giovedì 30 agosto 2018

Le nuvole di Luke

(racconto ispirato alla Sfida numero 4. 100 parole esatte per una storia quasi vera, nel senso che il protagonista è una figura storica esistita realmente... per saperne di più, puoi fare una ricerca sul suo nome!)

 
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Luke era un bambino distratto. A scuola, invece di studiare, guardava le nuvole fuori dalla finestra. Sul banco un foglio gli chiedeva di scrivere “Cosa farò da grande”.
“Da grande farò il nuvolologo” scrisse Luke. “Saprò tutto delle nuvole, anche come si chiamano”.
I compagni risero quando lo lesse, il maestro lo rimproverò perché doveva prestare attenzione invece di fantasticare, per poter aspirare a un lavoro vero e dignitoso. Un lavoro come il farmacista.
Crescendo Luke Howard studiò il moto delle nubi, come si formano e come mutano. Sua invenzione nomi come Cirro, Strato e Cumulonembo che usiamo ancora oggi.

lunedì 27 agosto 2018

Il fiore di Tìpfhé

(racconto ispirato alla Sfida numero 4. Per questa prova ho ripreso un racconto che non avevo mai concluso e l'ho notevolmente ridotto, dato che anche incompleto già superava le 200 parole. Ora sono 100 esatte, almeno secondo il mio programma di scrittura... non so mai come contare le parole apostrofate!)
 
 
 
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Chiunque venga da Tìpfhé sa che l'ira non è un peccato. L'ira è un fiore letale.
Lì, microscopici semi vagano nel vento. Basta un respiro e si annidano in te, in attesa, fino alla morte. In un modo, o nell'altro.
La rabbia è calore, è sangue che scorre. È nutrimento per il fiore di Tìpfhé. Nella furia, le radici stritolano il cuore, il bocciolo squarcia il petto. Rosso, meraviglioso, e crudele.
Io sono nata a Tìpfhé.
Perciò, se non urlo, se non sono in collera per il tuo tradimento, non è perché non ti amo. La gelosia mi ucciderebbe. Letteralmente.

sabato 25 agosto 2018

Longanime

La lettera elle è difficile a suo modo. Per la ragione opposta alla acca: ci sono troppe parole interessanti tra cui scegliere! Ridurle a una soltanto è stato incredibilmente difficile.

Longanime [lon-gà-ni-me] agg. Che sopporta a lungo e con pazienza.

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Allo stesso modo della scelta del termine da utilizzare per oggi, è stata la decisione sul personaggio a cui associarlo, e sulla situazione del brano. Troppi che mi si affollavano in mente, e che chiedevano di raccontare una parte della loro storia. Alla fine ho pensato di riprendere Sara di Fiscella, solo perché su di lei in queste pagine ho scritto meno che su altri.


Potevo credere che quello che Sara mi aveva detto fosse vero. Quello che non riuscivo a credere, era che lei voleva che tutto ciò finisse.
– Insomma, puoi vivere per sempre. Puoi sapere tutto quello che succede a chiunque incontri. Non capisco proprio perché vuoi rinunciare a una cosa del genere.
Sara sospirò. – Non hai ascoltato. Io non sono davvero viva. Io esisto, come le montagne. Sospesa per sempre nel giorno precedente a quello in cui ero destinata a perire.
Appoggiai i gomiti sul tavolo e fissai i pozzi neri dei suoi occhi. – Non mi sembra così male. Insomma, tu magari sei ferma allo stesso giorno perché non invecchi, ma non è lo stesso giorno, non come quel film, come si chiamava... ah, non importa. – Scossi la testa. – Domani ti sveglierai e sarà domani, non oggi, tu non cambi ma il mondo attorno...
– ...cambia – mormorò lei. – Precisamente ciò che intendevo.
Sara si appoggiò al tavolo per alzarsi, e in quell'istante me ne resi conto: aveva l'aspetto di una quindicenne ma si muoveva lentamente, a fatica. Come mia nonna.
– Sono stata longanime. Ho atteso per anni, per secoli. Ho atteso te. – Sara si strinse nelle braccia e guardò fuori dalla finestra. – Ma ora che scorgo l'opportunità di rimettere in moto la ruota del mio destino, non la lascerò sfuggire.
Distolsi lo sguardo da lei e sbirciai la sua cucina che sapeva di pane e formaggio. Mobili in legno e pentole di rame, antiche quanto le parole che usava: perire, longanime... Come Sara, quella stanza era un'isola sospesa nel tempo. – Ma se lo faccio, tu morirai  – le ricordai sottovoce. – Non crescerai, non invecchierai, solo... morirai.
L'avevo appena conosciuta. Non ero pronto a lasciarla andare.

