sabato 30 aprile 2022

Morigerato

Morigerato [mo-ri-ge-rà-to] agg. Rispettoso della morale e del buon costume; che non è smodato nel desiderare, nel volere qualcosa; parco.

Etimologia: dal latino morigeratus, participio passato di di morigerari, "essere docile, compiacere", composti da moris, "costume, abito", e gerere, "portare, governare".



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Sara spezzò il pane ancora tiepido e me lo offrì.
– Assaggia – mi disse, con un lieve sorriso. – Non lo hai mai mangiato appena sfornato.
La sua non era una domanda. Lei lo sapeva.
Mentre sbocconcellavo la mollica calda e fragrante, con un profumo che non avevo mai sentito provenire da una pagnotta prima d'ora, sbirciai il suo abito semplice, cucito a mano, un po' retrò. Quando andavo da Sara, mi sembrava sempre di tornare indietro di almeno un secolo. Lei non possedeva un cellulare o un computer, e non desiderava i bei vestiti che portavano le altre ragazze, le creme o i trucchi con cui si impiastricciavano la faccia. Lei era come la pagnotta che mi aveva offerto: semplice, genuina.
Ma era anche terribilmente complicata, ed era complicato avere a che fare con lei, guardare i suoi occhi, due pozzi profondi e oscuri che parevano contenere tutto il tempo del mondo.
– Non sono sempre stata così morigerata, è naturale. – Sara si alzò, mi diede la schiena, e andò ad affaccendarsi attorno alle fiscelle del formaggio sul ripiano della cucina. – Sapere per certo che l'alba del tuo ultimo giorno non sorgerà mai può condurre a indulgere negli eccessi più sfrenati...
Sara tacque. Io cercai di immaginare quello che intendeva, ma non ci riuscii. Lei si voltò, e io chinai la testa per evitare di incrociare il suo sguardo antico. – Ho scoperto con il tempo che non ho bisogno di nulla che le mie mani non possano creare. Questo, almeno, per esistere. Mentre per andare avanti...
Sara si voltò verso la finestra. Chissà che stava guardando. Non c'era niente là fuori, solo gli alberi del bosco, eppure Sara disse: – I tuoi amici attendono.
Di malavoglia mi alzai e mi portai via il pezzo di pane. Mentre me ne andavo, mi chiesi se io ce l'avrei fatta a vivere una vita così spoglia, umile e morigerata.
Probabilmente no.
Anzi, sicuramente no.

giovedì 28 aprile 2022

Un mondo in frantumi


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Frammenti di corallo e conchiglie giacciono sul pavimento della grotta, rischiarati a malapena dai raggi del sole che filtra al di sopra delle onde, dall'ingresso semiallagato alle mie spalle. Tento di ricomporli, ma invano. Sembra sempre che manchi un pezzo, eppure io sono certa di averli raccolti tutti. È come se una parte del mio mondo fosse all'improvviso svanita.
È tutto inutile, in ogni caso. Per quanto sforzi la mia bella voce a pronunciare parole di guarigione come "risanati", "riparati", o "aggiustati", ciò che dico non accade più all'istante come avveniva un tempo. La distruzione che una parola incauta ha portato nel mio mondo deve aver toccato anche me. Ho forse perso il mio potere?
No, non posso credere che mia voce di sirena che plasmava la realtà con il suo canto, che ha creato il mare dove nuoto libera e le isole con le loro incantevoli grotte e le spiagge e i pesci e le alghe e gli alberi e gli uccelli e il cielo e il sole e qualunque altra cosa il mio cuore reputasse degna di esistere... non posso credere che sia perduta per sempre. Al solo pensiero avrei versato lacrime, se mi fosse stato possibile. Ma qui, nel mio mondo, non ho mai pronunciato la parola "pianto".
Le onde lambiscono i confini tra la superficie asciutta della grotta e la pozza profonda in cui sono immersa. Appoggio un braccio e il viso di lato sulla roccia e mentre scruto le conchiglie e i coralli rotti, chiedendomi cosa posso fare per evitare che la distruzione si propaghi, lascio che la mia coda di argentee squame ondeggi al ritmo della risacca, e che lente gocce di stalattite mi piovano sui capelli bagnati.
Sospiro, è tutto ciò che posso fare per esprimere un sentimento a cui non ho mai dato un nome.
E poi lo sento. Il colpevole di tutto questo è qua, è riuscito a trovarmi perfino nella più recondita e segreta delle mie magiche isole.
Piedi nudi, veste bianca, una pietra blu sulla cintura, più blu del mare. Zaffiro, pietra da maghi.
Colui che mi ha indotto con l'inganno a pronunciare una parola proibita.
Se ne sta appollaiato su una stretta striscia di pietra rasente alla parete della grotta. Così, accosciato, mi tende un braccio, e nella mano un frammento bianco, un altro pezzo del mio mondo in frantumi.
Alzo di scatto la testa e mi allontano da lui con un guizzo della coda.
– Cocco – pronuncia lui, Shinji il distruttore. – Scommetto che non lo hai mai assaggiato.
Non mi fido, e gli resto lontana. Non mi fido nemmeno di me stessa, perciò non dico nulla. Se la mia voce ha ancora un po' dell'antico potere, non devo cadere nei suoi tranelli.
Lui fa spallucce, e si ficca in bocca il frammento bianco, e mastica. Ne ha ancora nell'altra mano. – Vedi, non è velenoso. Ma questo già lo sai, non hai mai detto "veleno" da quando sei qui, vero?
Shinji si siede sul bordo della roccia e tuffa i piedi nell'acqua. – E va bene, niente scommesse. Io vincerei. – Sogghigna, quel demonio travestito da essere umano, mentre ancora stacca e assapora frammenti del frutto bianco. – So per certo che non lo hai mai assaggiato: non puoi mangiare il cocco se prima non lo rompi.
Potrei andarmene, nuotare lontano, smettere di ascoltarlo. Eppure non lo faccio. I ruoli sono ribaltati, è lui la sirena dalla voce melliflua che incanta me.
– Tu dai la colpa a me di quello che è accaduto. Ma io non ho potere qui, questo è il tuo mondo. Il tuo piccolo giocattolo perfetto, la tua prigione.
Distolgo gli occhi e stringo le labbra. Non devo parlare. Non devo parlare.
Ma così sono muta. Così, la mia voce è davvero perduta.
E io ho creato questo mondo per avere una voce.
Shinji mi tende le mani colme di frammenti bianchi. – No? – chiede, nell'offrirmi ancora quel frutto sconosciuto. Lui ha ragione, non ho mai visto com'è fatto dentro. – Non saprai mai che cos'altro ti perdi, finché rimani qui. Hai voluto un luogo dove nulla di brutto può accadere. E ti ci sei rinchiusa. Ma non sei libera, non lo sarai finché non permetterai a te stessa di dire tutto ciò che senti.
Shinji attende con le braccia tese, e io avverto che sto per cedere, che le mie labbra si schiudono. È convincente, così com'era stato sulla spiaggia, al nostro primo incontro.
– Rompi il tuo guscio, Gaea – mi sprona lui, indovinando di essere prossimo alla vittoria. – Liberati da questa illusione.

