lunedì 18 marzo 2024

Esperimenti falliti


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Foto di Mehmet Turgut Kirkgoz da Pexels


La prima volta che sentii parlare di quel pianeta promettente ma marginale negli interessi del kathrà che aveva il nome di Earth o Terra, secondo il linguaggio dei nativi, fu nel periodo del mio affrancamento. Gli scienziati del mio mondo avevano ormai ricavato tutti i dati che potevano da me, la batteria di test era terminata e il prossimo soggetto quasi pronto per prendere il mio posto, perciò tutto quello che mi restava da fare era decidere che cosa avrei fatto della mia vita da quel momento in avanti.
Una mezza idea già ce l'avevo. Avevo raccolto nel corso degli anni una discreta collezione di esperimenti falliti da studiare a mia volta, ma perlopiù si trattava di specie vegetali, funghi e qualche microorganismo unicellulare. Le uniche creature animali che avevo nella mia collezione non erano ormai più viventi quando le avevo acquisite, ma i loro resti mi avevano comunque offerto prospettive di studio interessanti.
Avevo già individuato tra quelli appartenenti al kathrà un pianeta che era in un certo senso esso stesso un esperimento fallito, ed ero in trattativa con il suo governo per ottenere i permessi di trasferirmi nella zona selvaggia. Dico che era un esperimento fallito, perché al contrario di qualsiasi altro mondo che si era unito al kathrà, Kamlo resisteva in una condizione unica: per metà faceva parte a pieno titolo del sodalizio, con tutti i vantaggi e i doveri del caso, e per la restante metà, la zona selvaggia, era considerato un pianeta neutrale il cui equilibrio non doveva essere turbato da interferenze esterne.
Isolarmi in un angolo disabitato della zona neutrale, evitando i contatti con i nativi, era il mio piano.
Lì avrei potuto continuare a studiare i miei esperimenti falliti senza timore di essere disturbato.
Sul mio mondo ero, in un certo senso, una celebrità. Restare lì dove ero stato creato e costruirmi un'esistenza indipendente dal mio passato come soggetto da esperimenti sarebbe stato impossibile.
Poi, prima della mia partenza, uno degli scienziati che mi avevano allevato tornò a trovarmi.
– Occhi grandi – mi disse, un nomignolo che lui e altri mi avevano dato da bambino, quando gli occhi che i quattro donatori adulti avevano fornito per crearmi erano davvero troppo grandi per il mio volto di infante. Non era più così, ma suppongo avesse pensato, in quel momento, che appellarmi con il codice identificativo del mio esperimento ormai terminato non fosse più un'opzione praticabile.
– Ti interessi ancora di esperimenti falliti? – mi chiese, e quando gli dissi di sì, mi pregò di seguirlo e prendere con lui una navetta diretta verso una nave in orbita. Era una nave di scienziati-mercanti di Xiegzavjib, gente con cui la mia si intendeva alla perfezione, non fosse stato che gli alieni che erano venuti in visita non si interessavano di niente che non avesse un risvolto pratico.
Non apprezzavano, in pratica, la conoscenza per amore della conoscenza.
Dovemmo procedere curvi lungo i corridoi della nave, fatti su misura per la gente a cui apparteneva, fino alla, per loro, grande sala del laboratorio centrale.
Dimensioni a parte, era un ambiente che ben conoscevo. File di teche trasparenti che custodivano campioni di materiale, strumenti e talvolta gli stessi soggetti; bombole di gas e tubi, scanner e console, pavimenti asettici e luci intense. Avevo vissuto tutta la mia vita in un luogo del genere.
Quando mi videro, gli scienziati alieni prima ancora del nome mi chiesero la mia età.
Avevano sperato che il collezionista di cui avevano tanto sentito parlare fosse più vecchio, mi dissero.
Sul loro mondo, vecchio era sinonimo di ricco.
Non sapevano che sul mio, qualcuno nato come soggetto di un esperimento cominciava la sua vita già con parecchi crediti a suo nome, e ne otteneva ancora per tutti gli anni del suo "servizio".