giovedì 23 agosto 2018

Aggiungere, togliere, stravolgere

Parlando di revisione di un testo, secondo la mia esperienza, a parte correggere gli inevitabili errori, i refusi e sistemare quelle informazioni su cui hai dovuto fare una ricerca, sono tre i tipi di cambiamenti che puoi fare: aggiungere, togliere, e stravolgere.


Aggiungere


M. Kirin sostiene che ci sono due tipi di scrittori, quelli che durante la revisione aggiungono e quelli che tolgono, e che nel suo caso deve aggiungere perché si dimentica sempre di descrivere un personaggio o un luogo.
Riguardo ai miei primi racconti e romanzi, se dovessi riprendere in mano (come appunto sto facendo) uno di quelli, potrei affermare anch'io di essere il tipo di scrittore che aggiunge. Quelle storie infatti, rileggendole oggi, mi appaiono tanto scarne e sbrigative da sembrare degli scheletri su cui dover mettere un po' di carne prima di presentarle a qualcuno. Non perché non vada bene uno stile asciutto e diretto, anzi: con la storia e il narratore giusto, perché no? Ma per quanto mi riguarda, mi rendo conto ora che nei miei primi lavori spesso mancano collegamenti tra le scene, o sono così "raccontati" da non permettere a chi legge di immergersi nell'ambientazione. Mancano gli odori, i suoni, le sensazioni. Il che non significa dilungarsi a descrivere nei minimi particolari un dettaglio di quel mondo, ma offrire qui e là qualche suggestione e lasciare che chi legge immagini il resto.
Le mie aggiunte vanno da una singola frase per precisare una questione importante (meglio scrivere che uscendo dalla stanza quel personaggio si porta via quell'oggetto, che sarà fondamentale più avanti) a un'intera scena che mancava per dare senso alla sequenza di eventi (non è possibile che il protagonista cambi idea dalla notte al giorno, serve un momento di dubbio o un "incidente" che gli faccia prendere in considerazione la nuova prospettiva).


Togliere


Stephen King nel suo "On Writing" riporta questa proporzione: seconda stesura = prima stesura - 10%. Quindi, riprendendo i tipi di scrittori, lui è uno di quelli che toglie. E molto.
Ridurre, sintetizzare, è qualcosa che ho imparato a fare dopo, quando mi sono resa conto che ormai avevo imparato così bene ad aggiungere da farlo fin troppo. È qualcosa che sto ancora imparando, anche qui nel blog: se per i post in genere non mi pongo un limite, con i brani del sabato ho scelto di non andare oltre le 2000 battute. Regolarmente mi ritrovo a scoprire di aver sforato, e di dovermi chiedere cosa è superfluo, cosa posso tagliare. A volte è semplice, altre è una bella sfida. Che spero di riuscire a portare anche nel correggere i miei romanzi.
Ci sono volte in cui ho tolto frasi o singole parole perché ridondanti (un aggettivo già implicito nel nome, come "solido" riferito al marmo, o "labile" per un tratto di matita; oppure, quante volte posso ribadire la paura di un personaggio prima di passare dal senso di angoscia a quello di noia?); in altri casi, ho eliminato un personaggio o una scena perché mi sono resa conto che era inutile ai sensi della storia, oppure non aveva molto senso nel contesto (d'accordo, quando l'ho scritto avevo letto quel romanzo sui lupi e all'epoca ne ero affascinata, ma perché mai dovrei coinvolgerne uno nella mia storia, in un episodio tra l'altro mai più menzionato e che non influenza il resto del romanzo?).
Qualunque sia il motivo per togliere un passaggio, per alcune persone cancellare quanto si ha scritto può risultare l'operazione più difficile in assoluto. Perché forse le parole che hai scritto ti piacevano, e dato che ci hai investito del tempo, al momento di eliminarlo puoi farti prendere dai dubbi. Ma cerca di guardarlo con obiettività: se quel passaggio non appartiene alla tua storia, prendi coraggio e toglilo. Potresti accorgerti che, una volta usato il bisturi, il tuo racconto è migliore e più in salute di prima.


