sabato 30 settembre 2023

Inviso

Inviso [in-vì-so] agg. Guardato con antipatia, con avversione.

Etimologia: dal latino invisus, "malvisto, odiato", participio passato di invidere, "guardare con occhio bieco, iroso", composto da in con valore avversativo e da videre, "vedere".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di cottonbro studio da Pexels


La sera a cena, dopo la prima giornata passata fuori dalla Casa della Fratellanza come apprendista di Castai, Isme era pensierosa, assente, e non toccò cibo. Dapprima ci disse che non aveva fame, ma la verità, come sempre in questi casi, era un'altra.
– La ragazzina ha il cuore troppo tenero per fare il mio mestiere – la schernì Castai, mentre si serviva abbondanti porzioni di riso e frutta essiccata. Non aveva mai fatto mistero di non volere un'apprendista.
– Oh, zitto, tu! – sbottò Isme, facendo trasalire Calico. Proprio come il gattino da cui prendeva il nome, la bambina muta tendeva a spaventarsi per i rumori forti, e soprattutto non sopportava che litigassimo tra noi. – Non hai capito niente – lo accusò Isme, e se ne andò senza mangiare.
Era calata la notte quando la raggiunsi sotto la chioma della Fondatrice, l'albero più vecchio del nostro giardino. Isme era seduta a occhi chiusi su una radice della quercia. Sospettai che stesse assaporando la brezza sulle foglie del suo Frassino, perciò non la disturbai nell'accomodarmi lì vicino, e mi persi anch'io nelle sensazioni racchiuse dalla corteccia del mio albero. Finché non udii la voce di Isme.
– Perché ci odiano così tanto? – mormorò.
Io e gli altri adulti, che avevamo spesso a che fare con la gente di città, sapevamo quanto i Fratelli degli alberi fossero invisi a molti. – Non tutti ci odiano. La famiglia di Luzian, ad esempio, ci aiuta ogni volta che può, e non sono gli unici.
Stavo aggirando la sua domanda, lo sapevo. La verità era un complesso misto di ignoranza, paura, e invidia. Ci sarebbe voluta tutta la notte per spiegarglielo, ma era necessario, se non volevo che Isme iniziasse a odiare sé stessa e la sua condizione di nascita come una di noi.
– Il lavoro di Castai ti può sembrare inutile, ma è fondamentale per insegnare alla gente che non siamo dei mostri – replicai alle sue rimostranze. – Un giorno le cose cambieranno. Non far sì che nel frattempo le loro reazioni te li rendano invisi.

giovedì 28 settembre 2023

Audioracconto - Onusto


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Foto di Porapak Apichodilok da Pexels


Il primo giorno di scuola è il più difficile... per la mamma.

Onusto: Carico, colmo, specialmente in senso figurato.


Onusto
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)


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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2018/09/onusto.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: Despite The Traffic di Wes Hutchinson dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=VjPbe1ZYgKE).

Immagini di: Porapak Apichodilok (https://www.pexels.com/photo/blue-backpack-on-brown-wooden-bench-346805/), RDNE Stock project (https://www.pexels.com/it-it/foto/scuola-studenti-corsa-eccitato-8500353/), jonas mohamadi (https://www.pexels.com/photo/sad-schoolboy-standing-in-park-among-yellow-trees-1490278/), Mikhail Nilov (https://www.pexels.com/photo/a-boy-and-a-girl-holding-hands-inside-a-classroom-8923881/), Peter Fazekas (https://www.pexels.com/photo/photo-of-person-driving-1386649/), da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 25 settembre 2023

Ritrovare sé stessi


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Foto di imustbedead da Pexels