lunedì 25 aprile 2022

Solo un riflesso in uno stagno


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Il mondo umano non è che un riflesso di Mith. Lo so, perché ciò che accade qui influenza quella terra per me inaccessibile, se non per mezzo delle visioni che posso evocare sulla superficie della mia prigione.
Uno specchio. Ironia crudele per colui che ha commesso l'errore di amare il suo riflesso.
Nella terra degli uomini, lì dove lei è trattenuta da catene d'oblio, la nostra storia è stata distorta fin quasi a renderla irriconoscibile. E così, per voi, io sarei uno sciocco vanesio innamorato di se stesso, che per seguire la sua brama è perito nell'umido abbraccio di uno stagno.
Credetemi, vorrei che fosse così semplice. Nessun altro da incolpare o condannare se non me stesso. Ed è probabile, non lo so per certo, che un ultimo respiro nell'istante di un'effimera e ingannevole gioia fosse un destino preferibile all'agonia di poter vedere tutto, persino lei, senza mai poterlo toccare. Senza poter cambiare la sorte di nessuno, nemmeno la mia.
Non so perché nel tramandare il mio ricordo avete omesso di narrare che non ero solo. Che lei era la mia immagine riflessa, e che per un breve tempo, prima che i Divini ci scoprissero e ci separassero, ci siamo amati. Forse tutto ciò fa parte della sua prigione, tanto dissimile dalla mia.
La sua condanna, come ho detto, è l'oblio. Lei infatti vive una vita umana, libera di fare tutto ciò che le aggrada, tranne ricordare me. Ricordare noi, ciò che siamo stati l'uno per l'altra, e la sua natura di Floràe.
Solo di notte, quando giace priva di conoscenza, il mio ricordo la tormenta in sogno. Solo allora, e nemmeno interamente, lei rammenta. Ma non comprende, non sa chi sia quel riflesso diverso, e non avverte la mia voce che la chiama; e al mattino, al suo risveglio, tutto è dimenticato, la mia immagine perduta.
Mi manca il respiro ogni volta che, dalla prigione del mio specchio, posso assistere ai suoi sogni. Addensa l'aria la mia disperazione, la rende liquida, e bolle gorgoglianti mi ovattano le orecchie, sfuggendo dalle mie labbra con l'ultimo fiato. Mi dibatto, e i pugni chiusi martellano lo specchio, traendone rintocchi cristallini che si propagano all'infinito nelle profondità azzurre alle mie spalle.
Non giungerà alcuna salvezza dall'immensità del mio mondo riflesso. Di questo almeno sono certo, perciò non ho mai perso tempo nel futile esercizio di esplorarlo. Cerco di restare a galla, di restare ancorato il più possibile alla mia unica finestra sul mondo. Sul mondo di Mith, lì dove servo i sovrani Glacies, coloro che hanno preso il posto degli scomparsi Divini che mi imprigionarono. E sul mondo degli uomini, quello in cui lei vive, chiamandolo casa.
Non posso sognare, quel lusso non mi è concesso. Ma se potessi, vorrei poter immaginare il giorno in cui la sua mano infrangerà la superficie dello stagno e mi riporterà in superficie, alla vita che fui costretto a lasciarmi alle spalle, per tornare ad abbracciarla, a sentire il suo corpo contro il mio, le sue braccia allacciate alla mia nuca, le nostre labbra che si cercano a occhi chiusi.

sabato 23 aprile 2022

Ancestrale

Ancestrale [an-ce-strà-le] agg. 1. Relativo agli antenati, avito; estens. atavico, primordiale. 2. biol. Di organo presente in animali fossili e che nelle specie viventi risulta diversamente sviluppato o atrofizzato.

Etimologia: dal francese e dall'inglese ancestral, derivato dal francese antico ancestre, "antenato"; a sua volta proveniente dal latino antecessor, "predecessore", composto da ante, "prima", e cedere, "andare", in senso lato, "avere il posto avanti ad altri".



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Da bambina avevo paura a passare davanti alla vetrinetta nel salotto della nonna. Al suo interno la mano mozzata, rinsecchita dai secoli, attirava il mio sguardo, e una volta vista non riuscivo a scacciare i brividi. La nonna la chiamava, con reverenza e affetto, la Mano dell'Avo, ma io non capivo come potesse tenerla tranquillamente in casa.
Solo quando fui più grande, abbastanza da poter comprendere il compito che era stato affidato alla nostra famiglia, la nonna mi prese da parte e mi spiegò tutto. Mi rivelò che quella era la mano di un nostro antenato, un sant'uomo che aveva protetto il mondo da una terribile strega, colei che ancora era ricordata dalle nostre parti col nome di Asana Mei, e la cui leggenda era mutata con il tempo in uno spauracchio per bambini, la versione locale del babau. Nessuno ne aveva più davvero paura, nessuno credeva che fosse mai esistita; solo la nostra famiglia era rimasta a vegliare per scongiurare il ritorno della strega, e per questo, noi eravamo i Protettori.
La nonna mi disse tutto ciò che dovevo sapere per adempiere al mio compito, se mai la strega si fosse risvegliata nel corso della mia vita. Mi insegnò a leggere i segni del pericolo, mi trasmise l'ancestrale conoscenza dei rituali benefici atti a scacciare il male, mi erudì sui malefici che la strega avrebbe usato contro di noi. Quando le chiesi perché conoscesse in dettaglio gli incantesimi della strega, perché me li stesse insegnando se la magia era una cosa tanto brutta, la nonna mi disse che conoscere le vie di una strega non era peccato, che era solo il praticarle che avrebbe corrotto la mia anima. Allora le giurai che non avrei mai messo in pratica quelle nozioni.
Smisi di avere paura della Mano dell'Avo.
La reliquia era stata tramandata di generazione in generazione, e con essa, l'ancestrale protezione che il prendersene cura aveva garantito alla mia famiglia. E noi, di nascosto, estendevamo quella protezione all'intera comunità, vegliando sugli ignari compaesani.

giovedì 21 aprile 2022

Mi stai sfidando?


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Foto di David Selbert da Pexels


Acqua. Tanta acqua. Un'intera, immensa, pozzanghera d'acqua, racchiusa tra pinnacoli di roccia color sabbia.
E non c'importava che quell'acqua fosse tiepida, torbida, o leccata da chissà quante lingue animali. Per le nostre gole assetate la sola vista di quell'acqua era più inebriante di un buon calice di vino. Eppure ancora non osavamo avvicinarci: nascosti dietro un grosso masso, il calore del sole del deserto sulle nostre schiene, osservavamo l'invitante oasi che ci attendeva, e le ombre sinuose che la sorvolavano, vagando da un pinnacolo all'altro. Di tanto in tanto una di quelle creature planava sull'acqua, rivelando un corpo da serpente, grandi ali dalle penne nere, e una testa che sembrava fatta di ossa sbiancate, incassata in un cappuccio da cobra. Inquietante era dire poco. Anche perché, tra l'acqua e il nostro nascondiglio, la sabbia era costellata di scheletri spolpati.
Mi ritirai al riparo del masso. – Qui ci vuole un piano – mormorai a Robert. – Che cosa fanno di solito i protagonisti in queste situazioni?
Lui mi fissò meditabondo, ignorando la nostra guida, un ometto tremante in mezzo a noi che continuava a ripetere: – Povero me, povero me, il luogo di cova dei mortali Cobra-Teschio volanti, chi lo vede non ne esce vivo, mai successo, povero me!
– Dunque... ancora non abbiamo trovato un potente oggetto misterioso o un'arma magica – mi ricordò Robert. – Un attacco frontale è fuori discussione.
– Potrei sfidarli a una gara di indovinelli – gli proposi, sbirciando un gruppetto di dromedari che si avvicinava per abbeverarsi. – Se mi va bene, magari ci guadagno pure un anello che rende invisibili.
Robert colse subito l'occasione per imitare il fastidioso ronzio che nei vecchi quiz a premi accompagnava le risposte errate. – Baaaaaazzz! Storia sbagliata, mi dispiace.
Sospirai, e mi accorsi in quel momento che non sentivo più quegli strani versi mugghianti che facevano i camelidi appena passati. Mi sporsi, e non li vidi. – Ehi, dove sono finiti i dromedari?
– Credo che siano... proprio lì – rispose Robert, accennando a un gruppetto di scheletri sulla sponda dell'oasi. Riconobbi che fino a poco prima quelli non c'erano.
– I mortali Cobra-Teschio volanti... sono stati i mortali Cobra-Teschio volanti! – sbottò la nostra guida in preda al panico.
– Sì, ho capito, funzione informativa svolta – replicai esasperata. Fu solo allora che mi accorsi di un'anomalia che prima non avevo notato, o più probabilmente, nel libro in cui eravamo finiti era stata sapientemente omessa dalla descrizione fino a che non era diventata rilevante. L'oasi era popolata di numerosi pappagalli di grandi dimensioni, alti quasi quanto un uomo, sotto il cui peso le palme si curvavano dolcemente sull'acqua. I pennuti variopinti e ciarlieri si sistemavano le penne e si pulivano le zampe con i becchi, incuranti dei mortali Cobra-Teschio volanti che, dal canto loro, non parevano degnarsi di includerli nella dieta. Io e Robert ci guardammo ed esclamammo all'unisono – Travestimento?
Ci chinammo e sollevammo entrambi da terra una lunga piuma, io rossa e lui verde, che fissammo incantati. Poi sulla sabbia comparve la scritta "Qualche tempo dopo...", e tutti e tre, guida compresa, ci trovammo impiumati da capo a piedi, e con un rudimentale finto becco di legno a coprirci la bocca.
– Sono lieta che questo libro salti le parti noiose – ammisi, rimirando il mio quasi perfetto travestimento da pappagallo. – Non avrei saputo come farlo, altrimenti.
– Non perdiamo tempo. Andiamo, riempiamo le ghirbe, e ce la filiamo – Robert mi precedette fuori dal nascondiglio, sfuggendo alle grinfie della nostra guida.
– No, no, no, non è un buon piano, è un pessimo piano, povero me, questi sono pazzi, ci rimetterò le penne... – continuò a blaterare la guida. Lo ignorai e seguii Robert, quatti quatti verso l'acqua. Le ombre inquietanti e sinuose dei serpenti alati continuavano a planare al centro della pozza, ma nessuna di quelle creature parve intenzionata a piombare su di noi per spolparci vivi. In compenso uno dei pappagalli, un'enorme Ara di colore blu, si alzò in volo dalla sua palma e atterrò tra noi e l'oasi.
Ci fissò con un grande occhio pallido, inclinando la testa da un lato e dall'altro; poi aprì il becco e pronunciò, in tono rauco e gracchiante, appunto, da pappagallo: – Mi stai sfidando?
Io ero rattrappita dietro Robert, in fondo, si trattava pur sempre di un pappagallo grande quanto un uomo e con il becco proporzionato alle sue dimensioni. – Digli qualcosa – bisbigliai all'uomo che fronteggiava il pennuto.
– Eeeeemh... no? – mormorò Robert, in falsetto.
A quel punto, da dietro il masso spuntò la testa e un braccio tremante della nostra guida, che indicando il pappagallo annunciò: – Quello... quello è un mortale Cobra-Teschio volante! Fuggite, sciocchi!
Fu in questo modo che scoprimmo che gli inquietanti serpenti alati non erano altro che innocue creaturine erbivore, e che a disseminare la sabbia di scheletri erano stati i potenti becchi di quella specie di pappagalli giganti.
E la cosa peggiore era che, essendo pappagalli, gli piaceva ripetere le parole e i versi altrui, ma non amavano affatto chi tentava di imitare loro.