Una volta saputo che avevo fondi più che sufficienti per pagare, gli alieni mi portarono a conoscere il loro, di soggetto. Era una creatura bipede, con lunghe zampe per correre e una dentatura da predatore, ma stranamente pacificato.
Era un prototipo, mi dissero. Un esempio di quello che potevano fare.
Avevano studiato quel pianeta marginale chiamato Terra, come tanti altri popoli che attendevano con trepidazione l'ingresso di quel mondo nel kathrà, e quindi il momento in cui avrebbero potuto finalmente intrattenere rapporti commerciali con il nuovo mondo.
I loro studi preliminari avevano rivelato che gli abitanti di quel pianeta avevano problemi di conservazione del patrimonio faunistico, e si dava il caso che loro avevano da tempo ideato una soluzione a quel problema.
Per presentarla al meglio avevano quindi deciso di donare agli abitanti di Terra i risultati ottenuti con la loro invenzione, ovvero un esemplare appartenente a una specie animale scomparsa originaria del loro pianeta che gli scienziati-mercanti di Xiegzavjib erano stati in grado di ricreare, opportunamente privato degli istinti predatori, perché un dono che divora l'ambasciatore a cui è stato regalato non fa mai una bella impressione.
Purtroppo per loro, reintrodurre su un pianeta alieno una specie estinta da milioni di dei loro cicli di rivoluzione era vietato dalla convenzione dei protettorati, e così gli scienziati-mercanti si erano ritrovati con un costoro prototipo di cui non potevano nemmeno disfarsi, perché togliere la vita a quella creatura non sarebbe stato etico.
– Abbiamo incenerito le uova degli altri prototipi non ancora schiuse, ma di questo non sappiamo proprio che farcene – mi disse il capo scienziato-mercante. – Non ci interessa studiare una specie che non possiamo usare.
Allungai una mano e accarezzai il muso squamato della creatura, incurante delle fila di denti aguzzi. I suoi occhi intelligenti mi valutarono, prima di cedere con uno sbuffo al mio tocco.
Il piccolo alieno elencò tutte le modifiche fatte al progetto "originale", il dna appartenuto alla specie estinta, che avevano fatto per rendere il prototipo più "appetibile" per i futuri clienti dalla terra.
La maggior parte si concentravano sulla capacità cerebrale e la soppressione degli istinti, ma li avevano anche resi inoffensivi riducendo la dimensione di denti ed artigli, e avevano reso esteticamente appagante la livrea dell'animale che in origine non coincideva con i disegni tramandati dagli abitanti di Terra.
Per me, non avrebbe potuto essere più bello. Qualunque fosse stato il motivo per cui lo avevano creato, quella creatura era un esperimento abbandonato, proprio come me, e pagai con gioia la cifra richiesta per il primo esemplare animale vivente della mia collezione.
Me ne sarei preso cura come già facevo con le specie vegetali.
Prima di andarmene, c'era un'ultima cosa che il capo scienziato-mercante non mi aveva detto.
Sapevo come nutrirlo, come curarlo in caso di malattia, di cosa aveva bisogno. Ma non conoscevo il suo nome.
– Come individuo, non gli abbiamo dato un nome – mi rivelò il piccolo alieno, cosa per me inconcepibile, perché anche un soggetto creato in laboratorio per un esperimento aveva automaticamente un nome, consistente appunto nel codice dell'esperimento di cui faceva parte. – Se intendi la specie, i nativi del pianeta da cui proviene la chiamano... dinosauro.
Molte rivoluzioni della mia nuova casa più tardi, quando il nativo con cui ero entrato in contatto nella zona selvaggia mi chiese di dare rifugio a una abitante di Terra, pensai di recarmi a incontrarla portando con me, come forma di cortesia, una creatura che le fosse familiare.
Non avevo assolutamente considerato che alla vista di Dinosauro lei si sarebbe spaventata.

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