Stravolgere


La terza modifica è un po' particolare. Potrebbe essere descritta come un togliere e aggiungere allo stesso tempo. Forse non modifica la lunghezza del testo, ma ne altera i connotati. Potresti sentire che un personaggio non è come lo avevi immaginato all'inizio, e devi riscrivere tutte le sue scene per tenere conto di questa sua personalità o identità differente rispetto a quella della prima stesura. Oppure ti è venuta in mente una regola del mondo o della società in cui si muovono i personaggi che darebbe più senso al finale, e ti conviene citarla o riscrivere delle scene per tenerne conto in tutte le occasioni in cui potrebbe influire sugli eventi. Puoi aver trovato, a mente fredda, buchi nella trama che non avevi notato durante la prima scrittura, e per sistemarli occorre qualcosa di più di una piccola aggiunta. Oppure, semplicemente, quella parte non ti piace, ti annoia, e hai trovato l'idea perfetta per renderla più interessante.
Le occasioni in cui ho stravolto una delle mie storie non si contano. Per tutti i motivi che ho citato sopra, e per altri. E credo che in futuro, continuando, troverò moltissime altre ragioni e modi di stravolgere un racconto o un romanzo che ho scritto. Purché la nuova versione sia più coerente, più scorrevole e più appassionante della vecchia.


E tu, che ne pensi? In fase di revisione tendi più ad aggiungere, a togliere o a stravolgere ciò che hai scritto? Raccontami pure la tua esperienza nei commenti, non vedo l'ora di leggerla!

lunedì 20 agosto 2018

Sfida numero 4 - Piuma di Colibrì

Continua la serie di sfide a difficoltà variabile, facile, intermedio e difficile. Il meccanismo è semplice: ti proporrò tre livelli cumulativi, con istruzioni man mano più complesse e specifiche. A te scegliere se completare il livello più semplice, aggiungere le indicazioni di quello intermedio o seguire tutte le istruzioni per arrivare al livello difficile.

Se hai perso le prime sfide e vuoi recuperarle, le trovi qui:
Sfida numero 1 - Piuma di Passero
Sfida numero 2 - Piuma di Merlo
Sfida numero 3 - Piuma di Piccione Viaggiatore

Se sei pronto, si comincia con la sfida di oggi!

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Sfida numero 4

Sfida leggera per il rientro dalle vacanze, ma allo stesso tempo, si tratta di una prova un po'... esotica. Diversa da ciò che ti ho proposto finora. Completandola, vincerai una virtuale Piuma di Colibrì, di bronzo, d'argento o d'oro a seconda del livello scelto.

Livello facile: scrivi non più di cento parole.
Può trattarsi di un pensiero, una poesia, una descrizione, un brano appartenente a una storia più grande o un mini-racconto.

Livello intermedio: racchiuso in quelle cento parole, scrivi un racconto completo.
Dopo l'ultima parola, dovresti essere in grado di scrivere la parola fine. Di raccontare una storia dall'inizio alla sua conclusione, sia pure una della durata di pochi istanti, ma con un cambiamento al suo interno. Questa storia, se preferisci, può essere anche sotto forma di poesia.

Livello difficile: scrivi cento parole esatte.
Non una di più, non una di meno. Cento parole esatte, contate. Puoi riuscirci?


Aspetto i tuoi commenti, suggerimenti o il brano che questo nuovo tipo di esercizio ti ha ispirato a scrivere. Come al solito avrai la possibilità, se lo desideri, di mettere sotto i riflettori le tue parole nel post di giovedì della settimana prossima. Riuscirci è semplice: ti basta sorprendermi!

sabato 18 agosto 2018

Inane

Non è affatto inane imparare nuove parole... ed ecco che già comincio a esercitarmi a usarla! Perché la parola di oggi è proprio:

Inane [i-nà-ne] agg. lett. Vano, inutile.

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Sarà il caldo, ma continuo a immaginare brani ambientati nei deserti. Basta, mi arrendo. Non ho voglia di cercare altri personaggi e altri luoghi. Per la seconda settimana di seguito resto a Timing... o sulla strada per essa.