Tirai un sospiro di sollievo quando in fondo alla strada sterrata che percorrevo già da un po' apparve la sagoma distante di un faro. Allora c'era davvero qualcosa alle coordinate che lui mi aveva dato. Meno male: quando Google Maps non mi era stato d'aiuto nello scoprire dove esattamente mi aveva invitato, a parte sapere che era un luogo sperduto sulla costa, avevo temuto che mi sarei trovato da solo nel bel mezzo del nulla, o che mi avrebbe trascinato in un magazzino abbandonato per darmi una botta in testa e rubarmi l'auto, non che valga granché la mia vecchia Yaris.
Lo ammetto: ero quasi stato sul punto di dargli buca.
Ma lui era continuamente nei miei pensieri come non era stato nessuno prima di allora, né uomo né donna, e aveva saputo cose di me che nessun altro sapeva, e la promessa che mi aveva fatto al nostro primo incontro continuava ad assillarmi.
Dovevo risolvere quel mistero una volta per tutte. Andare fino in fondo.
Questo mi ripetei una volta parcheggiata l'auto nello spiazzo antistante al faro, per darmi coraggio, perché dal finestrino lo vidi sulla soglia della porta aperta, sopra tre scalini, ad attendermi.
Indossava scarpe da ginnastica, jeans e una felpa nera, semplice, eppure addosso a lui sembravano un completo elegante. C'era qualcosa nel suo portamento, o forse nei suoi occhi neri, che mi metteva in soggezione.
Be', ero arrivato fin lì, tanto valeva che entrassi, anche perché il cielo si stava addensando di nubi grigie e il fragore delle onde contro la scogliera preannunciava il temporale imminente. Quindi presi il cellulare che mi aveva fatto da navigatore e smontai dall'auto, e fui subito investito dalla brezza salmastra, un po' troppo fresca per i miei gusti. Tirai su la zip della giacca, perché sotto avevo una t-shirt leggera dalle maniche corte, in previsione della calda giornata estiva che avrei dovuto trovare qui. Vatti a fidare del meteo.
Nel chiudere la portiera notai che non c'era una seconda auto, né una moto o una bicicletta. Com'era arrivato... possibile che lui vivesse lì?
– Vieni – mi disse soltanto, quando raggiunsi i tre scalini che conducevano all'ingresso del faro.
Nessun saluto, nessun convenevole. Anche in quello, era diverso da chiunque altro.
Attraversai la soglia e lo seguii all'interno del faro, senza sapere che quello era l'inizio della mia metamorfosi.
Anche se, in effetti, non è del tutto corretto dire che mi trasformai. Io non lo sapevo, ma ero sempre stato così. Come mi disse lui più tardi, quando misi le squame che erano la mia seconda pelle: io non stavo cambiando, stavo ritrovando me stesso. Ma non corriamo troppo.
La stanza al pian terreno era allo stesso tempo sala da pranzo, cucina e salotto. Era ammobiliata in maniera semplice, tavolo e sedie di legno, un divano retrò, tutti pezzi che si sarebbero potuti trovare in un mercatino dell'usato. In un angolo, una stufa riscaldava l'ambiente, rendendolo estremamente confortevole. Mi tolsi la giacca e la ripiegai sullo schienale di una sedia, per poi avviarmi da quella parte.
Alle mie spalle, il mio ospite si lasciò sfuggire una breve risata sommessa.
– Ho già messo a scaldare l'acqua per il tè. Ma prima, c'è molto di cui dobbiamo parlare. E io ho una promessa da mantenere.
Mi bloccai, rinunciando a raggiungere la fonte di calore. La promessa che mi aveva fatto, di spiegarmi perché sapeva così tanto su di me, di rivelarmi chi ero, e allo stesso tempo, chi era lui, era una prospettiva molto più allettante che crogiolarmi al caldo, mentre fuori soffiava il vento e le onde si abbattevano rabbiose contro gli scogli alla base del faro.
Mi sedetti al tavolo, e lui fece altrettanto. Eravamo l'uno di fronte all'altro, come al tavolino di quel bar, quando aveva indovinato tre cose di me che quasi nessuno sapeva, e poi mi aveva fatto quella promessa.
– Non so come dirtelo in modo che tu mi creda, – esordì lui, cavando di tasca un piccolo astuccio per lenti a contatto e posandolo sulla tavola. – Perciò prima togliamo quelle lenti e vediamo il colore dei tuoi veri occhi.
– Cosa? No, mai portato lenti a contatto, io.
Avevo una vista perfetta. Non avevo motivo di usarle.
Lui scosse la testa, poi ribadì, con l'incrollabile sicurezza e lo stesso sguardo profondo di quando aveva indovinato tre cose su di me che non avrebbe dovuto sapere. – Le hai da sempre, invece.
Sospirò, si alzò e aggirò il tavolo. – Facciamo così. Lasciami provare a toglierle, così vedremo chi è in errore.
Riluttante, piegai all'indietro la testa e lasciai che lui trafficasse con le dita attorno ai miei occhi per qualche istante, tenendomi aperta la palpebra prima di uno, poi dell'altro.
– Fatto – disse, e mi indicò l'astuccio. Era vuoto quando lo aveva aperto, ma ora in ogni scomparto era custodita una lente colorata, dello stesso nocciola-bruno dei miei occhi. Ma ancora non ero disposto a credergli, poteva averle tirate fuori da chissà dove con un trucco da prestigiatore.
– Lo specchio è da quella parte – mi disse lui, indicando la zona del salotto. Aveva detto di non poter leggere la mia mente, ma sembrava che lo facesse in continuazione.
Mi affrettai a raggiungere lo specchio, ansioso di sapere, di vedere. Quasi non mi riconobbi quando vidi nel mio riflesso quello sguardo estraneo, e mi prese un colpo e imprecai. Poi mi avvicinai lentamente, protendendo in avanti la testa, e spalancai di più le palpebre con le dita. Pupille verticali, da gatto o da serpente, e l'iride di una sfumatura metallica, a metà tra il bruno e il rossiccio.
Sembrava che lui mi avesse messo delle lenti colorate, invece di toglierle. Ma non avvertivo nessun corpo estraneo negli occhi, nessun fastidio.
Non deponeva a mio favore che non lo avessi sentito nemmeno prima, se era vero quello che lui affermava, che quelle lenti le avevo sempre avute.
Dopo avermi lasciato tutto il tempo di studiare i miei nuovi occhi, lui mi si affiancò, mi cinse la schiena con un braccio e posò l'altra mano sulla mia spalla che sfiorava la sua. Guardando il mio riflesso nello specchio, inclinò la testa e mormorò suadente: – Earanphies. Magnifico.
– C-cosa? – riuscii soltanto a balbettare.
Non avevo mai definito nessuno "sexy". Nessuno, prima di lui, e quella vicinanza mi provocava reazioni difficili da ignorare. Come se lo avesse capito, lui abbassò le braccia e si scostò da me, voltandosi a fronteggiarmi.
– Earanphies. Il rame dei tuoi occhi – mi spiegò lui. – Il colore varia a seconda del tuo Shanekth, così come i tuoi doni, ma di quelli parleremo dopo. I miei occhi invece sono nero Plutikarn. Una fortuna: la forma delle mie pupille nemmeno si nota, così non devo nasconderle con le lenti.
Mi sforzai di vedere se le sue pupille fossero tonde o un ovale molto stretto e verticale com'erano le mie, ma aveva ragione, era difficile scorgerle in tutto quel nero, anche se per un istante mi parve di distinguerle. – Ooook. E il motivo per cui abbiamo questi occhi è...?
– Geni alieni – ribatté lui, inespressivo.
Era serio. Totalmente e assolutamente serio.
– Per almeno un quarto, se non di più – proseguì lui, di fronte al mio silenzio incredulo.
– Cioè, vuoi dire che ho avuto una nonna o un nonno che erano... ET telefono casa? – ribattei, mimando con un dito il gesto dell'alieno del film.
Gli sarebbe stato facile prendermi in giro. Lui sapeva che venivo da una lunga sfilza di affidi e case famiglia, e che dunque non avevo la più pallida idea della mia ascendenza. Era una delle cose che aveva indovinato.
– Telefono casa? – ripeté lui, perplesso. – Vorrei tanto capire che cosa ti passa per la mente, certe volte, e questo ci porta al secondo punto, oltre che al motivo per cui ti ho chiesto di vederci qui, lontano da tutti. – Allargò una mano in un gesto verso il tavolo, e io accolsi il suo invito a sedermi, anche se di tanto in tanto tornavo a guardare lo specchio dall'altro lato della stanza.
Lui restò in silenzio mentre serviva il tè, e solo quando fummo di nuovo uno di fronte all'altro con il piacevole calore della tazza tra le dita, riprese a parlare. – L'altra volta ti ho detto che non posso leggerti la mente. È vero, ma solo perché ti sei costruito una barriera impenetrabile. È normale, quando un telepate cresce in mezzo agli umani...
– Aspetta, hai detto telepate? – lo interruppi. – Alieno, e pure telepate?
– Esatto.
Contemplai in silenzio quella seconda rivelazione, avvolto dal vapore aromatico del tè su cui ero chino. Non me n'ero accorto, ma fuori, chissà da quanto, aveva iniziato a piovere. In lontananza si udiva il brontolio cupo dei tuoni.
Lui mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno, e solo quando alzai la testa, fissandolo con quello che probabilmente era uno sguardo smarrito, riprese a parlare.
– Non te ne sei accorto perché ti sei chiuso in una fortezza. Una barriera attraverso cui nulla entra e nulla esce. Per non impazzire, hai dovuto difenderti dai pensieri della gente, e lo hai fatto in maniera molto efficace. – Lui mi rivolse un sorriso. – È così che mi sono accorto che non sei del tutto umano.
– Quelli del tutto umani non possono farsi una barriera? – gli chiesi e lo incalzai con un'altra domanda: – Tu senti tutto quello che pensano?
– Volendo, posso – rispose, scegliendo per prima di soddisfare la mia seconda curiosità. Assaporò un sorso di tè, quindi aggiunse: – Sì e no. Quelli del tutto umani possono essere istruiti su come proteggere la loro mente, ma le loro difese non saranno mai paragonabili alla tua. Tuttavia, se vuoi sviluppare il tuo potenziale da telepate, devo prima spezzare questa barriera, e poi insegnarti a difenderti dalle intrusioni in modo più flessibile.
Da come lo descriveva, non ero certo di volerlo fare. Ma c'era almeno un vantaggio a seguire quel piano. – Senza la barriera, sentirò quello che pensi tu?
– Se te lo permetterò, sì.
Trangugiai il mio tè tutto d'un fiato e mi protesi sul tavolo.
– D'accordo, facciamolo.
Volevo sapere se anche lui sentiva quello che sentivo io. Quell'assurdo desiderio di restargli accanto, più vicino, di scaldarmi al suo calore come di fronte al cuore di fuoco della stufa. Dovevo sapere se ricambiava quell'ardore che mi bruciava fin dal nostro primo sguardo scambiato da lontano, separati dalla lunga fila della comitiva in visita al canyon.
Un colpo di fulmine, mi venne in mente nell'udire lo scoppio di un tuono all'esterno. Non ci avevo mai creduto, ai colpi di fulmine. A me, almeno, non era mai capitato, nemmeno da adolescente.
Lui si limitò a fissarmi con quegli occhi scuri, profondi e seri, e non capii che lo stava già facendo. Non capii cosa stesse facendo, finché non avvertii dapprima una leggera pressione sulla fronte e sulle tempie, che si trasformò in breve tempo in un cerchio alla testa, e mentre mi massaggiavo la testa nel tentativo di scacciare l'imminente emicrania e stavo quasi per chiedergli di smetterla, il dolore cessò all'improvviso.
Non avvertii la sensazione di qualcosa che si spezza, come mi ero aspettato dalle sue parole, sentii solo la sua voce, ma le sue labbra non si muovevano.
Tutto bene? Puoi sentirmi? Sto cercando di trattenere i miei pensieri di fondo, per non disturbarti.
Rimasi a bocca aperta, incapace di parlare, mentre la mia mente correva a mille. Pensieri sconnessi come è tutto vero, sta succedendo, ma allora sono sul serio un alieno, quasi, un quarto, giusto, assurdo, no, dev'essere lui quello strano, non c'è altra spiegazione, è per forza lui l'alieno e non io...
La sua risata sommessa deviò bruscamente il corso dei miei pensieri. Cazzo, lui può sentirmi, sente quello che penso, anche adesso, tu... tu senti quello che penso?
E poi, più flebile, più vaga, palpitò un'altra idea, come un'eco: ...quello che provo?
Non sono un Earanphies, ma sì, non ne fai mistero, ribatté il suo pensiero. Tranquillo, la cosa è reciproca. Dopotutto, sei il mio fuoco gemello.
Quello che mi spiegò poi mi diede una sicurezza e una tranquillità che non avevo mai conosciuto. Alla fine non è stato scoprire di avere occhi da rettile, o squame, o una coda - sì, ho anche quella - la vera trasformazione. È stato scoprire che anche io ero in grado di amare, stavo solo aspettando lui.
Chiusi in quel faro, in una notte di tempesta, ritrovammo entrambi noi stessi in un altro.

sabato 23 settembre 2023

Propugnare

Propugnare [pro-pu-gnà-re] v.tr. (1ª pl. propugniamo) [sogg-v-arg] Sostenere qualcosa con impegno ed energia.