lunedì 18 aprile 2022

Non posso


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Foto di Omar Alasali da Pexels


– Io... io non posso – ti sento dire mentre fissi le fiamme che rischiarano il nostro misero accampamento, se così si può chiamare una tendina montabile grande a malapena per starci sdraiati in due. In un primo momento non dico nulla, e tendo le mani al calore del fuocherello con cui abbiamo scaldato la cena, cibo in scatola tanto per cambiare, e che tiene a bada il caos che si affolla appena al di fuori del cerchio di luce.
Non lo credevo possibile, ma di notte la giungla è ancora più rumorosa che di giorno. La prima notte non ero neanche riuscita a dormire da quanto baccano facevano quelle bestie, ma ormai ci ho fatto l'abitudine.
– Davvero, non posso. Sono stanco. – Ti passi la mano sugli occhi e prosegui, senza guardarmi. – A volte mi chiedo se non è meglio che mi arrenda. Se non è meglio tornare indietro, andare incontro a... a quella cosa, al mostro. Che senso ha? Nessuno della mia famiglia è mai riuscito a...
– Non dirlo nemmeno! – sbotto, interrompendoti. – Non provarci.
Alzi gli occhi, allarmato dalla rabbia nella mia voce. Oh, no, non mi hai mai visto arrabbiata davvero. Questa è solo irritazione per le parole di uno sciocco pusillanime.
– Non ho perso tanto tempo perché tu dica "basta così, mi arrendo" – proseguo, sovrastando con la voce la cacofonia selvaggia dei richiami bestiali che ci circondano. – Non ho speso i miei soldi, né rischiato la vita facendo domande a gente poco raccomandabile solo per sentirti dire che tu sei stanco. Stanco di cosa, poi? Prendi un coltello e piantatelo nel cuore se sei tanto stanco.
Ti do uno spintone con entrambe le mani e mi alzo. A braccia conserte, girata di schiena, fisso l'oscurità frusciante di foglie, rami smossi dai salti delle scimmie e chissà cos'altro. Ti sento sospirare.
– Non ti ho chiesto io di aiutarmi – mormori, in tono sommesso. – Lo sai, la maledizione della mia famiglia non dà scampo. Solo... non voglio che ci rimetta anche tu.
Scuoto la testa. Forse sono stata troppo dura con te. È solo che arrendersi non è parte del mio vocabolario, non lo è mai stato. E i "non posso" io li ho sempre trasformati in "ci riuscirò".
– Senti... – mi volto, e torno a sedermi accanto a te, al calore del fuoco che tiene a bada la notte e le creature spaventose che la abitano. – Lo so, non è facile. Ma abbiamo una pista, una speranza. Questa leggenda... è quello di cui abbiamo bisogno.
– Una leggenda – ti sento ripetere, incredulo.
– Ti ricordo che stai scappando da una maledizione. Da un mostro mitologico che ti perseguita. Non dirmi che non credi alla storia della dea distruttrice di mostri che vive da millenni in un tempio sperduto nel cuore della giungla...
Stai ridendo. Finalmente. Erano mesi che non ti sentivo più ridere.
– E ora ripeti con me: io posso... io sono più forte dei mostri... io spezzerò questa maledizione. Ci riuscirò.
– Io... io posso – mugoli, senza troppo entusiasmo. È un inizio, ma dobbiamo ancora lavorarci su. – Io sono... sono più forte dei... ehi, cos'è stato?
Ti giri, occhi sbarrati che frugano la notte. Sbuffando, prendo uno dei rami che spuntano dal piccolo falò, lambito dalle fiamme da un lato ma ancora intatto dall'altro, e lo sollevo come una torcia. Mi alzo, e faccio qualche passo nella direzione verso la quale stai guardando atterrito. Nulla. Niente al di fuori dell'ordinario trambusto di una giungla qualunque.
– Abbiamo già abbastanza rogne con quelli reali – ti dico, ritornando al fuoco dove getto la mia torcia improvvisata. – Non creare mostri anche dove non ce ne sono.

sabato 16 aprile 2022

Convenevole

Convenevole [con-ve-né-vo-le] agg., s. 1. agg. lett. Appropriato. 2. s.m. (al pl.) Chiacchiere formali e di cortesia che si scambiano con qualcuno per educazione.

Etimologia: derivato dal latino convenire, "riunirsi, concordare, essere conveniente", composto da cum, "con, insieme", e venire.



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Quello che passai con mia zia, subito dopo la morte di mia madre, fu il peggior periodo della mia vita. Con mia madre e mio padre mi era sempre stato consentito di essere me stesso, di comportarmi da temerario, di giocare con il fuoco.
Zia Elvira, invece, mi costrinse di punto in bianco a incasellare il mio comportamento entro i limiti di ciò che era convenevole. E non si trattava solo di rispettare i suoi "stai dritto", "non bofonchiare", "cosa si dice?" e "seduto composto a tavola, e non sbrodolare la minestra!", ma anche i più odiosi "non si bruciano le cartacce, buttale nel cestino", "non toccare la fiamma della candela" e "non sei capace di usare i fiammiferi come tutti gli altri? Giuro che se ti vedo fare quella cosa un'altra volta, te le taglio quelle dita!".
Una volta, all'inizio, mi ero ribellato. Avevo cercato di dirle che io non ero come gli altri e non lo sarei mai stato, ma questo zia Elvira lo sapeva già. Litigai con lei furiosamente, come non avevo mai fatto con i miei genitori. Urla, e molte parole di cui ci saremmo pentiti, da entrambe le parti. Alla fine, quando stavo per dare alle fiamme la stessa casa in cui ci trovavamo, troppo preso dall'ira per ragionare, zia Elvira se ne uscì con queste parole: – Sei un ingrato! Guardati attorno, non lo capisci? Mia sorella è morta perché quel disgraziato di tuo padre non ti ha mai insegnato a nasconderti!
Non mi era mai passato per la mente che fossi stato io ad attirare l'attenzione dei sicari dell'altro mondo che avevano ucciso lei, e costretto mio padre alla fuga per condurli lontano da me.
Da quel momento accettai di incontrare il resto della mia famiglia umana e scambiare noiosi convenevoli a ogni festa comandata, celando accuratamente il segreto della magia del fuoco che avevo ereditato dall'altro lato dell'albero genealogico.

