiato – disse quell'essere dalle squame verdi.
Anna e io ci scambiammo uno sguardo. Non era possibile che avessimo di colpo imparato a decifrare la loro lingua gutturale e inumana, solo in virtù del fatto che i nostri corpi erano diventati identici ai loro, e d'altra parte, avevamo riconosciuto quelle parole. Era la nostra lingua, senza dubbio.
Potevano capirci, mi disse l'occhiata di Anna. Avevamo ragione. Hanno sempre potuto ascoltarci, fin dall'inizio.
Lo avevamo sospettato, ma adesso era una certezza. Buona cosa che avessimo scelto di non scambiarci informazioni strategiche o qualsiasi notizia che quei rettili infidi avrebbero potuto usare contro la nostra gente.
– Alzatevi – ordinò quello in verde. Poi, dato che non accennavamo a muoverci, con un gesto della mano inviò gli altri, un paio di quelli dalle squame rosse come Anna ma con il mio stesso muso animalesco e senza ali, accompagnati da uno blu scuro con la medesima fisionomia e da un altro che aveva il colore metallico del rame e un aspetto alato simile al loro capo, ad afferrarci per le braccia e tirarci su in piedi. Anna si divincolò e lottò a quel trattamento, pur indebolita dal dolore, dalla fame e dalla sete, finché non la squadrai cercando di consigliarle con quell'occhiata e la mia calma di stare al loro gioco, di fingere, e di attendere la nostra occasione.
In qualche modo Anna sembrò capire quello che mi passava per la testa, e anche se da parte mia intuivo che non le piaceva, si arrese e si mise docilmente nelle mani dei nostri nemici.

Per la prima volta da quando, giorni prima, mi avevano condotto nella prigione dove Anna era già rinchiusa, rividi gli interminabili corridoi, i tubi lungo le pareti che parevano sostanza organica, e l'enorme vetrata che dava su un pianeta che poteva essere Giove. Ci eravamo spostati, le macchie e le striature nell'atmosfera erano in una posizione diversa rispetto a come le ricordavo, ma eravamo ancora in orbita.
Il rettile verde in testa al gruppo ci guidò attraverso una porta e di colpo ci trovammo in una zona totalmente diversa della nave. C'era ancora la gravità artificiale a tenere i nostri piedi incollati al pavimento mentre percorrevamo il corridoio eppure, a parte questo, avrei giurato che ci trovassimo in una stazione spaziale umana, forse addirittura nell'Indipendence che mi era così familiare. Quelli che ci circondavano erano ambienti puliti, dai riflessi metallici, e file di luci sul soffitto. Niente liquidi strani che colavano dalle pareti, o tubi che parevano le budella di chissà quale bestia. Persino i pulsanti accanto alle porte e il modo in cui queste ultime si aprivano a scorrimento erano dettagli che riuscivo a riconoscere.
Anna mi sbirciò, confusa quanto me. Perché hanno copiato la nostra tecnologia? era la domanda che sembrava aleggiare nei suoi occhi.
Non riuscii a immaginare una risposta, perché oltrepassata l'ennesima porta ci ritrovammo in una serra. Anche quello sembrava un ambiente familiare, e le piante che vi crescevano non erano aliene, bensì fiori terrestri che un tempo era stata pratica comune coltivare come rose, gigli, gerbere, tulipani, assieme a piante più utili quali lattuga, pomodori, fagioli, patate, piselli, e altre varietà di verdure.