Etimologia: dal latino propugnare, "difendere combattendo", composto da pro, "in favore", e da pugnare, "combattere".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Andres Ayrton da Pexels


Sapevo di avere il tempo contato. Avevo visto i droni di Zondra sorvolare la città, ed era ovvio che stavano cercando me.
Ci avrei scommesso che alla fine sarebbe stata lei ad accettare la richiesta di cattura. Due rivali una contro l'altra, la sfida definitiva, era così scontato.
Questo avrei pensato se lo avessi letto in un romanzo nell'altra mia vita.
Trattenendo il falsario per il bavero, lo sbattei di nuovo al muro. Era un ometto mingherlino, e io una Bollatrice che aveva addosso qualche invenzione utile al momento della sua fuga.
– Chi ti ha ingaggiato? – ripetei con rabbia.
Il falsificatore di firme da cui il Signor Sì mi aveva mandato era quello giusto: nel suo schedario avevo trovato una mia firma autentica.
Il problema era che non si decideva a parlare. Aveva paura di chi lo aveva ingaggiato, ma io avevo il giusto strumento di persuasione.
Non feci in tempo a estrarre il timbro da Bollatore che si presentò il secondo problema.
Dalla porta entrò Zondra, seguita da Hashum il Lupo e da una mezza dozzina di Bollatori.
Ero fregata. Inutile propugnare la mia innocenza, senza prove sufficienti a revocarla la richiesta di cattura era tutto ciò che serviva per definirmi colpevole.
Hashum mi scrutò con severità, poi indicò il falsario che aveva approfittato del diversivo per rifugiarsi dietro lo schedario. – Prendetelo – disse, e due dei Bollatori scattarono ad agguantarlo.
Zondra scoppiò a ridere. – Pensavi che fossimo qui per te? Dovresti vedere la tua espressione, Pulce, come al solito non hai capito niente. Io non ho accettato il mandato di cattura. Nessuno di noi. Dopotutto, se sei chiusa in un bollo, a chi posso dimostrare di essere la migliore?
– Puoi riaccendere il tuo dannato chip colore, testablu – disse Hashum.
Non ero tipo da effusioni ma in quel momento mi precipitai ad abbracciarlo. Avevo creduto di essere da sola, in fuga, e invece tutti loro avevano propugnato la mia causa, e seguito le tracce che portavano al falsario che avrebbe potuto scagionarmi.

giovedì 21 settembre 2023

Audioracconto - Parenti al museo


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di vjapratama da Pexels


Un uccellino va a trovare tutti i parenti che stanno al museo... e qualcuno lo nota.

Parenti al museo
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)


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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2020/05/parenti-al-museo.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: A Daydream About Spring di Mark Tyne (https://soundcloud.com/marktyner)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=xCLHUCzGizA).

Immagini di: vjapratama (https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-ad-angolo-basso-del-museo-bianco-durante-l-ora-d-oro-1310110/), Kranthi Remala (https://www.pexels.com/it-it/foto/due-tacchini-neri-1078781/), Landiva Weber (https://www.pexels.com/it-it/foto/uccello-animale-gufo-fauna-selvatica-14787440/), Saleh Bakshiev (https://www.pexels.com/it-it/foto/legno-uccello-inverno-animale-15240531/), Daniil Komov (https://www.pexels.com/it-it/foto/uccello-animale-rami-fotografia-di-animali-10933925/), Moussa Idrissi (https://www.pexels.com/it-it/foto/uccelli-becchi-fotografia-di-uccelli-formato-quadrato-11629817/), Mehmet Turgut Kirkgoz (https://www.pexels.com/it-it/foto/natura-uccello-secco-giardino-5359008/), Braulio Espinoza Sánchez (https://www.pexels.com/photo/close-up-of-red-and-blue-macaws-16975490/), TheOther Kev (https://www.pexels.com/photo/black-and-white-bird-on-ground-5268432/), David Selbert (https://www.pexels.com/photo/vulture-sitting-on-tree-twig-in-nature-7455185/), Skyler Ewing (https://www.pexels.com/photo/hawk-with-spread-wings-flying-in-white-sky-4598062/), Erik Karits (https://www.pexels.com/photo/selective-focus-photo-of-brown-duck-standing-on-a-brown-rock-near-body-of-water-3757599/), Mike Kit (https://www.pexels.com/photo/swallow-on-branch-17326956/), da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 18 settembre 2023

Visualizzazioni


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Foto di Leeloo Thefirst da Pexels

La gente è strana.
Prendete questi, per esempio: passano ore e ore a lanciarsi una pallina avanti e indietro e a rincorrerla neanche fossero cani, avanti e indietro, con grandi schiocchi di plastica dal ritmo monotono sulla tavola, e quando finalmente questa tortura finisce, si arrabbiano pure. E tutti gli altri qui attorno a battere le mani come se avessero fatto chissà che cosa.
Io non li capisco.
Ma tanto non serve che li capisca, serve solo che io stia qui per tutta la durata dell'evento, che me ne stia qui a registrarlo mentre spero che loro si stanchino prima di me. Inutile sperarci, io sono già stanca. Lascio andare uno sbadiglio dopo l'altro, tanto loro non si accorgeranno nemmeno di me. Sono tutti ipnotizzati da quella pallina, dai suoi rintocchi, dal suo vagare da un lato all'altro del tavolo, e io sono solo un'osservatrice, una figura sullo sfondo. Nessuno mi vede.
Meglio così, visto che mi sono imbucata qui senza permesso e per me sarebbe difficile dover spiegare il senso e l'importanza del mio lavoro. La mia missione, almeno per quelli che non la conoscono, è segretissima.
È stato il mio capo, Teo il Rosso, a mandarmi qui proprio oggi. – Bianca Lulù – mi ha detto, – abbiamo bisogno di nuovi video, video eccezionali, qualcosa che possa diventare virale e far aumentare alla grande le visualizzazioni. La nostra migliore spia, Nerone l'Oscuro, ha fatto un'indagine sui gusti dei nostri... ahem, clienti. e sai che cosa ha scoperto? Che quei cani adorano le palline. Palline che vengono lanciate, palline che saltano avanti e indietro, palline, palline, palline. È questo che i cani vogliono, e questo noi gli daremo.
Sinceramente, penso che non servivano i sondaggi di Nerone per capirlo. Non servivano nemmeno per capire che cosa era di tendenza prima delle palline, ovvero gli ossi, o per cosa andavano matti ancora prima, ovvero i postini in fuga. I cani sono facili da capire, ma Nerone ci tiene al suo incarico e alla sua nomea di sapientone.
Tanto quella che va ovunque ad annoiarsi sono sempre io. Lulù la Bianca, la gatta dietro ai video che tengono i cani incollati allo schermo, chissà quanto agiteranno i musi avanti e indietro a seguire questa dannatissima pallina quei tonti. Sono qui già da un bel po' con la zampetta alzata a tenere il minuscolo registratore, quasi invisibile in mezzo al mio pelo, puntato sulle azioni ripetitive di questi esseri umani alle prese con una pallina, e ogni tanto per non dare nell'occhio mi lecco la zampa. Me ne sto qui al loro fianco con le orecchie all'indietro per attutire questo seccante rumore, tutti questi schiocchetti, le urla e i battimani, ma ne vale la pena. Devo dare atto a Teo, il suo piano è geniale. Diamo ai cani quello che vogliono, così la voce si diffonde e le visualizzazioni aumentano, e mentre loro sono ipnotizzati a fissare gli schermi dei loro padroni, noi gatti siamo liberi di andare dovunque vogliamo, proprio sotto il naso dei nostri nemici giurati. Abbiamo iniziato un po' in sordina con un video su una ciotola piena, non il nostro miglior video, piuttosto noiosetto perfino per lo standard dei cani a parer mio, ma c'è ancora qualche vecchio randagio che lo guarda e sbava. Video dopo video abbiamo imparato, siamo migliorati, e poi abbiamo fatto il botto col video sul guinzaglio per la passeggiata e da lì siamo cresciuti esponenzialmente, e se conosco almeno un po' i cani, questo con la pallina potrebbe essere il video che batte tutti i record. Giuro, se stavolta non raggiungo il milione di visualizzazioni, mi mangio la coda.