Il caldo asfissiante mi appesantiva le gambe. Non riuscivo ad alzarmi. Ero arrivato al punto che preferivo morire d'inedia lì, con la sabbia tra le dita, piuttosto che muovere un altro passo.
Un'ombra sottile si allungò su di me, ma non mi diede alcun refrigerio. Soprattutto quando alzai gli occhi e mi accorsi che quell'ombra apparteneva a Jashira.
– In piedi, inane disgraziato!
– Mmmm, no... – mugolai con la gola secca. – Lasciami qui, non ce la faccio...
Jashy scosse la testa. – Sei più inutile di un cappotto nel deserto.
A quel punto avrei voluto chiederle come mai lei ne aveva portato uno. Lo avevo visto nei suoi bagagli, quando una valigia si era aperta rotolando giù da una duna. Dentro c'era così tanta roba inutile che avevo dovuto legarla con una corda per tenerla chiusa.
– Ho detto, alzati! – Jashy si abbassò con le mani protese, ma all'ultimo si tirò indietro e guardò l'elementale di fuoco che ruggiva al suo fianco, grattandosi le fiamme vetrificate per l'indigestione di sabbia. – Anzi, no. Pensaci tu. – Jashy ghignò con espressione truce.
– No, no, mi alzo, mi alzo! – assicurai prima che Jashy potesse dare l'ordine. Normalmente quello di ghiaccio mi avrebbe spaventato di più, ma il calore lo aveva ridotto a una creaturina alta due spanne aggrappata alla spalla di Jashy.
– Anche se non ha senso – mugugnai nel rimettermi in piedi. – Tanto non ce la faremo. Non raggiungeremo mai Timing. Ogni nostro sforzo è, come dici tu...
Non finii la frase. Jashy indicò qualcosa con il braccio teso. Non era facile notarla, perché aveva lo stesso colore della sabbia, ma dietro un'alta duna spuntava la cupola della torre di Timing.
– ...inane? – completò Jashy. – Oh, ma guarda, ci siamo quasi! Perciò smettila di lamentarti e prendi le mie valigie. Pensa a quanto sei fortunato, piuttosto: potevo lasciarti qui a morire come volevi tu, invece di condurti sano e salvo all'oasi di Timing.
Mi misi in marcia, carico come un mulo. – Già. Fortuna mia che ti serve qualcuno per portare i bagagli!

giovedì 16 agosto 2018

Questo è il posto

(racconto ispirato alla Sfida numero 3. Scritto non proprio nel luogo che ho inserito nel racconto, ma abbastanza vicino. Prima volta che ci andavo, quindi di sicuro non ho mai scritto lì. E stavolta piuma d'oro, ho messo sia i dettagli che i personaggi persi... in un modo inconsueto)
 