Gli alieni che ci avevano tenuto in piedi in quella lunga traversata ci lasciarono, e io scoprii così di riuscire a reggermi sulle gambe anche senza di loro. Sotto la pianta dei piedi sentii la terra della serra, suolo terrestre. Non credevo che sarei mai riuscito a toccarlo di nuovo, a maggior ragione non dopo che Anna e io avevamo capito quale destino ci avevano riservato dopo la nostra cattura. Affondai le dita dei piedi nella terra. Era piacevole, dopo quella lunga passeggiata a piedi nudi su un duro pavimento di metallo, sentire la morbida consistenza della terra sulla mia pelle... sulle loro squame, ricordai, su quelle squame che non erano mie, ma che mi avevano messo addosso i miei nemici per rendermi uguale a loro. Nondimeno, la sensazione era piacevole, e mi sorprese scoprire che potevo ancora provare una sensazione simile, così semplice e così umana, nel corpo alieno che ero stato costretto ad abitare.
Non eravamo soli nella serra. C'era una donna più avanti, lunghi capelli castani stretti in una treccia, piedi nudi sporchi di terra che si intravedevano oltre l'orlo della gonna rosa pastello. Una donna umana, in ginocchio, di spalle, troppo occupata a piantare un arbusto di mirtilli per accorgersi di un gruppo di alieni pericolosamente vicini a lei.
Inerme, inconsapevole.
Gli alieni che ci avevano accompagnato fin lì si ritirarono senza darci spiegazioni, ma nella mia testa mi ero già fatto un'idea di quello che si aspettavano da noi.
– Non la uccideremo, se è questo che volete! – urlai con quel che restava della mia voce roca, girandomi a guardarli prima che uscissero dalla serra. – Noi non siamo animali!
Un paio di quelli senza ali risero alle mie parole. Dall'altro lato mi giunse la voce della donna, morbida e carezzevole, quasi materna, ma anche molto sicura di sé.
– Non riusciresti ad arrivarmi vicino.
La donna posò accanto a sé una paletta da giardinaggio prima di aggiungere in tutta calma, senza voltarsi: – Sei come un bambino, incapace di controllare i tuoi doni, a malapena consapevole del tuo fuoco. Entrambi lo siete.
Sbirciai Anna, che però si strinse nelle spalle e si accosciò per toccare con una mano la terra, affascinata quanto me da quella materia familiare così lontano da casa.
La donna si prese tutto il tempo di compattare la terra sulle radici, poi si alzò, si strofinò le mani per pulirle dalla terra e si girò verso di noi. Anna scattò in piedi, subito in allerta, sebbene la donna misteriosa non avesse affatto l'aspetto di una minaccia. A guardarci eravamo noi, piuttosto, quelli che la donna avrebbe dovuto temere.
– Anna, Walden... benvenuti a casa – disse la donna, dimostrando di conoscere i nostri nomi. – Io sono Saya, e sono qui per aiutarvi ad ambientarvi.
Stavo per ribattere con rabbia che quella non era la nostra casa e non lo sarebbe mai stata, quando un'occhiata in tralice da parte di Anna mi trattenne. Ricordati il piano! sembravano dire i suoi occhi.
Dovevamo fingere di aver accettato la nostra nuova affiliazione, fare in modo che si fidassero di noi. Tuttavia non potevo cancellare l'indignazione e il disprezzo per quella che ai miei occhi era una traditrice della sua gente.
– Saya – la chiamai per nome, forzando la voce a uscire dalla mia bocca arsa e dalla gola dolorante. – Perché un'umana dovrebbe lavorare per loro... per noi... per gli alieni?
Cercai di ragionare su che cosa potevano averle promesso per convincerla e giunsi alla conclusione che forse voleva essere trasformata. Scambiai un'occhiata con Anna e immaginai come avrebbe reagito, che cosa ne avrebbe detto se quello fosse stato realmente l'intento della donna. Ma è pazza? Non lo sa quanto fa male, come ti fa sentire, dopo?
La donna mugolò e piegò la bocca in una smorfia fugace, appena uno sporgersi di labbra seguito da un accenno di sorriso a sinistra, poi con rapidi passi si portò di fronte a me, vicinissima, e disse: – Guarda i miei occhi.
Li guardai ed ebbi un tuffo al cuore. Pupilla verticale, da rettile, e l'iride di un color mattone con sfumature metalliche, tinta rame, come le squame di uno degli alieni che ci avevano accompagnato.