giovedì 14 aprile 2022

Eravamo quattro amici in baita


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Anselmo rientrò in salotto tutto ringalluzzito, come se all'improvviso qualcuno gli avesse levato di dosso vent'anni. Gli altri tre vecchiardi, sparsi tra il divano e le poltrone, lo fissavano con l'aspettativa con cui si segue la colata di cemento in un cantiere.
– E allora? – chiese Piero in tono stridulo. Gli altri due borbottarono tra loro.
– Tutto fatto! – annunciò Anselmo, ridacchiando. Accennò a due passi di balletto saltellante, mentre raggiungeva la poltrona più vicina.
– Che ha detto? – urlò Ernesto, che non ci sentiva più tanto bene.
Gioacchino dovette togliersi dal viso la maschera dell'ossigeno per sussurrargli con la poca voce che aveva: – Ha detto... che ha fatto...
Ma a quel rantolo incomprensibile, Ernesto lo fissò stranito e urlò un: – Eeeeh?
– Tutto fatto! – ripeté Anselmo a voce più alta. Batté le mani, e ancora rise. – Gli abbiamo combinato proprio un bello scherzetto. Nessuno verrà mai a cercarci qua.
Piero si voltò verso la finestra della baita. Fuori, il vento soffiava incessante, piegando le cime dei pochi alberi che crescevano sul terreno brullo. Le pendici dei monti salivano verso l'alto, il cielo se ne stava rintanato nelle rare crepe tra un pinnacolo e l'altro, nascosto dal loro grigiore. Nella valletta, quel rifugio montano era l'unica abitazione umana del circondario.
– A me non piace qua – biascicò Piero. – Non c'è nemmeno la televisione. Riportatemi indietro.
Gli altri non gli diedero retta. Anselmo era troppo preso da quel che aveva appena combinato e dall'ilarità conseguente. Ernesto non lo aveva nemmeno sentito. Quanto a Gioacchino, se non si fosse concentrato al massimo sul suo prossimo respiro rischiava di non farlo, quindi non aveva tempo né energie da sprecare per un brontolone.
– Mi hanno creduto – raccontò Anselmo, mezzo ridendo. – Uuuhhh, sì, sono ancora un gran volpone, un mattacchione come un tempo. Che scherzi al telefono che facevo!
– Che ha detto? – urlò Ernesto.
– A me non hai mai fatto ridere – brontolò Piero, ma solo perché più di una volta, all'epoca, si era ritrovato all'altro capo della cornetta.
A Gioacchino invece, che se li ricordava bene gli scherzi di Anselmo, scappò da ridere, ma finì col tossire a più non posso. Ernesto gli batté qualche colpetto sulla schiena, complicando ulteriormente la situazione. Solo quando Gioacchino riuscì a tirare un po' il fiato e rimettersi la mascherina dell'ossigeno, collegata da un tubo a un macchinario ronzante e alla bombola, Anselmo poté riprendere a raccontare.
– È per questo che sono andato di là per telefonare, lo capite? Se voialtri vi mettevate a ridere, a far battutine o a tossire... scusa Gioacchino, ma a te ti riconoscono subito... era finita, non mi credeva più nessuno – Anselmo scosse la testa con una smorfia che cancellò solo per un istante il suo sorriso. Ridacchiò di nuovo. – Aaaaah, dovevate sentirli com'erano seri! "Sì, signore, e dove li ha visti? Quando li ha visti? Com'erano vestiti?" Gli ho descritto tutti quanti noi per filo e per segno, e così si sono convinti. Che goduria far segnalazioni anonime! E così i parenti sono sistemati, e noi possiamo stare tranquilli. Allora, che vogliamo fare? – chiese Anselmo, artigliando i braccioli con le dita nodose.
– Voglio guardare la televisione! – sbraitò Piero, abbastanza forte da farsi sentire da Ernesto.
– Non c'è la televisione, sei sordo? – gli gridò quest'ultimo di rimando. – Te l'ho già detto!
Gioacchino si limitò a volgere gli occhi da un lato e dall'altro. Solo dopo qualche faticoso respiro si tolse la maschera per rantolare: – Non volevo... disturbare...
– Ma stai scherzando? – Anselmo si interruppe per fare forza con le braccia e tirarsi su in piedi. – Mica ti si poteva lasciare in quel brutto posto a morire da solo! No, gli amici devono stare assieme, fin che si può. E noi è da troppo tempo che non facevamo una bella rimpatriata, di quelle che facevamo una volta. Ve le ricordate?
– Che ha detto? – urlò per la terza volta Ernesto, rivolgendosi a Piero.
Invece di ripetergli il tutto gridando, Piero roteò gli occhi e bofonchiò: – Bella rimpatriata! Il rincitrullito, il sordo, e il Gioacchino con l'enfisema... e nessuno che ci ha una televisione!
– Io ho portato le carte! – annunciò Anselmo, a voce abbastanza alta che anche Ernesto lo sentì e annuì con approvazione. – Una bella partita a briscola? Canasta? – Anselmo si voltò a far l'occhiolino mentre domandava ancora: – ...scopa?
Si lasciò alle spalle le risatine e la tossetta degli altri tre matusalemme, e mentre si avviava a recuperare le carte lasciate sulla credenza, Anselmo si mise a canticchiare: – Eravamo quattro amici al bar...
Non arrivò alla seconda strofa.
Non ci arrivò perché la porta del loro rifugio montano inaspettatamente si aprì, e non fu per colpa del vento, che pure soffiava incessante spazzando la piana brulla e sospingendo polvere e foglie secche oltre la soglia. No, era stata una donna, che parlava fitto fitto al cellulare, voltata all'indietro per controllare un paio di marmocchi scalmanati.
– Sì, lo so che avete ricevuto una segnalazione – stava dicendo la donna. – Sì, va bene, sarà anche più credibile delle altre... Il cantiere di via...? Ah, sì, ma non potete mandare qualcuno a cercarli? No, non sono a casa. No, un attimo... Luigino! Lascia in pace tuo fratello! Non mi fare arrabbiare... guarda che adesso arriva papà, eh? No, mi scusi, sa, i bambini... sono un po' agitati, sono preoccupati per il nonno, tutto solo... E che c'entra che sono in quattro, sono comunque quattro anziani in giro tutti soli, no? Trovateli, è il vostro lavoro... ora devo proprio andare, grazie, arrivederci, grazie, sì.
La donna sospirò e chiuse la chiamata. Dentro la baita, i quattro anziani in questione, rimasti zitti e immobili, si guardarono l'un l'altro, poi frugarono freneticamente la stanza con gli occhi, in cerca di un posto dove nascondersi. Dentro l'armadio, dietro la porta, sotto il tavolo, oltre le tende, tra i cuscini imbottiti del divano, nei cassetti della credenza, in mezzo ai fiori finti nel vaso grande... non c'era un posto abbastanza vicino dove tuffarsi e sparire prima che la donna si voltasse.
Dalla soglia, la voce acuta e lamentosa di un pargolo, forse Luigino o forse l'altro, si giustificò: – Ma mamma... ha cominciato lui!
– State zitti! – brontolò la donna. – Ah, ci mancava anche questa, che papà prendesse e se ne andasse in giro... no, bambini, il nonno non lo hanno ancora trovato – replicò la donna alle grida insistenti "nonno, nonno!" dei marmocchi che già lo avevano intravisto oltre la soglia, bloccato come un daino di notte di fronte ai fari di un'auto. – Ma figuriamoci se mi faccio rovinare le vacanze, le ferie le avevo già prese, non le posso mica rimandare per i colpi di testa di quel vecchio rimbambito...
La donna si voltò e finalmente cadde il silenzio. Rotto solo da un respiro più rantolante del solito di Gioacchino, seguito da un singolo colpo di tosse, e da Ernesto che si mise a berciare: – Non ho capito... che ha detto?