 
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Non era lì che volevo andare. Glielo dissi.
– Ok. Questo, decisamente, non è il posto a cui stavo pensando. – L'ombra grigia delle rocce che incombevano su di noi pareva rovente dopo il brevissimo lampo di gelo della dimensione di passaggio. Mi aggrappai al corrimano d'acciaio della passerella e mi sporsi a guardare in basso, nelle viscere della forra. Decine di metri più in basso scorreva un ruscello. Non l'avrei mai notato, non fosse stato per il flebile scroscio dei suoi fiotti. Mi raddrizzai e fissai la parete di roccia che avevo di fronte. Una risata nervosa mi sfuggì dalla gola. – Be', almeno non ti ho fatto finire dentro un muro di pietra.
– Impossibile – ribatté la sua voce calma.
Mi voltai. Riuscivo appena a distinguere il suo profilo: sopra di noi, un masso incastrato tra i due lati del canyon ci riparava dalla luce. – Scusa tanto, ma questa è una cosa nuova per me. Allora, dove ho sbagliato? E dove siamo finiti, esattamente?
Lui non rispose.
Infilai la mano nella tasca dei pantaloni. Almeno avevo portato il cellulare, e una delle due risposte la potevo trovare da solo.
Oppure no.
– Connessione internet assente. Perfetto.
Scossi la testa, poi usai il cellulare come una torcia per rischiarare i dintorni.
I suoi occhi neri mi fissavano. Era inquietante per quanto sapeva essere inespressivo. E giovane.
Anche se in quest'ultimo caso, la prima impressione era del tutto errata. Era ancora difficile da capire per me, ma da quanto mi aveva detto, la sua età non poteva essere calcolata con nessuna unità di misura.
– Sei stato tu a guidarci nel salto – mi disse. – Tu sai dove hai sbagliato.
– Ok. – Mi grattai la testa, poi mi guardai attorno in cerca di indizi. – È chiaro che questa non è la tua stanza a Tessonnì o come si chiama – borbottai, fissando un rivolo umido che colava giù lungo la roccia, foderata in quel punto da alghe rosse. Strusciai la mano libera sulla pietra, mi girai e avanzai lungo la passerella. C'era qualcosa di familiare nelle sporgenze e nelle volte di roccia che mi costringevano ad abbassarmi e contorcermi sulla stretta passerella. Un refolo mi giunse alle narici, portando tracce d'acqua e di verde. Corsi in avanti quando il passaggio si allargò abbastanza da consentirmi di vedere nella penombra, e mentre scendevo i gradini di metallo il ruggito di una cascata che precipitava in una conca mi assordò. Non sentivo i suoi passi lievi, ma sapevo che lui mi seguiva. La sua presenza era come un ronzio nel retro del mio cranio, anche se la sua barriera mi impediva di percepire i suoi pensieri. Per fortuna: da quando aveva spezzato la mia, era diventato difficile isolarmi.
Intorno a me, nel frattempo, la luce rischiarava le pareti, che si spalancarono in un canyon più largo, bordato da felci e noccioli che si protendevano sulla sommità in una tenda verde. Una cascata d'edera affiancava una pioggia di gocce che risplendevano al sole. – Ma questo è...
Mi voltai a guardarlo. Lui era un passo dietro di me.
– Questo è il posto – gli dissi.
Lui annuì.
Era il luogo dove ci eravamo incontrati. Facevamo entrambi parte dello stesso gruppo in una visita guidata. Due estranei che non avevano scambiato più di qualche parola. Ma lui aveva capito che eravamo uguali, e in seguito mi aveva aiutato a scoprirlo.
– Stavo pensando alla tua stanza – riflettei ad alta voce, mettendo via l'ormai inutile cellulare. – A te. A noi. È questo il collegamento, ciò che ci ha fatti finire qui? – gli chiesi allargando le braccia.
– Ci sei quasi. – Finalmente, si era deciso a darmi una mano. – Ma il ricordo di una persona non può deviare un salto. Inoltre, io ero con te.
– D'accordo, non è quello il motivo. Ma allora cosa? Avevo ben chiaro in mente la tua stanza, ne sono sicuro, so com'è fatto il letto, l'armadio, la libreria, e quel tuo vecchiume di un orologio a pendolo...
Mi interruppi, guardando oltre lui, verso lo stretto pertugio tra le pareti di pietra. Quello era il posto, e l'angolazione giusta. Schioccai le dita. – Ma certo! La foto sulla parete!
Lo vidi annuire.
Avevo immaginato la sua stanza rivolto verso quella foto incorniciata. E all'ultimo, il paesaggio della foto aveva riempito la mia coscienza, sostituendo l'immagine della sua camera.
Era così che ci eravamo persi.
Lui mi tese la mano, e indicò la lunga passerella di fronte a noi, le grate che tintinnavano a ogni nostro passo. – Ora che lo sai, ti va di riprovare?
Con un cenno d'assenso, afferrai la sua mano. – Sì. Torniamo a casa.
Incrociai le dita, augurandomi di non sbagliare di nuovo. Ricostruii nella mia mente nei minimi dettagli l'immagine di quella stanza, ma da un'altra angolazione, una che non includesse quadri o foto. Poi presi la rincorsa e feci il salto.

lunedì 13 agosto 2018

Chi diavolo sei?