Non era una donna umana.
Li vide anche Anna e mi lanciò uno sguardo allarmato. Sapevo quello che stava pensando.
Le basterebbe un niente, occhiali scuri, una visiera, per infiltrarsi in una delle nostre basi. Ce ne sono altri, come lei... ci sono già delle spie aliene in mezzo a noi?
La donna fece un passo indietro e una strana calma scese su di me. Dal suo sguardo all'improvviso rasserenato, dalla sua postura più rilassata, compresi che l'avvertiva anche Anna.
– La vostra pelle umana ricrescerà – annunciò la donna. – Ci vorrà tempo, e aiuto da parte dei guaritori, ma potrete di nuovo usare entrambe le forme. Mi dispiace che la rivelazione sia stata così dolorosa, ma non c'era altro modo. Non possiamo usare il fuoco, non con il rischio che qualcuno con il tuo dono, Anna, possa inavvertitamente causare un incendio incontrollato a bordo di un'astronave nello spazio, e nessuno degli anestetici che finora abbiamo provato a mescolare all'acido ha avuto effetto. Perciò mi dispiace, ma davvero non c'era altro modo di aiutarvi a vedere.
– ...vedere? – fece Anna, e per la prima volta udii quanto anche la sua voce fosse arrochita dal dolore e dall'arsura.
– Vedere quello che è dentro di voi – rispose la donna, allargando le mani a indicarci. – Vedere chi siete, chi siete sempre stati, pur senza saperlo.
A quelle parole avvertii un peso nel petto, e sentii Anna, al mio fianco, vacillare. Mi presi un momento per considerare quella rivelazione perché se era vero, se eravamo alieni fin dall'inizio e tutto quello che credevamo di sapere non era altro che una bugia, che senso aveva continuare a lottare per conservare un'umanità che non era mai stata davvero nostra?
Eravamo noi le spie in incognito tra gli umani?
Anna mi afferrò la mano, senza stringere troppo con gli artigli, e il suo sguardo determinato sembrò quasi volermi avvertire. È una menzogna. Nient'altro che questo, una menzogna. Vogliono che tu ci creda, così combatterai per loro, ucciderai i tuoi amici per loro. Non cadere nei loro tranelli da rettile.
Forse stavo solo immaginando il senso recondito di quello sguardo, ma quel pensiero mi diede la forza di rifiutare l'idea che quella serpe voleva inculcarmi.
Io sono un essere umano. Possono anche trasformarmi nel più orrido dei mostri, ma la mia anima resterà umana.
Saya doveva aver colto qualcosa nelle nostre espressioni, perché disse: – Siete alieni, sì, e siete anche umani. Ibridi, i figli di due mondi, come quasi tutti quelli che si trovano a bordo di questa astronave. Ma per gli esseri umani, non siete umani abbastanza da potervi accettare.
La donna si interruppe e guardò alle nostre spalle. Un alieno dalle squame arancioni stava entrando con un comunissimo tavolino e tre sedie che gli fluttuavano accanto, e dietro di lui, con vassoi di piatti e bottiglie tra le mani, venivano quelli che avrei definito un uomo e una donna, se nel passarmi accanto non avessi visto che i loro occhi alieni denunciavano la loro appartenenza alla razza dei rettili, esattamente come Saya.
– Ho saputo che non avete bevuto né mangiato, mentre vi tenevamo nella zona di contenimento... non è piacevole quel posto, lo so, ma è una precauzione necessaria. Se nonostante tutto foste riusciti a fuggire e a essere riaccolti tra gli esseri umani prima di completare la rivelazione, era imperativo che non sapeste quanto in realtà siamo simili, per non rischiare di scatenare paranoie e ingiustificate cacce all'alieno nelle comunità umane.