sabato 16 settembre 2023

Intrepido

Intrepido [in-trè-pi-do] agg. 1. Audace, ardito. 2. Con valore ironico o spregiativo, eccessivamente spavaldo, sfrontato.

Etimologia: dal latino intrèpidus, composto da in con valore negativo e da trepidus, "tremante, timido".



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Era la fine, per gli invasori. I più furbi tra loro lo capirono quando i nostri migliori cacciatori e guerrieri, insieme alle sentinelle che li avevano accompagnati, rientrarono dalla caccia e le caverne e le gallerie risuonarono delle loro urla e dei loro passi.
I più furbi tra loro, a quel punto, fuggirono.
Gli intrepidi che scelsero di non farlo e quelli che si ritrovarono circondati e senza via di fuga, tra gli invasori, furono costretti ad affrontare un nemico ben organizzato, che aveva la sua forza nel numero e nelle strategie di caccia, assai diverso dalle madri che lottavano per sopravvivere e dai deboli bambini, o dalla resistenza disperata degli anziani che fino ad allora si erano divertiti a massacrare.
Fu come vedere uno sciame di formiche attaccare uno scorpione.
Ma questo lo seppi solo dopo, dai racconti attorno al fuoco che celebrarono la vittoria.
Perché in quel momento, nella cava dell'acqua, uno dei due bruti che mi avevano sbattuto a terra era fuggito, ma l'altro sembrava intenzionato a ottenere vendetta.
Ero inerme, con i sensi sopraffatti dagli echi della battaglia e la ferita alla gamba che pulsava di dolore. Frastornato dai troppi odori, provai a trascinarmi lontano dall'invasore, ma quello mi afferrò per le caviglie. Di fronte a me, il corpo martoriato della madre che avevano ucciso non aveva armi, e la mia cerbottana giaceva spezzata.
Sachara mi aveva lasciato indietro, nel condurre i cacciatori del clan all'assalto degli invasori rimasti.
Io ero solo una sentinella ferita. Il futuro del clan erano le madri e i bambini che si erano rifugiati nel luogo sacro. Io avevo dato l'allarme, e avevo salvato tutti, tranne me stesso.
Sarei morto lì, quel giorno, se non fosse stato per l'intrepido Ahru, un giovane che aveva intrapreso la via dei cacciatori, ma non aveva ancora superato la prova. Mentre l'invasore era chinato su di me, Ahru gli saltò sulla schiena e lo trafisse al collo con due pugnali di selce.

giovedì 14 settembre 2023

Audioracconto - Insieme per caso


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Seduta da sola a un tavolino di un bar, l'ultima cosa che cercavo era compagnia. Ma il destino aveva altri piani per me.

Insieme per caso
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)


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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/04/insieme-per-caso.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musiche: Da Jazz Blues di Doug Maxwell & Media Right Productions dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=noZJDfOLPbs);
Poppers and Prosecco di Kevin MacLeod (http://incompetech.com) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=G2zff2VkjpU);
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lunedì 11 settembre 2023

Comportarsi da elfo


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Foto di Daniel Kondrashin da Pexels