lunedì 11 aprile 2022

La donna nello specchio


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Foto di cottonbro da Pexels


– No, no, non ero io, ti dico che era un'altra donna, nello specchio c'era un'altra donna!
L'archeologa Linnea di Timing si lasciò cadere sulla sedia di fronte all'ottuso burocrate. Lui la fissò con sguardo bovino, senza dire nulla. Sbirciò brevemente i reperti che Linnea gli aveva portato, quindi scosse la testa.
– Senta, senza una richiesta diretta del consiglio, io non posso fare nulla. Non decido io cosa mettere in un museo e cosa invece far studiare ai maghi.
– Allora vorrà dire che mi rivolgerò al consiglio – disse Linnea, sporgendosi in avanti. La sua voleva essere una minaccia, ma non suonò affatto tale.
– Bene – replicò infatti il burocrate, per nulla intimorito. Scribacchiò qualcosa sul registro, porse il cesto al suo assistente e annunciò: – Numero sei specchi esagonali opachi, destinazione museo delle civiltà antiche, area restauro. Il prossimo!
Quella stagione, per gli archeologi della città oasi di Timing, era stata eccezionale. Le tempeste di vento che avevano imperversato nei mesi precedenti avevano spazzato via la sabbia dalla piana a ovest, rivelando l'ingresso di una caverna sotterranea che era rimasta sepolta per chissà quanti anni. Secoli, probabilmente, o forse millenni. Dopo aver liberato l'antro che fungeva da ingresso da una quantità imprecisata di sabbia, gli archeologi si erano trovati di fronte a un'enorme sorpresa: le rovine di un'antica città incastonate tra pareti di pietra. Alti colonnati, mura sgretolate, torri mezzo in frantumi, statue, e arcate incomplete di ponti che sormontavano quelli che un tempo dovevano essere stati canali, residuo di un'epoca in cui quelle terre erano floride e fertili. La scoperta di una vita.
Un paio tra gli archeologi più anziani avevano fatto un mezzo collasso dalla gioia.
Linnea era solo uno dei tanti scavasabbia, il grado più infimo della scala gerarchica. Come gli altri, il suo compito era di setacciare la sabbia che ancora restava a coprire il selciato e i pavimenti di mosaico, alla ricerca di frammenti di vasellame che poi i restauratori avrebbero rimesso insieme come tessere di un puzzle, o di rari e più fortunati ritrovamenti come un amuleto, un pettinino, una punta di freccia. Mentre faceva il suo lavoro a testa china, Linnea invidiava profondamente i disegnatori, che sui loro quaderni tracciavano schizzi di ogni angolo delle rovine, e perfino i decifratori, che cercavano di capire il senso di ogni minuscola traccia che somigliasse a una forma di scrittura sui bassorilievi, o in mancanza, di attribuire un significato alle figure.
E fu allora, in preda al malumore più cupo, che Linnea fece la scoperta. Una forma geometrica, piatta e poco più grande della sua mano, emerse dalla sabbia che scivolava tra le maglie del setaccio con un lieve fruscio. Linnea fece per chiamare il suo supervisore, poi serrò le labbra e sollevò tra le dita l'esagono opaco. In un primo momento le parve una piastrella. D'istinto infilò l'altra mano nella sabbia e a tentoni rinvenne e liberò altre cinque forme identiche. Poi nient'altro, in qualunque direzione provasse a setacciare la sabbia con le dita.
Linnea studiò il primo esagono che le era capitato di trovare, davanti e dietro. Era liscio, color sabbia. Nessun disegno, nessun decoro in rilievo, nulla che potesse definirlo come un pezzo pregiato. E poi era successo.
Tra il sibilo del vento che soffiava fuori dalla caverna e l'acciottolio di un crollo accidentale causato da uno studioso troppo zelante, alle orecchie di Linnea giunse una melodia flebile, esotica. Appena qualche nota di flauto proveniente da chissà dove. Nemmeno si era accorta, lì per lì, che i cinque esagoni che non teneva in mano le stavano fluttuando attorno.
Linnea era attirata solo da quello che reggeva, che al pari degli altri si era fatto traslucido, riflettente come uno specchio. Come aveva detto al burocrate, quella che vide però non fu la sua immagine riflessa, anche se quella donna le assomigliava molto. Aveva i capelli più lunghi, e un'espressione determinata sul volto stanco, e una stria rossa le segnava la guancia sinistra... quella che in uno specchio, Linnea avrebbe identificato come sinistra. La donna mosse le labbra, in fretta, come se la disperazione la spingesse a trasmettere un messaggio, ma nessuna voce attraversò la superficie dello specchio. Poi, com'era comparsa, l'immagine svanì, gli specchi tornarono opachi, e quelli che fluttuavano piombarono sulla sabbia.
Per quel motivo, proprio perché aveva visto il miracolo avvenire con i suoi occhi, Linnea era certa di aver trovato un artefatto magico, un reperto davvero prezioso; uno di quelli che la città di Timing ogni anno metteva in palio per la sfida tra i maghi. Loro avrebbero cercato di capire che cosa facevano e come funzionavano simili oggetti, e l'archeologo che li aveva trovati avrebbe ricevuto grande gloria, grande onore, e di sicuro anche una promozione. Ma il burocrate non le aveva creduto.
Da quando li aveva consegnati, Linnea pensò giorno e notte agli specchi magici. Ne era ossessionata. Non tanto perché erano la sua occasione di smettere di essere una scavasabbia, quanto per il mistero della donna che non era lei, che Linnea desiderava risolvere più di ogni altra cosa. Chi era... da dove veniva, o forse, da quando veniva... che cosa aveva cercato di dirle?
Come aveva annunciato al burocrate, Linnea si rivolse al consiglio, spiegò che cosa era accaduto, enunciò le sue ipotesi di fronte a loro; ma dato che nessuno, lei compresa, riuscì a replicare il fenomeno, tutto ciò che ottenne fu di spostare i suoi adorati reperti dalla categoria di "nessun segno particolare" a quella di "possibile oggetto da sfida - necessarie ulteriori indagini".
Il che rese tutto più difficile quando Linnea decise che non c'era altro modo di risolvere la questione se non con un furto.
La sorveglianza era molto più stretta sugli oggetti candidati a essere promossi ad artefatti, rispetto al banale vasellame. Perciò Linnea si ritrovò braccata, a correre sulla distesa di sabbia illuminata dal fulgore di stelle notturne e di una mezzaluna bassa sull'orizzonte in direzione dell'ingresso alla caverna di cui ormai conosceva ogni anfratto e ogni angolo. Avrebbe potuto nascondersi, sfuggire alle guardie che la inseguivano, e che a giudicare dal bruciore che arse improvviso sulla sua guancia destra, le stavano sparando con dardi roventi dalle cerbottane. Ma nascondersi non era quello che Linnea voleva.
Secondo una delle sue teorie, gli specchi funzionavano solo nella città antica, e per maggiore sicurezza Linnea aveva in programma di usarli proprio nel punto in cui li aveva trovati. Quando lo raggiunse si inginocchiò sulla sabbia, accese una lampada e dispose i sei esagoni attorno a sé. Ne prese uno con le dita. Lo sollevò.
All'inizio non accadde nulla. Poi, alle sue orecchie, risuonò la stessa soave melodia che aveva già udito, e i cinque specchi fluttuarono in aria.
Linnea scrutò al loro interno e vide una donna, ma non era la stessa che aveva già visto. Le somigliava, ma aveva i capelli più corti, l'aspetto fresco e uno stupore quasi comico sul volto.
Le guardie si stavano avvicinando, sentiva le loro grida tra le colonne e le mura diroccate dell'antica città. Gridavano di sparare per uccidere, la punizione prescritta per un ladro di reperti.
La donna nello specchio non era un'altra donna, era lei, in un altro tempo. Linnea capì di avere una sola possibilità di uscire viva da quel pasticcio.
– Non parlare con il consiglio! – urlò la vecchia Linnea alla giovane. – Non rubare gli specchi! Non farlo! Morirai!
Un proiettile rovente le trapassò il cuore. Gli specchi divennero opachi e caddero a terra prima che il suo corpo rovinasse sulla sabbia.
In un altro tempo, l'ossessione per il mistero degli specchi magici che le avevano mostrato una donna che non era lei, con un messaggio che non aveva compreso, si insinuò come un tarlo nella mente dell'archeologa Linnea.

sabato 9 aprile 2022

Pecunia

Pecunia [pe-cù-nia] s.f. Con valore scherzoso, denaro, soldi.