Mentre parlava, i tre nuovi arrivati prepararono la tavola nello spiazzo libero alla nostra sinistra. Al sentire il profumo di quella che pareva una comune zuppa di verdure, accompagnata da fette di pane tostato sottile e croccante, il mio stomaco brontolò. Ma mi feci forza, e mi imposi di non cedere alle lusinghe ingannatrici di quel banchetto, nemmeno per alleviare il dolore che avevo in gola e l'arsura che mi seccava la lingua.
– Coraggio – ci spronò Saya, mentre il trio di alieni già si allontanava silenzioso. – Dovete rimanere in forze, nutrire il vostro fuoco. Di cosa avete paura, che voglia avvelenarvi?
Saya si avvicinò al tavolo, spezzò l'angolo di una fetta di pane, lo mise in bocca e masticò, poi tuffò un cucchiaio in una ciotola di zuppa e assaporò il brodo fumante, infine si versò un bicchiere d'acqua e lo bevve fino all'ultima goccia.
– Visto? È solo cibo caldo e acqua, nulla più. Tutto ciò di cui avete bisogno adesso.
Non mi mossi, e provai a riflettere su quale trappola poteva celare quell'offerta così generosa, ma non mi venne nulla in mente. Non avrebbero mai perso tanto tempo a trasformarci se ci avessero voluti morti, e debilitati come eravamo, non sarebbe stato un problema somministrarci a forza droghe, sonniferi o chissà che altro, senza ricorrere a un trucco che si era già dimostrato inefficace.
Anna si fiondò a sedere prima di me e bevve un bicchiere dopo l'altro, avidamente, prima di passare a sfamarsi quasi con le lacrime agli occhi dopo giorni di digiuno forzato. Io procedetti con maggiore cautela, sentendo il calore della zuppa donarmi forza a ogni cucchiaiata. Era più che cibo, quello.
Saya, che ci osservava stando seduta col mento appoggiato al palmo della mano, sorrise. – Il vostro Latmas ha ripreso vigore, vero? – ci disse, e poi precisò: – Il vostro fuoco. La vostra anima.
Anna e io ci scambiammo uno sguardo. Pur se eravamo ormai in grado di riprendere a parlare senza affaticare come prima le nostre gole, non pronunciammo una sola parola, eppure a me parve di sentire lo stesso la sua voce. Non ho capito. Che intende?
Nemmeno io lo sapevo. Sapevo però che mi sentivo più forte, e più caldo di prima.
Dall'altro lato del tavolo, la donna si raddrizzò a sedere composta. – Quello che abbiamo scoperto è che il dolore, per quanto vorremmo evitarvelo, ha almeno un vantaggio. La sofferenza non spezza le barriere della vostra mente, ma le ammorbidisce, le rende più permeabili, e se condivisa, può allentarle a tal punto da creare un canale di comunicazione privilegiato, soltanto vostro. Per questo cerchiamo sempre di fare in modo che la rivelazione avvenga in coppia, se non addirittura in gruppo, quando possibile. Sarà più facile poi per voi capire come adattare le vostre barriere a una società di telepati, per comunicare con il pensiero con chiunque vogliate farlo.
– Aspetta! – interruppi in fretta la donna, e mi volsi verso Anna. Pensai di dirle che se avevo capito bene, quello che l'aliena dalle sembianze umane intendeva era che tutte quelle conversazioni immaginarie che avevo avuto con lei si erano svolte davvero, che davvero ci eravamo scambiati pensieri, e per provarlo lei avrebbe dovuto rispondermi ad alta voce, e cominciare con una parola assurda per la nostra situazione, una parola che non c'entrava niente, qualcosa come "cinciallegra".
– Mh... cinciallegra? – fece un po' incerta la voce di Anna, e dalla mia reazione allo stesso tempo incredula e trionfante, capì. – È vero... Walden, è tutto vero! Anch'io pensavo che fosse solo nella mia testa, uno di quei dialoghi che puoi immaginarti con una persona assente, solo che nel mio caso, tu eri qui.