Uscire di nascosto dal grattacielo che sarebbe diventato la mia prigione per tutto l'anno a venire, all'inizio, non fu così difficile. Non per me che potevo agevolmente passare per un elfo, e dato che gli elfi possedevano quel posto, e che mi avevano visto in precedenza in compagnia dei dirigenti, il mio andirivieni non era ostacolato dalla signorina dalle ali di fata che osservava tutti dalla reception, né dai due massicci troll che stazionavano giorno e notte ai lati dell'enorme porta a vetri.
Era così che avevo scoperto l'esistenza della pizzeria all'angolo, ed era così che avevo scoperto la sala bowling.
Entrambi i locali erano diversi, "evoluti" e bizzarri rispetto a quelli che avevo frequentato nel ventunesimo secolo, eppure scoprire che esistevano ancora a secoli di distanza e in un mondo quasi irriconoscibile fu un po' come scoprire un angolo di casa in una terra straniera.
Erano confortanti, e mi facevano sentire un po' meno solo, soprattutto lì a Metronas dove non potevo contare sulla compagnia di Kàli o di mio fratello Jake.
Non che amassi particolarmente il bowling. Ci avevo giocato sì e no due volte in tutta la mia vita, ma era comunque meglio di niente. Perciò, quando vidi l'insegna con i birilli e la palla da bowling, non ci pensai due volte ed entrai.
Mi accorsi subito che, sebbene fosse modellato per assomigliargli, non era legno quello che formava la pista, e sospettai che nemmeno i birilli fossero fatti di legno: salvo che nelle Riserve, il legno non veniva più usato come materiale da costruzione da almeno un secolo.
Il centro della sala, un unico grande ambiente in cui gli echi delle bocce che rotolavano, dei passi, delle chiacchiere e del fragore dei birilli caduti risuonavano amplificati come in una grotta, era dominato da un bancone quadrangolare che girava tutt'attorno a un'alta colonna. Dentro i confini del bancone, alla luce dei monitor puntati in tutte le direzioni, un paio di quelli che identificai come goblin, i parenti brutti degli elfi, si affaccendavano a soddisfare le richieste dei clienti.
Che erano molto più numerosi dal lato occupato dai divanetti e dalle spine per le connessioni corticali rispetto a quelli che effettivamente si muovevano lungo la pista. Miracoli del ventiquattresimo secolo, in cui era possibile giocare a bowling senza giocare.
Quando mi fermai di fronte al lato del bancone che dava verso la porta, il goblin che alzò gli occhi verso di me rimase a bocca spalancata, con giusto un paio di denti sporgenti che si toccavano sulla punta dal lato destro. Le orecchie a punta simili alle mie ma flosce per un istante si drizzarono prima di pendere ancora di più ai lati della testa.
Era facile da comprendere il motivo del suo stupore che quasi sconfinava nella paura. Tra i clienti del bowling non avevo visto un solo elfo, ed era assai probabile che nessuno di quegli spocchiosi affaristi fosse mai entrato dalla porta fin dall'apertura del locale. Avevano altro da fare, loro, che perdere tempo con un gioco antiquato.
Probabilmente non avrei potuto ottenere una reazione simile nemmeno se mi fossi presentato con il mio vero aspetto, e dire che di Changeling in quest'epoca, per quanto ne sapevamo, ce n'erano solo due in tutto il pianeta, mentre gli elfi erano tra le cinque o sei varianti umane più numerose, praticamente quasi ovunque ti girassi fuori dalla sala da bowling eri sicuro di vederne uno.
Prima che potesse riprendersi, rivolgermi tutta una serie di inchini e biascicare qualcosa tipo "Quale onore, signore! Cosa posso fare per lei, signore?" come avevo visto fare ad altri della sua variante umana in presenza degli elfi, il secondo goblin lo spinse da parte dicendo: – Ci penso io a questo.
Mi squadrò per un istante, mentre l'altro se ne andava mugugnando al richiamo di un troll che aveva sfondato il paio di scarpe da bowling che aveva noleggiato, poi abbatté sul bancone lo straccio logoro che aveva sulla spalla.
– E così... tu saresti il nuovo giocattolo degli elfi della torre? – mi disse, con un sorriso storto che metteva in risalto i tre denti appuntiti che gli sporgevano dalle labbra.
Mi sorprese scoprire che avesse capito che non ero davvero un elfo, e ancor di più che sapesse cos'ero.
Gli elfi avevano mantenuto il riserbo sulla mia esistenza e su quella di Jake, per proteggerci, dicevano, anche se io avevo il sospetto che lo facevano più per avere l'esclusiva sui dati che potevo fornirgli come cavia da laboratorio che per il nostro bene.
Mi appoggiai al bancone e mormorai: – Come lo sai?
Il goblin si guardò intorno, sbirciò i pochi giocatori che si avvicendavano sulla pista e poi abbassò a sua volta il tono. – Sai com'è, le voci girano, nei bassifondi del flusso neurale... – Il goblin accennò con un tamburellare di dita all'impianto che gli sporgeva a lato della testa, e che spiccava nettamente sul suo cranio pelato. Poi, di fronte alla mia espressione atterrita, scoppiò a ridere. – Sono Shoss, lavoro come domestico per i tuoi padroni, e loro non pensano mai che anche noi abbiamo orecchie altrettanto buone, anche se brutte – mi spiegò il goblin, e concluse: – Nel tempo libero do una mano a mio cugino, che altrimenti non saprebbe come mandare avanti la baracca. Tutto bene, Lansha?
L'altro goblin grugnì mentre accettava il pagamento di un gruppetto eterogeneo che si era appena svegliato da una sessione di gioco virtuale sui divanetti.
Shoss riportò la sua attenzione su di me. – Allora, sei qui per giocare...?
Dondolò il capo pelato tra la pista e i divanetti.
– Non ho un impianto per la connessione corticale, e neanche dei nanobot a collegamento wireless – rivelai, ed era vero. Per Jake erano stati necessari, e anche se non avevano funzionato per impedirgli di diventare un Changeling, gli era stato permesso di tenerli. Ma le Aberrazioni della Riserva, e soprattutto gli sciamani, avevano una spiccata avversione per la tecnologia e per gli impianti in particolare. Dicevano che disturbavano il flusso nel mana nel corpo, e così Kàli mi aveva pregato di "tenermi pulito", come diceva lei, almeno finché non avessi deciso che quella di alterare artificialmente il mio corpo era la via che volevo seguire, e lo aveva imposto come clausola nel mio contratto con gli elfi.
– Ci avrei scommesso – disse Shoss. – Ma dall'altra parte non abbiamo una IA da gioco per i solitari come te, e senza compagnia che giochi a fare? Mmmmh, sai che si fa? Mi prendo una pausa e ci penso io a spaccarti i birilli, novellino. Conto che Lansha non faccia esplodere tutto in mia assenza, solo un momento che imposto i parametri per la tua boccia e i birilli e ti trovo un paio di scarpe adatte...
Shloss trafficò per un attimo con un touch screen sotto al bancone, poi aggrottò la fronte. – Toh, c'era da aspettarselo, non ho i parametri per gli elfi. Vorrà dire che giocherai con quelli da goblin, come forza e altezza più o meno siamo lì, e per fortuna il parametro della bellezza nel bowling non conta...
Mi venne da sorridere. Ovvio che i parametri per la variante umana degli elfi non c'erano, e prima che arrivassi io, non ne avevano mai sentito la mancanza.
– E levati quel sorrisetto spocchioso di dosso, ragazzo – sbottò Shoss nel posare sul bancone un paio di scarpe bianche e nere.
Non mi guardavo spesso allo specchio, perciò ancora faticavo a capire che impressione facevo agli altri quando indossavo un aspetto diverso da quello umano, ma sapevo perfettamente che impressione facevano gli elfi a me. – La mia faccia sembra sempre voler prendere in giro gli altri così, vero? – chiesi al goblin. – Scusa. Non era mia intenzione.
– Ohooo, troppa umiltà adesso – esclamò il goblin in tono allegro. –  Ti conviene aggiustare il tiro, o si capirà a distanza di satellite che non sei uno di loro.
Decisi allora che Shoss mi piaceva. Era un sollievo avere un amico in quella grande città, o almeno qualcuno che avrebbe potuto diventarlo, anche se mi stava stracciando a bowling. Dopo un primo tiro fortunato, che mi aveva indotto a esultare senza ritegno come mai un elfo avrebbe fatto, non ero più riuscito a fare strike, mentre Shoss buttava giù tutti i birilli quasi ogni volta. E io imprecavo e lo accusavo di barare, di non aver impostato correttamente la densità della mia boccia e dei birilli, che avevo scoperto essere controllati da un programma nel computer del bancone, per dar modo alle Aberrazioni più fragili di giocare ad armi pari contro bestioni come troll, orchi e compagnia bella. C'era molta più tecnologia in questo bowling moderno, ma nelle sue parti essenziali, il gioco non era cambiato poi molto. Non ero riuscito a vincere nel mio tempo, anche se una volta avevo perso di pochi punti soltanto, e non avrei vinto nemmeno nel ventiquattresimo secolo, con il goblin ampliamente in vantaggio a tre quarti del gioco, se avessi finito la partita.
Ovvero, se dalla porta non fossero entrati una coppia di troll seguiti dall'unico altro elfo che si fosse mai visto da quelle parti. Li conoscevo, e sapevo che erano venuti a prendermi. Quello che non avevo previsto era che il trio volesse, assieme a me, anche Shoss.
– Lansha, bada tu alla baracca! – urlò Shoss, pungolato dai troll che ci spintonavano. Ma Lansha era sparito sotto al bancone, o forse era svenuto. Troppi elfi in una sola giornata per il suo fragile cuore.