Etimologia: dal latino pecunia, "denaro", derivato da pecus, "bestiame", che anticamente costituiva una forma di ricchezza e veniva usato come mezzo di scambio.



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Solo una volta arrivato al tempio di Dorania scoprii che non avevo pecunia sufficiente per permettermi il lusso di oltrepassare la guardia all'ingresso. A dire il vero, non avevo nemmeno una moneta con me.
O le cose erano cambiate da quando lei ci era stata, o Liri non aveva ritenuto necessario informarmi di questo particolare.
Nella Valle, Liri ed io non ci servivamo di denaro per acquistare merci, e non contrattavamo al mercato. Non esisteva nemmeno, un mercato. I sacerdoti che dimoravano nella Valle, e che veneravano il fuoco di drago che era in noi, provvedevano alle poche necessità dei nostri corpi inumani. Per Liri probabilmente era diverso, ma io, che non avevo alcun ricordo di com'ero prima, non avevo mai conosciuto il bisogno. Perfino durante il mio viaggio dalla Valle a Dorania non avevo sentito la mancanza di nulla. Attraversavo veloce le campagne sotto forma di fuoco di drago, e le poche volte che mi fermavo in un paese era sempre per parlare con la gente e per offrire il mio aiuto, non per chiederlo. Spesso, prima di partire, mi era stato del cibo e un riparo per la notte. Non li avevo rifiutati.
Da quelle conversazioni avevo appreso molto del mondo all'esterno della Valle, così, quando giunsi nella grande Dorania, ero già un po' meno ignorante di quando ero partito. Ma perfino i contadini mi avevano raccontato che il tempio accoglieva tutti i pellegrini, e non avevano speso una parola sulla guardia all'ingresso.
La fila si assottigliava man mano che la pecunia tintinnante passava dalle mani dei pellegrini a quelle dell'esattore in armi e armatura. Non avevo scelta, poiché non desideravo mendicare il denaro necessario dagli altri che mi seguivano nella fila. Dovevo dare spettacolo, e stare a vedere che succedeva.
D'altra parte, nessuna guardia poteva fermare una scia di fuoco.