Anna sbirciò la donna, poi mi guardò e proseguì, ma non ad alta voce. Ha detto "privilegiato", vero? Solo nostro. Quindi tutto quello che ci diciamo col pensiero rimane privato e lei non lo può sentire?
Credo di sì, né lei né gli altri
, le risposi. Se ricordi, abbiamo complottato contro di loro fin dall'inizio, e gli alieni non hanno mai fatto una piega. È utile, nella nostra situazione. Ci hanno dato un'arma. Però, d'altra parte, il rovescio della medaglia...
Saya ci aveva praticamente detto che cosa avevano voluto ottenere con la nostra trasformazione in alieni, con quel potere che sembrava un dono, ma che in realtà era la vera trappola. Vogliono che abbassiamo le barriere, vogliono che li lasciamo entrare nella nostra mente, così scopriranno tutto quello che sappiamo, ogni piano, ogni codice, ogni segreto!
Anna posò il cucchiaio, sbatté la mano sul tavolo e si girò verso la donna. Nei suoi occhi rossi vidi passare un bagliore di fuoco. – Vuoi leggere la mia mente, lucertola aliena? Ti dico io quello che troverai. – Anna prese un respiro, poi iniziò a declamare in tono solenne: – Chandra Abaroa. Stephan Wilmer. Declan O'Neal...
E continuò così, a sciorinare nomi, in una sequenza che mi era nota, perché anch'io la conoscevo a memoria. Era la Lista dei Caduti. I nomi di tutti quelli che gli alieni avevano ucciso, almeno da quando avevamo iniziato a tenere il conto. Con le navi disintegrate, non avevamo corpi da seppellire, ed era quello il nostro cimitero, per ricordare perché dovevamo resistere, per chi stavamo combattendo. Per non allungare di un altro nome la lista.
– ...e l'intero Battaglione Delta – concluse Anna, ricordando uno scontro così recente e così catastrofico in termini di vite umane che ancora non eravamo riusciti a memorizzarne i nomi uno per uno. – Puoi condire la tua offerta con zuppe calde e belle parole quanto vuoi, puoi trasformarmi fino a rendermi irriconoscibile, ma non puoi comprare la mia lealtà. Non finché ricorderò tutto il male che ci avete fatto, e per cosa? Avete rapito la nostra gente anni fa, Dio solo sa per quale scopo, e ora volete sterminare quelli che sono rimasti per... rubare la nostra terra? – concluse, accennando alla serra in cui ci trovavamo e alle sue piante di chiara origine terrestre.
La donna sulla sedia non si scompose. Avvertii di nuovo quell'influsso calmante e stavolta compresi che era lei, era il suo potere, che era in grado di placare la nostra rabbia quando si presentava.
Ecco perché era stata così sicura che non avrei potuto farle del male.
– Hai dimenticato due nomi – disse la donna, e nello stesso tono solenne con cui era stato pronunciato quell'elenco, aggiunse: – Anna Reed. Walden Townsend. A quest'ora, vi avranno ormai aggiunto alla lista.
– No – Anna scosse la testa. – No, noi siamo vivi. Non possiamo tornare a casa, è vero, ma siamo vivi. Non abbiamo alcun diritto di stare...
La donna alzò una mano e Anna tacque, forse tranquillizzata di colpo dal suo potere.
– Declan è in missione sul suolo terrestre – disse la donna, come se non stesse parlando di un morto. – Chandra e Irving sono fuori con la squadra di ricognitori. Sono ottimi piloti, li avete addestrati bene. Quanto a Stephan, e... – a quel punto, la donna sciorinò un'altra dozzina di nomi tra quelli pronunciati da Anna, e di loro disse: – ...sono all'Osservatorio di Nettuno, lontano dal fronte. Non sono combattenti per indole, e non avrebbero mai voluto arruolarsi, e noi rispettiamo la loro scelta. Gli altri sono su questa nave, se volete posso farli chiamare, così avrete una prova di quel che dico.