Nei piani alti del grattacielo degli elfi, Shoss e io aspettammo quasi un'ora fuori dalla porta di un ufficio dirigenziale. Da soli, salvo la presenza inquietante, immobile come una statua, di uno dei due troll a guardia dell'ascensore in fondo al corridoio. Era l'unica via di fuga: impensabile tentare di scappare dalla rampa di scale d'emergenza. I piani erano troppi da lassù per affrontare la lunga discesa, se non era questione di vita o di morte.
Restammo in silenzio per tutto il tempo di quell'attesa, nel timore che la nostra conversazione potesse essere registrata e usata contro di noi, finché dalla porta non uscì un segretario di cui mi fu impossibile identificare la variante umana, tanto il suo aspetto era alterato da impianti cibernetici di ogni tipo. Io non sapevo ancora che volevo fare della mia vita in questo secolo, una volta trascorso l'anno che avevo venduto agli elfi, ma di certo non volevo diventare come lui.
– La Suprema Signoria vi attende – disse il segretario, e se ne andò con il suo sferragliare e cigolare da cyborg, e tra le dita meccaniche uno di quei fogli multidocumento che ormai conoscevo bene per averne letto e firmato parecchie facciate che apparivano tutte, a turno, sullo stesso rettangolo di carta elettronica.
Entrammo. Anche se il segretario aveva detto che ci attendeva, la bambola di porcellana dai capelli biondi e le orecchie a punta che sedeva dietro la scrivania nel suo elegante completo all'ultima moda, nientemeno che la matriarca del clan di elfi che deteneva il mio contratto, sembrava totalmente assorta in altre faccende, e per cinque minuti buoni o forse più non ci degnò di uno sguardo. Poi, mentre terminava di controllare i dati su un olovideo che a noi appariva totalmente grigio, prima che uno di noi due trovasse il coraggio di schiarirsi la voce per annunciarle che eravamo lì, l'elfa comandò, sempre senza alzare gli occhi: – Goblin, chiudi la porta.
Shoss si affrettò a ubbidire.
L'elfa si alzò con movenze aggraziate e con il suo portamento elegante, fiero, mosse qualche passo verso la vetrata che offriva una magnifica vista panoramica sulla città di Metronas. Squadrò il goblin, quindi in tono sprezzante disse: – Tu. Lavori per la famiglia di mio figlio, vero? Dovrò ricordargli di controllare meglio i suoi domestici. Puoi andare.
Shoss le rivolse un inchino, e poi da qualche parte racimolò il coraggio per ribattere: – Se non dispiace a sua signoria, io resterei.
Le dispiaceva, eccome. Gli elfi non hanno rughe nella loro pelle perfetta, mai, nemmeno da vecchi, eppure avrei giurato che tutta la fronte candida sopra i suoi begli occhi torvi e alteri si stava tendendo nel tentativo di crearne una.
– Non c'è motivo di punirlo, Shoss non ha fatto niente – intervenni in suo favore, prima che la situazione degenerasse e lei decidesse di fare qualcosa come lanciarlo fuori dalla vetrata. Kàli mi aveva raccontato certe storie per mettermi in guardia dagli elfi, e anche se sospettavo che fossero esagerate, era meglio andare sul sicuro. – Sono io quello che se n'e andato a perdere tempo invece di restare a disposizione ventiquattrore al giorno per i vostri preziosi esperimenti.
D'altra parte, la matrona degli elfi non avrebbe mai lanciato fuori dalla vetrata me, la sua preziosa acquisizione. Non poteva sperare di ottenere un contratto simile con Jake, nel caso in cui per qualche motivo io non fossi più stato disponibile.
– Shoss? – chiese lei.
Non sapeva il suo nome. C'era da aspettarselo. Probabilmente non sapeva nemmeno il mio, e per lei ero soltanto "il Changeling", come Shoss era "il goblin".
– Tu, sì. Parliamo di te. – L'elfa mi fissò, regale e bellissima. Era inespressiva e perfetta come una statua di marmo, e mi faceva ancora un certo effetto guardarla, io che non ero abituato da tutta la vita ad avere a che fare con le varianti umane di questo secolo. Alle volte la mia mente mi ingannava e mi diceva che doveva essere un trucco, un effetto speciale, e che non poteva essere vero.
Poi mi ricordavo che anch'io ero come loro. Diverso, ma come loro.
– Hai la minima idea di tutti gli sforzi che stiamo facendo per tenerti al sicuro, di quanto ci stiamo impegnando per mantenere segreta l'esistenza di un Changeling, due Changeling viventi, e di come le tue belle scampagnate stiano vanificando ogni nostro tentativo di proteggerti? – mi accusò l'elfa, ignorando ormai del tutto la presenza del goblin ancora nel suo ufficio. Non pensai nemmeno per un istante di ricordarle che Shoss era ancora lì ad ascoltare, anche se era la chiara dimostrazione che tutti questi sforzi non li stavano facendo. – Vuoi che una masnada di criminali rapisca tuo fratello di nuovo, o peggio, che vada nel passato a prelevare un altro dei tuoi parenti da trasformare nel suo Changeling personale per fare il mana solo sa cosa?
Se il suo volto era perfetto e inespressivo, la sua voce invece no, e mi colpì con tutta la forza di quelle parole. 
No, non volevo. Non volevo mettere in pericolo Jake più di quanto avessi già fatto con la mia presenza in quell'epoca, né la mamma, o papà, o mia sorella.
– Allora le cose dovranno cambiare – mormorò l'elfa, prendendo il mio silenzio per una resa e un'ammissione di colpa. – D'ora in poi non uscirai se non accompagnato da una delle nostre guardie, e solo se strettamente necessario. Non temere, gli incontri periodici con la tua acquatica della Riserva come da contratto non ti verranno negati, ma avverranno esclusivamente in luoghi sicuri selezionati da noi, e nel momento più conveniente per farli. Hai un appartamento intero tutto per te qui da noi, un bell'appartamento, e se ti manca qualcosa, non hai che da chiedere. Che bisogno c'è di uscire in una città pericolosa come Metronas, i cui vicoli brulicano di Aberrazioni oscure e pericolose pronte a tagliare la gola di qualcuno ancora troppo ignorante come te per rubarti il poco che possiedi, per aver ficcato il naso nei loro affari, o anche solo per averli guardati male, quando tutto ciò che desideri ti può essere portato qui, dove sei mantenuto in salute e al sicuro?
Stringere la loro morsa su di me. Ecco quello che gli elfi volevano.
Probabilmente sapevano fin dall'inizio del mio andare e venire dal grattacielo, e avevano lasciato che lo facessi, sperando che mi mettessi in una situazione pericolosa dalla quale sarebbero potuti intervenire "a salvarmi". Non era successo, ma al bowling avevo attirato l'attenzione quanto bastava per indurli a far scattare la trappola.
Lo facevano per il mio bene, e non avevo argomenti per confutare quell'affermazione, con un precedente come il rapimento di Jake.
– Capisco – dissi soltanto, di malavoglia. Dovevo resistere un anno, un anno soltanto in compagnia di quelle creature infide e meschine, e poi sarei tornato di corsa alla Riserva. – Se è tutto, posso andare?
– Una cosa soltanto – aggiunse la matrona degli elfi, prima di congedarci definitivamente, me e l'ormai del tutto ignorato Shoss, che da come se ne stava incurvato e con le orecchie a punta più afflosciate del solito, doveva essere parecchio imbarazzato da quella ramanzina, o dalla parte che aveva avuto inconsapevolmente in tutti i problemi che un'innocente partita a bowling mi stava causando. La matrona fece un passo in avanti, lo sguardo severo che mi giudicava, inchiodandomi sul posto. – Che tu sia un pessimo esempio del nostro nobile lignaggio entro i confini della nostra dimora non conta, perché tanto qui tutti sanno che cosa sei davvero, Changeling. Ma quando metti un piede fuori di qui, se non sei in grado di comportarti come un membro civilizzato della società, tanto vale che indossi la pelle di un orco.

sabato 9 settembre 2023

Dicotomia

Dicotomia [di-co-to-mì-a] s.f. 1. Suddivisione di un concetto in due categorie distinte e opposte. 2. estens. Radicale divisione, separazione tra due entità, posizioni, punti di vista. 3. bot. Tipo di ramificazione caratterizzato dalla divisione dell'apice in due apici, ciascuno dei quali può, a sua volta, bipartirsi. 4. astr. Primo e ultimo quarto del ciclo lunare.

Etimologia: dal greco dichotomia, "divisione in due parti", composto da dicha, "in due parti", e da témno, "tagliare".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Mikhail Nilov da Pexels


Fu la cosa più difficile al mondo, lasciarle. Ma sapevo che cosa sarebbe accaduto se avessi infranto la promessa fatta a mio padre.
La dicotomia tra andare e restare non poteva essere risolta che in quel modo.
Non servivano tutte le donne di Tana del Diavolo per aprire il portale, ma il giorno dell'equinozio d'autunno erano tutte lì per salutarmi. Compresa Evangeline, che non praticava la magia, ma ormai sapeva tutto di noi.
Mia madre mi strinse in un lungo abbraccio. Era stanca, quasi senza voce per l'incantesimo, ma non avrebbe ceduto ad altri il compito di "accompagnarmi al di là".
Zia Alice, che stranamente stavolta non aveva voluto prendere parte alla magia, mi accarezzò sulla testa e mi disse: – Ricordati che i gatti hanno sette vite. E che atterrano sempre in piedi. E soprattutto, sta lontano dall'acqua!
Non mi guardò negli occhi finché non fece un passo indietro e mormorò: – Grazie.
Il che mi diede il sospetto che lei sapesse, o avesse almeno intuito, il pericolo che stavano correndo.
Evangeline mi salutò con un bacio appassionato, disperato, che per un istante incrinò la mia corazza di inespressività e mutò i tratti del mio volto, il colore dei capelli e dei miei occhi dietro le palpebre chiuse. L'odore della sua pelle rinfrescò in me il ricordo della nostra prima e ultima notte. Lo chiusi in un angolo della mente e ne feci la mia ancora prima di andare.
Oltre il portale mi accolse il mondo mutevole e sconvolgente di mio padre.
Scenari di guerra, vecchi e nuovi, si alternavano a paesaggi desolati di solfatare e deserti di sale a ogni mio passo, ma fu nella solitudine notturna di un cimitero che lui finalmente si palesò a me. Così veloce che nemmeno lo vidi finché non mi fu di fronte, ali di pipistrello spalancate e lunghe corna sulla testa.
Avvertii un lancinante dolore al fianco. Strinsi i denti e guardai giù: i suoi artigli erano nella mia carne.
Ero preparato a cose ben peggiori da parte sua, perciò riuscii a trattenermi dallo scatenare il potere che avevo ereditato da lui, e a mostrargli un volto immutato.
Il suo invece divenne una testa leonina, e le sue ali si ricoprirono di penne nere, quando ruggì: – Tu sei limitato!
Quella fu la sua prima lezione. Mentre mi torturava in ogni modo possibile, mi rivelò che la vera dicotomia non era quella favola che mi avevano insegnato del bene e del male, bensì quella tra chi limitava se stesso in base ad assurde regole, e chi era davvero pienamente libero.
Questa era la filosofia dei Caduti.