giovedì 7 aprile 2022

67%


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Il complesso era un labirinto di appartamenti costruiti uno sopra l'altro circa un secolo fa. Era un miracolo che quel guazzabuglio di spigoli, mura grigie e finestre opache avesse resistito alle intemperie, al tempo, ai terremoti, alla violenza dei suoi residenti e al Giorno delle Urla.
– Be', eccoci qui – bofonchiò Stan Brooks. Imponente, il collo taurino e le braccia conserte, la pelle grigia come le mura che ci accingevamo a varcare e altrettanto butterata, del nostro trio era quello che più dava l'immagine della forza bruta che potevamo scatenare sui sospettati più recalcitranti. I gran capi non erano ancora d'accordo su come chiamare la variante umana a cui apparteneva Brooks, ma la maggior parte si riferiva a loro come "troll", e a Stan pareva andar bene.
– Secondo voi è vero? – ci chiese Ryan Martin, facendosi avanti mentre controllava gli ultimi dati sullo schermo virtuale. Alto e aggraziato, la voce melodiosa e il viso quasi femminile tra le orecchie a punta, non era stato difficile denominare la sua variante umana "elfi". Ryan era il nostro tecnico, la mente del gruppo, e non era una vista affatto insolita, sia in centrale che quando ci spostavamo per un'indagine sul campo: gli elfi erano una tra le varianti umane più numerose. – Insomma, capisco tutto, ma... un drago?
– Ah, io non mi stupisco più di niente – risposi, la mano sulla pistola nella fondina. – Che ne sappiamo, magari una lucertola ha inalato il gas ed è cresciuta. E ha messo le ali. I gran capi stanno ancora studiando il fenomeno, magari sugli animali fa effetto più lentamente... ok, ok, la smetto di parlare – conclusi, sentendo su di me lo sguardo degli altri.
Ed eccomi qua, Brian Eddings. Io... non ero esattamente sicuro di cosa ci facessi nella squadra Controllo Varianti, ma Stan e Ryan erano miei amici, così quando si erano offerti volontari, lo avevo fatto anch'io. A costo di suscitare l'ilarità del resto del distretto, perché in un mondo di tizi particolari e creature insolite, io ero il più strano di tutti.
Quando il Giorno delle Urla cambiò per sempre il mondo, io ero con la mia ragazza in una grotta nello Utah. La fuoriuscita del gas dalle viscere della terra ci investì in pieno, e mise fine improvvisamente alla nostra vacanza speleologica. Ci vollero alcuni giorni affinché le strutture gerarchiche si riorganizzassero e riportassero una parvenza di ordine in un mondo piombato nel caos, perciò all'inizio nessuno ci venne a cercare. Gli scienziati stimarono che fosse sopravvissuta al Giorno delle Urla solo il 67% della popolazione umana, ma come i fatti dimostrarono più avanti nel tempo, la loro stima era sopravvalutata. Non avevano calcolato i danni collaterali che la perdita di un terzo della popolazione mondiale, unita alla tortura sopportata dai sopravvissuti, avrebbe causato sia il primo giorno che i successivi. Non tutti i piloti degli aerei di linea, ad esempio, erano riusciti a effettuare un atterraggio di emergenza in tempo. Lo scoprii quando chiesi notizie dei miei genitori.
Jenna, la mia ragazza, non rientrò in quel 67%. Io invece mi svegliai in un ospedale improvvisato qualche giorno dopo. Avevo dolori in tutto il corpo, ma ero vivo. Il dottore che mi visitò aveva qualcosa di strano, ma non riuscii a capire subito che cosa. Solo più tardi riconobbi in lui l'aspetto etereo e le orecchie a punta degli elfi. L'infermiere invece aveva un paio d'ali, e piume che gli spuntavano dai polsini e dal colletto. Lì per lì pensai che lo avessero richiamato in fretta da una festa in maschera, e che non fosse ancora riuscito a cambiarsi.
Entrambi mi fissavano come se mi fosse spuntata una seconda testa, e mormoravano tra loro che non capivano come fosse stato possibile, o che cosa avessi io di diverso rispetto agli altri.
In un mondo in cui i mostri e le creature mitologiche camminavano alla luce del sole, io ero uno dei pochi esseri umani rimasti. Quelli come me si contavano sulle dita delle mani.
Mi fecero tutti gli esami possibili, ma non riuscirono mai a capire che cosa mi avesse preservato intatto o come estendere la mia immunità agli altri. Così, dopo aver dato il mio inutile contributo alla scienza, ero tornato al lavoro. Molti colleghi e amici non c'erano più, e il resto, stentavo a riconoscerli. Però Stan e Ryan c'erano ancora, e nonostante loro fossero diventati due specie di supereroi e io fossi rimasto un comunissimo Joe qualunque, mi ero unito a loro nella squadra che si occupava dei casi più difficili di tutto il distretto. Avevamo visto cose assurde come fanciulle velenose che davano il bacio della morte ai loro amanti, vecchi dalla faccia sciolta come una candela di cera che incendiavano qualunque cosa toccassero, orrende creature cannibali dalla bocca larga e i denti aguzzi.
Un drago, però, non lo avevamo affrontato mai.
– Che facciamo, andiamo a bussare di porta in porta come testimoni di Geova? – ironizzò Brooks.
Dal ventre del labirintico condominio provenne un terrificante ruggito.
– Direi che non serve. – Martin ci indicò un puntino lampeggiante sulla planimetria contorta del complesso visibile sullo schermo virtuale. – Trovato.
Salimmo una scala di sicurezza esterna, e poi da una terrazza usammo i rampini per arrampicarci sulla successiva. Martin voleva scrutare all'interno prima di avventurarci nella tana del presunto drago, ma non riuscì la scorgere nulla. La parte interna del vetro era completamente ricoperta da candidi fiori di ghiaccio, e al tatto la finestra era fredda. Da quella posizione, i ruggiti sordi da dentro l'appartamento parevano proseguire incessanti, sovrapposti solo di tanto in tanto da tintinnii e scricchiolii e acciottolii che sembravano indicare la caduta di oggetti di metallo o di detriti rocciosi.
Martin applicò lo scioglivetro, spezzò il ghiaccio e fece scivolare di lato quel che restava della porta finestra scorrevole. Entrammo in un mondo di gelo.
I nostri respiri si condensarono in vapore, e almeno io tremai per il freddo. – Ma stiamo scherzando? Siamo in maggio, perdio! – sussurrai.
Martin mi fece cenno di tacere. Estraemmo le pistole dalle fondine e ci addentrammo nell'appartamento. Solita formazione, Brooks davanti, io in seconda fila, e Martin nelle retrovie. Diceva sempre che la sua mira era perfetta anche da lontano, e che in caso ci fosse stato da scappare, lui era il più veloce.
Trovammo quel che cercavamo seguendo i brontolii rabbiosi della bestia fino alle camere da letto. Dico "camere", perché diverse pareti erano crollate, rendendo quello spazio un unico vasto ambiente, che stalattiti di ghiaccio e gocciolii d'acqua che si congelavano sul pavimento rendevano simile a una grotta alpina.
Trovammo quel che cercavamo, un enorme, minaccioso drago blu dal lungo collo e le ali membranose, e anche qualcosa che non cercavamo: una donna dalla pelle blu, leggermente traslucida, gli occhi ciechi e scie di vapore che le danzavano attorno alle braccia, assumendo di tanto in tanto forme umane o animali.
L'avremmo detta una statua intagliata nel ghiaccio, non fosse stata sospesa a una decina di centimetri sopra un cumulo di gioielli e monete, che i vapori sulle sue braccia scendevano a risistemare ogni volta che un crollo ne deformava la perfetta forma conica.
– Un drago, e un'aberrazione – constatò Martin. – Le nostre probabilità di sopravvivenza scendono al 67%.
Un'aberrazione. Era questo il nome collettivo con cui gli scienziati definivano le varianti umane più rare, ed era loro opinione che tali varianti, nella maggior parte dei casi, fossero mentalmente instabili. Io e i miei colleghi potevamo confermare quella congettura, poiché in tutti i casi in cui eravamo intervenuti c'era di mezzo un'aberrazione. Troppo potere, che le aberrazioni rivolgevano contro gli altri o contro se stesse, le rendevano pericolose, incontrollabili. In altri casi non riuscivano ad accettare una metamorfosi così radicale, e folli di dolore, preferivano dar seguito con le azioni ai loro deliri paranoidi, cercando colpevoli da punire piuttosto che accettare che eravamo tutti sulla stessa barca. Io stesso, tecnicamente, ero un'aberrazione, ma finché dai controlli periodici risultavo idoneo, potevo continuare a lavorare nella polizia. E mia sorella, anche lei, sì, era stata un'aberrazione.
La ragazza più bella dello stato. Aveva partecipato a diversi concorsi di bellezza da giovane, vincendo più di una fascia da Miss. E all'improvviso, dopo il Giorno delle Urla, si era ritrovata nei panni di una mummia carbonizzata, la pelle nera come ossidiana, senza capelli, senza naso, orribilmente sfigurata. Non ero con lei per proteggerla, per aiutarla. Io ero ancora in ospedale. La sentii al telefono, ma non volle che la vedessi, non fece entrare in casa nessuno.
Poche ore dopo quella telefonata si lanciò nel vuoto dal suo appartamento al 112° piano. Perciò sì, posso confermare che le aberrazioni sono mentalmente instabili, per esperienza personale.
Il drago blu spalancò le ali e ruggì contro di noi. Brooks, per nulla intimorito, lanciò la sua mole granitica contro la bestia.
– Aspetta! – gli ingiunsi, ma lui non mi diede retta. Certe volte, anche chi non era un'aberrazione non era proprio tanto sano di mente.
Brooks scartò di lato e puntò la ragazza di ghiaccio. Quella agitò le braccia e intonò una litania, e una folata di vento gelido ci colpì in pieno da chissà dove, facendoci vacillare.
– Andate via! – urlò quindi la ragazza di ghiaccio, con voce tagliente. – Lasciatemi in pace!
Il drago alzò la testa e un bagliore azzurro gli si accese tra le fauci spalancate. Io e Martin entrammo nella stanza e scaricammo i caricatori sulla testa del drago, ma senza sortire alcun effetto.
La ragazza di ghiaccio rise, poi ricominciò a cantilenare e ad agitare le braccia.
– Deficiente di un elfo e di un umano – bofonchiò Brooks, che invece non aveva sparato nemmeno un colpo. Sollevò come niente un comodino, con una mano sola, e lo scagliò verso la mostruosa creatura. – Ma non lo vedete che è un trucco? È un'illusione, è lei, lo sta facendo lei!
Il comodino attraversò il corpo del drago e si infranse contro la parete ghiacciata alle sue spalle. Allora ci rivolgemmo tutti e tre verso la ragazza di ghiaccio.
– Smettila, per favore! Non siamo qui per farti del male, vogliamo solo parlare! – urlò Martin, nel fragore sempre più assordante del ruggito del drago e del turbine di vento che circondava la ragazza. Il solito ottimista. Quando mai aveva funzionato?
Mi schermai gli occhi, perché la luce tra le fauci del drago e il bagliore dei vapori che danzavano sulle braccia della ragazza di ghiaccio stava diventando insopportabile. Quasi quanto il freddo che mi congelava le ossa. Intravidi soltanto, tra le palpebre socchiuse, il momento in cui la ragazza stese le braccia in avanti con un grido. Allora una nuova folata ci investì, più rapida e feroce della precedente, e quando sentii una lama di ghiaccio sfiorarmi la spalla d'istinto mi gettai a terra.
Brooks sparò un colpo. Uno soltanto.
Vidi la ragazza cadere a terra a pochi metri da me. La fronte era deturpata da una bruciatura e da un minuscolo foro. I bagliori sulle sue braccia si erano dissipati, così come il drago con sui aveva terrorizzato il vicinato. Brooks aveva ragione: non c'era mai stato un drago.
Mi strofinai le braccia e le gambe mentre mi rialzavo. – Beh, stavolta me la sono vista veramente brutta. Pensavo davvero che ci avrei rimesso la pelle. Insomma, tu sei quello forte e Martin quello veloce, ma io? Voi siete il 67% che sopravvive, io sono quello sacrificabile della squadra, e... ok, ok, la smetto – mi affrettai a concludere, quando Brooks si voltò a fissarmi con sguardo truce.
– Pensavo di poterla salvare – brontolò Brooks – Comunque, il 67% di sopravvivenza era sottostimare le nostre possibilità, sapientone.
– Io no... non... credo...
La voce di Martin ci giunse incerta e flebile da dietro le spalle. Ci voltammo a guardarlo. Si reggeva in piedi a malapena, e una lama di ghiaccio sottile e trasparente gli spuntava dal petto. Prima che potessimo accorrere ad aiutarlo, Ryan Martin cadde all'indietro, colpì il pavimento e la lama di ghiaccio si frantumò. Il sangue iniziò a sgorgare. Accorremmo al suo fianco.
Senza dire una parola Stan Brooks tamponò la ferita mentre io chiamavo il distretto per richiedere aiuto.
Ma fu tutto inutile.