Anna e io ci scambiammo uno sguardo. Tu le credi? fu il pensiero che formulammo entrambi, assieme. E la risposta fu la medesima, ma fui io a prendere parola per primo.
– Vorresti farci credere che sono tutti vivi, trasformati in alieni ma vivi, e hanno accettato di lavorare per voi?
– Non tutti – mi corresse la donna. Sospirò e chiuse gli occhi, e la sua voce si fece sofferente nel raccontare: – Il Battaglione Delta è incappato in un residuo dello sciame prima che lo trovassimo noi. Non abbiamo potuto fare niente per salvarli. Io li ho sentiti, nell'istante della fine.
Custode di ogni anima. A volte, il mio dono è una condanna.
Scambiai uno sguardo con Anna per chiederle se anche lei aveva sentito, giusto per un attimo, la voce della donna nella propria testa. Sì, lo aveva sentito, non lo stavo immaginando.
La donna riaprì gli occhi, e con un mesto sorriso, aggiunse: – Può aiutarvi sapere che non siamo i nemici dell'umanità che vi hanno fatto credere che siamo? Un tempo, all'inizio di questa guerra, combattevamo assieme, difendevamo assieme la Terra contro un invasore venuto da lontano che minacciava di distruggere tutto ciò che vive. – La donna indicò con un ampio gesto le piante della serra. Poi proseguì: – La minaccia esiste, ed è reale, ma non siamo noi. Molti di noi sono cresciuti sul suolo terrestre, tanti ci sono nati, e poi ci sono quelli come voi, che non hanno la minima idea di chi sono davvero. Li stiamo cercando perché abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. Abbiamo sconfitto gli invasori ma non li abbiamo del tutto annientati, non ancora, e da quando gli esseri umani hanno rivolto le loro armi contro di noi, siamo rimasti in pochi a dare la caccia al vero nemico. Ciò che è accaduto al Battaglione Delta non deve accadere mai più.
Non ci chiedeva di combattere contro gli esseri umani, ma contro... qualcos'altro. Sembrava troppo bello per essere vero. Stavo per chiedere ad Anna se la pensava come me, quando la sentii dire: – Questi trasformati... ibridi alieni che credevano di essere del tutto umani – si corresse, segno che cominciava a credere a ciò che la donna ci aveva detto. – Posso parlarci?
– Naturalmente – rispose la donna. – Ci vorrà un attimo per inviare loro un pensiero. Li sto chiamando proprio in questo momento.
E mentre attendevamo di vedere chi si sarebbe presentato, nello studiare le dita dotate di artigli delle sue nuove mani e nel sollevare e distendere le ali che fino ad allora pendevano flosce sulla sua schiena, Anna rivolse a me i suoi pensieri. Non so se crederle... non so più cosa pensare. Credevo che avrei preferito essere morta piuttosto che restare così... un mostro... per tutta la vita. Ma se posso usare quello che sono per salvare vite umane, allora mi sta bene. Anche se non tornerò mai più a casa. E, Walden, se lei sta dicendo la verità... significa che sono io. Sono ancora io, siamo noi, questi sono i nostri corpi, non qualcosa di alieno che ci è stato imposto. Noi.
Le ricordai che Saya aveva anche detto, all'inizio, che la pelle umana sarebbe ricresciuta. Io non vedevo l'ora, ma nel frattempo ci toccava accontentarci di quello che avevamo, e abituarci a coda, ali e zampe. Le posai le mani dalle squame candide sulle spalle, e per la prima volta non la vidi tirarsi indietro con disgusto di fronte al mio muso da rettile. Anna mi fissò negli occhi, mi accarezzò il cranio pelato e squamoso stando attenta a non graffiarmi con gli artigli, e scoppiò a ridere.
Sono io. Siamo noi.

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