giovedì 7 settembre 2023

Audioracconto - Oro trasparente


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Foto di Filipe Delgado da Pexels


Recarsi al pozzo, nel mondo del dopo, può essere letale.

Oro trasparente
(racconto breve di genere fantascienza distopica)

Trovi gli altri racconti sul canale YouTube: https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma

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Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/).
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2020/03/oro-trasparente.html

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Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria).

Musica: In The Desert di Savfk (https://soundcloud.com/savfk)
dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=R6Hts_DMyV0).

Immagini di: Filipe Delgado (https://www.pexels.com/photo/worms-eyeview-of-well-1601495/), Frans van Heerden (https://www.pexels.com/photo/well-outside-house-1661306/), Jonathan Borba (https://www.pexels.com/photo/textured-background-of-sandy-shore-with-ribbed-surface-6302435/), UMUT DAĞLI (https://www.pexels.com/photo/silhouettes-of-group-of-people-during-sunset-18099052/), cottonbro studio (https://www.pexels.com/photo/a-woman-in-orange-blazer-and-pants-sitting-on-the-rock-9834555/) e (https://www.pexels.com/photo/man-in-brown-coat-standing-on-rock-under-blue-sky-5119198/), Mehmet Turgut Kirkgoz (https://www.pexels.com/photo/portrait-of-elderly-woman-in-red-headscarf-11512296/), Edward Jenner (https://www.pexels.com/photo/glass-blur-bubble-health-4033022/), Anderson Rangel (https://www.pexels.com/photo/footprints-on-a-desert-17699572/) da Pexels, distribuite ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

lunedì 4 settembre 2023

Mezzanotte alla Città dei Felici


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Foto di Sam Fire da Pexels


Hilo era un po' dispiaciuto per Maarit. Ovunque andassero, la sorella aveva qualcosa da ridire.
– È falso, e non è nemmeno divertente – diceva delle scenette spassosissime che lo avevano lasciato col mal di pancia da quanto aveva riso.
– Ha un sapore strano, e tu non ti sei mai chiesto da dove viene? – diceva del cibo che avevano ricevuto in dono in abbondanza, senza bisogno di scambiarlo con qualcos'altro e senza la fatica di doverlo cercare tra le rovine delle vecchie città.
– Ti rendi conto che non assomigliano a un vero cavallo? E mi vuoi dire che senso ha, se girano solo in tondo? – diceva delle graziose statue equine da cavalcare in quella che chiamavano "la giostra del felice girotondo". – Non vanno da nessuna parte. E c'è troppo fracasso qui, io mi sono stufata, non è possibile che vuoi farci ancora un altro giro!
L'unica volta che Hilo aveva concordato con lei era quando, nell'osservare la gente che faceva la fila per salire sulle rotaie senza meta e poi una volta sopra urlava, Maarit aveva esclamato: – Quelli sono matti! Io lì non ci vado neanche in un milione di anni, è spaventoso, altro che divertente! Ci credo che gridano...
Ma per la maggior parte del tempo Hilo, al contrario di lei, si sentiva felice, e al sicuro, e gli dispiaceva che Maarit non riuscisse a sentirsi nella stessa maniera. Era la stessa sensazione che provava quando stavano con Josef, e l'uomo era solito raccontare loro di sera, prima di addormentarsi, le storie del mondo di prima. La stessa identica sensazione, con in più un pizzico di agitazione gioiosa quando i cavalli della giostra prendevano un po' di velocità e cominciavano a oscillare su e giù, o di sorpresa quando la musichetta in sottofondo cambiava ritmo, o di piacere quando al termine di una delle divertenti storie mimate a cui aveva assistito nel pomeriggio i cattivi venivano puniti e i buoni finivano sempre con l'ottenere quello che volevano.
Era un po' come vivere in un sogno, uno di quelli che Hilo faceva raramente.
Gli incubi erano molto più numerosi.
Hilo avrebbe tanto voluto essere in grado di spiegare a Maarit come si sentiva. Ci aveva provato, ma la sorella non voleva sentire ragioni. Era più piccolo di lei, sì, ma non per questo poteva essere definito più ingenuo, almeno secondo il suo parere. Aveva visto la stessa quantità di gente cattiva, gente come mamma Karol, e come lo sconosciuto che li aveva trovati nel capanno nel bosco, e quindi Hilo era in grado di riconoscerli, e sapeva per certo che gli adulti che abitavano in quel posto non erano cattivi. Ma capiva anche che Maarit aveva passato così tanto tempo a proteggerlo da persone come loro, che proprio non riusciva a smettere di farlo. Anche in un posto come quello dove non ce n'era proprio bisogno.
Maarit aveva dovuto tirarlo giù di peso dal cavallino semovente quando Hilo era stato troppo stanco per tenere gli occhi aperti, e insieme erano andati in una delle stanze del riposo che il Custode aveva indicato loro. Non c'era una porta da chiudere, la stanza era troppo grande, e c'erano già altre persone che dormivano lì, aveva brontolato Maarit, e quelle preoccupazioni erano le stesse che avrebbero tenuto sveglio Hilo, in altri luoghi. Ma lì, nella Città dei Felici, Hilo riuscì a dormire profondamente in compagnia di estranei come non ricordava di aver mai fatto in tutta la sua vita.