lunedì 4 aprile 2022

Irritazione umana e fastidio felino


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Stefania lo aveva perso di vista un attimo, o quel bel micino carino era sparito dietro un tronco, e l'istante successivo quello che stava guardando era un gattone grande e grosso. Dapprima Stefania pensò che si trattasse di un altro gatto, ma le macchie e le striature sul suo pelo erano simili, e inoltre, non potevano esistere due gatti parlanti, no?
– Sei cresciuto! – esclamò, non sapendo trattenere la sua incredulità.
Il gatto prima guardò giù, verso le zampe in equilibrio sul ramo, poi indietro, verso la punta della coda.
– Eh già. Come passa il tempo! – miagolò con una voce più adulta e corposa.
– Ma se siamo qui da appena qualche ora! – protestò Stefania.
– È comunque tempo già passato – replicò il gatto, e Stefania non ci provò neanche a fargli notare che la gente non cresce così tanto in poche ore, poiché già immaginava che il felino avrebbe risposto qualcosa del tipo che lui non era la gente, era un gatto, e alla fine con la sua logica assurda la spuntava sempre lui.
Tanto più che anche la foresta le sembrava cambiata. Più intricata, più selvaggia, con liane che pendevano in molli drappeggi tra un albero e l'altro, foglie grandi e dalle forme bizzarre, grosse radici e un fitto sottobosco di muschio e arbusti che le intralciavano il passo. Tra i rami, i canti di fringuelli e cinciallegre avevano lasciato il posto a richiami più esotici, dal cianciare dei pappagalli al gracchiare dei tucani, e più in basso gracidavano miriadi di rane. In lontananza, Stefania sentiva il gorgoglio di un fiume, uno di quei rivi che pareva di montagna, interrotto da mille cascatelle.
Più che una foresta, quella era una giungla.
Stefania si fermò, si voltò verso il gatto che si dondolava su un'altalena di liane, e gli chiese: – Dove stiamo andando?
Ma il gatto era troppo concentrato sulla sua meta per risponderle subito. Adocchiato un ramo dall'aspetto contorto e malaticcio di fronte a sé, continuava a spingere più in alto l'altalena con dondolii del fondoschiena e della coda, finché non fu soddisfatto dell'altezza di quel trampolino. Allora prese bene le misure, attese l'istante giusto, spiccò il salto, e... atterrò ai piedi di Stefania.
– Ah, non importa – si disse, con una scrollata delle orecchie. – Tanto non mi avrebbe retto comunque.
Stefania sbuffò, si sedette sui talloni e chiese di nuovo, in tono insofferente: – Dove. Stiamo. Andando?
– Ah, non lo so – rispose placido il gatto. – Io seguivo te.
Stefania scattò in piedi, si mise le mani nei capelli e sbottò: – Cosa? Ma... ma io mi perdo sempre! Lo sanno tutti che mi perdo sempre, solo un matto seguirebbe me, come hai potuto...
– Calma, calma, rallenta un attimo – disse il gatto, accovacciandosi sulle zampe posteriori e alzandone una di quelle davanti. – Prima di tutto, chi lo dice?
Stefania lo fissò sbigottita. – Tutti! – ribadì. – Mio fratello, e i suoi amici, e... e anche io...
La voce di Stefania si spense in un mormorio mentre il gatto scuoteva il muso. – E tu ci hai creduto. Ma ti è mai passato per la testa che forse il motivo per cui ti perdi è che già in partenza non sai dove vuoi andare? Se non hai scelto una destinazione, è ovvio che non ci arriverai.
– No, io... è tutto il contrario, io so dove devo andare, il problema è che invece di arrivare lì, finisco da tutt'altra parte.
– Ah, sì, ecco dov'è il problema – fece il gatto. – Dovere e volere sono due cose ben diverse. Appunto, come dicevo, tu non vuoi...
Il gatto non proseguì. Una goccia gli aveva colpito il muso, proprio lì in mezzo agli occhi. Stefania non avrebbe mai pensato che esistesse qualcosa in grado di zittirlo.
Alla prima goccia ne seguì una seconda, e una terza, e un'altra ancora, e in breve fu il diluvio.
Non c'era alcun luogo dove rifugiarsi, eppure il gatto cercava lo stesso, inutilmente, di infilarsi sotto le radici e nelle crepe dei tronchi, miagolando ferocemente in segno di protesta.
Stefania era già zuppa quando adocchiò una enorme foglia abbastanza rigida da farle da ombrello. Le ci volle un po' per staccare alla base il lungo gambo, che poi strinse forte tenendo la foglia sopra la testa, mentre tremava dalla testa ai piedi. L'aria si era fatta più fresca, o forse era la maglietta bagnata e appiccicata addosso che le dava l'impressione che fosse freddo. La terra impregnata stava mutando in fanghiglia, e sprigionava un odore frizzante di pioggia. Il gatto parlante continuava a correre da una parte all'altra, le zampe sporche e il pelo fradicio, in cerca di un rifugio asciutto.
– Ma dai, è solo un po' di pioggia... – lo schernì Stefania.
– Un po' di pioggia? Un po' di pioggia? – sbottò il felino, finendo col fermarsi ai piedi di Stefania, sotto la foglia ombrello che però a livello del terreno non riparava un granché. – Ma ti rendi conto che io sono un gatto?
– Sì, e allora? – Tutta l'irritazione provata da Stefania poco prima, quando il gatto aveva rigirato il coltello nella piaga del suo punto debole, l'orientamento, era scomparsa. Al suo posto restava solo il divertimento per le peripezie del felino, che sembrava provare fin troppo fastidio per un nonnulla.
– Allora, i gatti odiano l'acqua.
– Perché? – incalzò Stefania. Questa cosa non l'aveva mai capita. Perché i cani adoravano tuffarsi in acqua, e i gatti invece no? Non aveva senso. Persino ai canarini piaceva fare il bagno.
Il gatto si limitò a fissarla con una espressione ostile. Stefania gli sorrise, mentre tutt'attorno la pioggia rimbalzava sulle foglie e scivolava lungo i tronchi.
– Be', visto che già ti stai lavando... – disse Stefania. Si guardò attorno, e scorto un fiore rosa pallido a forma di campanula a portata di mano, lo colse, e si abbassò a sistemarlo sulla testa del felino dall'umore seccato e dal pelo umido. – Ecco qui. Non avevo una cuffietta da doccia, ma questo ci si avvicina abbastanza.
Il gatto ridusse gli occhi a una fessura e soffiò un miagolio minaccioso. – Lo dirò solo una volta, umana. Toglilo.
Dopodiché snudò gli artigli e attese che Stefania prendesse la decisione giusta.

sabato 2 aprile 2022

Zanzero

Zanzero [zàn-ze-ro] s.m. Compagno di baldoria.

Etimologia: etimo incerto.


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Adrian Aleph era un esemplare di apprendista mago piuttosto atipico.
La maggior parte di coloro che venivano ammessi in una torre seguivano una condotta ascetica, al riparo dai vizi e dalle tentazioni della vita all'esterno della Torre. Morigerati in tutto, intoccati dai piaceri della carne e della gola, vi era una sola direzione verso la quale non erano soliti porsi limiti. La loro unica dipendenza, se tale poteva essere chiamata, era costituita dalla pratica della magia, la loro unica ossessione era lo studio di formule e incantesimi.
Adrian non era un cattivo studente. Impegnava sui libri e nella pratica il tempo che gli veniva richiesto, ma senza esagerare, a differenza dei suoi compagni. Adrian Aleph riservava ad altre attività le sue esagerazioni.
Nel tempo libero, specialmente di notte, era solito fuggire dalla torre attraverso un passaggio segreto, che aveva scoperto o creato nel corso dei primi mesi. Se ne andava in una delle cittadine vicine, più precisamente nelle taverne e nelle osterie del circondario, a far bisboccia con una compagnia di zanzeri che solitamente non durava per più di due o tre di quegli incontri. E, se gli andava bene, trovava anche una compagna per la notte prima di far rientro alla Torre e riprendere il suo ruolo di apprendista mago.
Gli insegnanti, com'era ovvio, erano al corrente delle sue scorribande notturne. Un altro apprendista sarebbe stato cacciato dalla Torre per tali intemperanze, ma nel caso di Adrian, le contromisure si limitavano alle minacce o al pagamento dei suoi zanzeri, e delle sue accompagnatrici, al fine di allontanarli dall'apprendista sconsiderato. Speravano in questo modo di isolare Adrian e di convincerlo a desistere da quelle attività, poiché l'occasione di trasformare l'ultimo discendente degli Aleph, la  famigerata famiglia di stregoni, in un perfetto mago ligio all'unico e vero modo di praticare la magia era troppo ghiotta per lasciarsela scappare.