Quando si svegliò fuori era ancora buio, e Maarit non c'era. Hilo non si era mai svegliato senza sua sorella accanto, perciò notò subito la sua assenza.
All'inizio Hilo pensò che si fosse allontanata per fare la pipì e che al ritorno si fosse infilata nel letto sbagliato, perciò la chiamò un paio di volte, e la cercò alla luce colorata e intermittente che filtrava dalle finestre, ma la sorella non gli rispose e lui non la vide da nessuna parte. Hilo cominciò ad agitarsi.
– Maa? Maa, dove sei, torna qui! – piagnucolò Hilo, trasalendo a ogni urlo che veniva da fuori assieme allo sferragliare dei vagoni sulle rotaie senza meta. Una risata isterica, prolungata e inquietante che sembrava venire da appena oltre la tenda tesa davanti all'ingresso al posto di una solida porta lo fece tremare da capo a piedi. – Non voglio restare da solo, per favore... – bisbigliò ancora Hilo.
Come in risposta alla sua richiesta, un'ombra nella stanza si mosse, ma non era Maarit, era più grande.
Hilo si tirò indietro quando la donna si sedette sul suo letto, e lottò contro le lacrime che sentiva premere da dietro agli occhi.
– Devi sorridere, ragazzino – gli disse la donna. – I bravi bambini ridono. Ridono e si divertono, come... ecco, prendi esempio – concluse la donna, girandosi verso l'ingresso e il suono di quella risata così lunga, così uguale, così sbagliata.
Hilo non riuscì più a trattenersi e scoppiò a piangere. – Io non mi sto divertendo, dov'è mia sorella, voglio mia sorella...
La donna in un primo momento cercò di consolarlo ripetendogli in tono dolce di non piangere, che andava tutto bene, che Maarit era andata via un momento per parlare con il Custode ma che sarebbe tornata presto, e che era stata proprio lei a chiederle di badare al suo fratellino. L'argine però ormai era rotto, e Hilo non avrebbe più potuto trattenere il pianto nemmeno se lo avesse voluto, e lo voleva quando la donna aveva iniziato a parlargli di Maarit. Ma era tutto inutile.
Il tono della donna a un certo punto cambiò bruscamente. Da dolce che era si fece stizzito, quasi crudele, mentre la donna sbottava: – Non piangere o ti porteranno via stupido bambino!
Quella singola frase attirò l'attenzione di Hilo su di lei e gli fece per la prima volta, come si suol dire, drizzare le orecchie.
Hilo aveva smesso del tutto di piangere, così, di colpo, come se il pozzo delle lacrime si fosse prosciugato. Aveva imparato molti anni prima a non piangere, a mettersi addosso un sorriso forzato, quando lui e Maarit stavano con mamma Karol, perché a lei non piacevano i bambini lamentosi. Gli ci era voluto molto tempo per imparare a piangere di nuovo, ma quando si trovava davanti a qualcuno come mamma Karol, e come quella donna, Hilo ormai sapeva come comportarsi.
– Ah... sì? Chi è che mi porta via? Dove? – le chiese Hilo, come se fosse semplicemente curioso. Un ingenuo bambino curioso, era così che lasciava che lo vedessero le persone cattive, e loro lo sottovalutavano sempre, anche perché tutta la fame che aveva patito lo faceva sembrare più giovane della sua età. A volte, Hilo pensava di essere talmente bravo che anche Maarit lo sottovalutava.
– Nessuno, stavo solo scherzando – gli disse la donna, nel tornare al tono di voce melenso con cui l'aveva apostrofato all'inizio.
Hilo sapeva riconoscere una bugia. Ed era abbastanza sveglio da collegare la scomparsa di Maarit con quella nuova, inaspettata rivelazione.
Tutti avevano visto come Maarit si era comportata per tutto il giorno, tutti l'avevano sentita lamentarsi in continuazione. Chiunque portasse via i bambini che piangevano, doveva certamente averla udita.
E quella donna sapeva qualcosa.
Hilo si asciugò le lacrime dal viso e le rivolse il più bel finto sorriso che avesse a disposizione. – Allora Maa è con il Custode... andiamo da lei?
– Certo, andiamo da lei – gli disse la donna, tendendogli la mano come se fosse un bambino piccolo.
Hilo non pensava che la donna volesse davvero portarlo da Maarit, ma pensò che se restava con lei e fingeva di crederle, forse avrebbe potuto scoprire quello che la donna nascondeva. Stava per darle la mano e alzarsi dal letto, quando accadde.
Una forte esplosione e un lampo fuori dalla finestra. Come un fulmine, ma più breve, e più vicino.
Alcuni degli adulti addormentati brontolarono e si rigirarono nel letto, e un'altra parte meno numerosa scattò in piedi e corse fuori.
Altre esplosioni si susseguirono in rapida sequenza, altri lampi colorati scintillarono oltre il vetro.
Hilo aveva già sentito un suono così. Era stato durante un attacco dei banditi che avevano depredato la città dove Lanyo, che non era durata abbastanza per poterla chiamare mamma, li aveva portati quando li aveva trovati a vagare da soli dopo la scomparsa di Josef.
Almeno qualcosa di buono Lanyo l'aveva fatta: li aveva nascosti, e così i banditi non li avevano trovati.
Come allora, Hilo si tappò le orecchie e si rattrappì contro lo schienale del letto, facendosi piccolo. Non aveva voluto darle retta, ma ora Hilo capiva perché Maarit si fosse lamentata che la Città dei Felici non aveva mura a proteggerla. La città di Lanyo le aveva, eppure era stata invasa e saccheggiata lo stesso, e i suoi abitanti uccisi o portati chissà dove.
Le mura non erano una garanzia, ma non costruirle proprio era da stupidi.
A differenza di allora, la donna che era con lui non corse fuori a difendere la sua casa armata solo di un rudimentale arco contro le armi di tuono dei banditi, bensì scoppiò a ridere.
– Sciocco bambino, sono solo le stelle scintillanti! – gli disse la donna, con una traccia di vero divertimento nella voce. Il resto del suo tono era falso, condiscendente. – È Media Notte, la festa delle luci nel cielo, succede ogni notte qui alla Città dei Felici. È un altro dei nostri divertimenti, ma devi vederlo con i tuoi occhi, solo così capirai.
La donna gli tese di nuovo la mano, e stavolta Hilo la afferrò e si lasciò condurre fuori dalla stanza del riposo. All'esterno, tutti stavano in piedi o seduti con il viso rivolto al cielo, a fissare inebetiti lo spettacolo di stelle multicolori che esplodevano in scoppi di tuono o in fastidiosi sfrigolii e piovevano verso terra lasciandosi dietro una scia. Di tanto in tanto, qualcuno si lasciava sfuggire un mormorio di stupore o ammirazione, o un applauso.
Hilo li capiva. I fiori di fuoco tracciati in cielo dalle stelle lo riempirono di meraviglia, eppure non era più come prima. Le esplosioni che li accompagnavano, e lo stesso odore che si diffondeva nell'aria sempre più acre e pesante, così simili al rumore e al lezzo prodotti dalle armi dei banditi, lo inquietavano, e non facevano altro che ricordargli che qualcuno aveva portato via sua sorella, e che trovarla, salvarla, da adesso toccava a lui.

sabato 2 settembre 2023

Corrivo

Corrivo [cor-rì-vo] agg. 1. Superficiale, facilone per disattenzione o per mancanza di riflessione; avventato. 2. Che ha un atteggiamento di inerzia o di eccessiva tolleranza di fronte alle cose; condiscendente.

Etimologia: secondo alcuni deriverebbe dal greco korribos, "stolto", ma più probabilmente proviene dal latino currere, "correre", da solo o incrociato con corrivare, "incanalare".



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Ketut Subiyanto da Pexels


Ero un po' nervosa da quando Marta mi aveva preso da parte al mercatino e mi aveva annunciato di voler parlare con me, a casa mia tra tutti i posti. Marta ci era stata una sola volta, a casa mia. Avremmo dovuto studiare in quell'occasione, ma avevamo finito con l'andare in soffitta e, diciamocela tutta, quella era stata una pessima idea. L'avevo portata lassù solo perché Marta era stata in grado di vedere la porta, e i segnali erano buoni, ma mentre eravamo là era accaduta una cosa spaventosa, qualcosa di cui non avevo mai sentito parlare nelle storie che si raccontavano in famiglia.
Portare lassù un'estranea, ora me ne rendevo conto, era stata un'imperdonabile leggerezza, dettata da un impulso corrivo che avrebbe potuto costarci caro. Non avevo parlato a nessuno della nostra disavventura, e sembrava che anche Marta avesse mantenuto il silenzio.
Meglio così. Mio padre, se lo avesse saputo, non sarebbe stato affatto corrivo con me.
Immaginai fin da subito di cosa Marta mi voleva parlare quel giovedì. Era ovvio: la soffitta. Così, per la mezza settimana che mi separava da quella chiacchierata, mi ero preparata a spiegarle tutti i motivi per cui non era consigliabile ripetere l'esperienza. Ma quando me la ritrovai per la seconda volta in camera, Marta mi sorprese tirando fuori dallo zainetto la scatola di un puzzle. La riconobbi prima ancora che lei la girasse per mostrarmi il suo nome scritto a pennarello.
– Riprenditelo. Non è divertente – bofonchiò lei, tendendomi la scatola. – E non venire più a casa mia a farmi questi scherzi!
Non mi avrebbe creduto se le avessi detto che era stata la soffitta a restituirle il gioco perso anni prima. Facevo fatica a crederci persino io, perché sì, la soffitta era la fonte della magia della mia famiglia, e accadevano cose strane lassù e a volte anche in tutta la casa, ma una cosa del genere non era mai capitata.
Sembrava quasi che la soffitta, con Marta, avesse voluto essere... gentile. E quella sì, era una cosa di cui avere paura.