(racconto ispirato alla Sfida numero 3. Torna Ethan del brano scritto per la parola Glissare, dopo più di un anno da quel racconto. Brano scritto in auto, qualche elemento dalla realtà c'è ma manca un personaggio che si è perso, a meno di non considerarlo in senso metaforico... direi che stavolta sono arrivata al livello intermedio, l'argento)
 
 
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– Dobbiamo parlare di quello che è accaduto laggiù.
Sto ancora tremando, non riesco a crederci. Ethan fissa la strada, senza parlare. Troppo assorto a guidare nella nebbia.
– Per favore – aggiungo.
– Non c’è niente da dire – ringhia lui.
Lo osservo come se non lo avessi mai visto in vita mia. E in effetti, è come se fosse uno sconosciuto, per me. Nonostante gli anni che abbiamo passato assieme.
– Ethan…
Mugolo il suo nome. Solo in quel momento lui si volta a fissarmi. I suoi occhi hanno pupille allungate circondate da un’aureola dorata, come quelli di un serpente.
Trattengo il respiro e lui torna a fissare la strada.
– Non puoi dimenticare? Sarebbe tutto più facile se lo facessi, credimi.
Scuoto la testa. Mi aggrappo alla cintura di sicurezza, come se avesse potuto trattenere non solo il mio corpo, ma anche la mia confusione.
– Evangeline è… – Non riesco a finire, mi manca la voce. Vedo i capelli rossi di Ethan assumere una sfumatura più cupa. Non credo che riuscirò mai ad abituarmi a questo nuovo lui.
Ma il mio amico, o quello che ne ha preso il posto, non dice niente.
Perciò tocca a me parlare. – Che cos’era? Quella cosa, quando Evangeline è scomparsa? E poi tu hai cominciato a… oh, ti prego, dimmi qualcosa!
– Non è morta, se è questo che vuoi sapere – brontola Ethan in tono cupo.
– Ah no?
– No – ribadisce lui.
– E allora dove…?
Aggrotto la fronte, fissando il mio amico. I suoi capelli sono completamente neri, e ora anche la pelle è più scura, mentre i lineamenti del volto sembrano più marcati. No, davvero, non mi ci abituerò mai.
Non mi risponde. Tento un altro approccio.
– Che cos’hai fatto? Laggiù, quando ti sei… trasformato?
– Dovresti smetterla di fare domande e dormire. Sei esausto.
Sbuffo, rivolgendo lo sguardo alla nebbia che avvolge il mondo fuori dall’abitacolo. I fari non riescono a penetrare per più di qualche metro nell’oscurità lattiginosa.
– Intendi dire che sto cominciando a sragionare? Che mi sono inventato tutto? Dio santo, guardati, Ethan, tu sei…
Allungo le mani, i palmi in alto. Non riesco a trovare la parola.
Lui sogghigna. – Non credo che ti convenga pronunciare quel nome in mia presenza. Potrei anche incenerirti, sai? – mormora, con voce roca. Lo fisso, a bocca aperta. Forse ho trovato la parola che stavo cercando.
– Il diavolo?
Se si fosse voltato e mi avesse detto “Piacere, Lucifero” non mi sarei stupito.
– Corretto solo a metà – replica lui con amarezza. I suoi tratti si addolciscono, la carnagione si fa più rosea. I suoi capelli ora sono biondi. Quando si gira, gli occhi sono azzurri e la pupilla è normale. Il ritratto dell’innocenza.
– Mio padre lo era. Un angelo caduto.
Distolgo lo sguardo e lo rivolgo al finestrino alla mia destra, cercando di scorgere qualcosa nella nebbia. Forse non è stata una grande idea lasciare che fosse lui a guidare. Mi rattrappisco sul sedile, scorgendo un cartello con la scritta “La Tana del Diavolo” che mi sfila accanto e si allontana alle mie spalle. – Stiamo andando da lui ora, non è così?
– No – replica Ethan, senza rallentare. – Stiamo andando dall’unica persona che può aiutarci a riprenderci Evangeline. Stiamo andando da mia madre.

sabato 11 agosto 2018

Harmattan

Ed eccomi, di nuovo, alla lettera più difficile di tutto l'alfabeto, in italiano! Come al solito, non mi resta che cercare una parola che si sia infilata nel nostro dizionario proveniente da un'altra lingua, o una che sia possibile scrivere con e senza acca iniziale.

Harmattan s.m. inv. meteor. Violentissimo vento desertico proveniente dal Sahara che in inverno soffia da levante, investendo di sabbia le coste occidentali dell'Africa, fino alla Guinea.

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Un termine così geograficamente definito è più difficile da inserire in un contesto diverso da quello di origine. Ma con un po' di fantasia si può immaginare che in un universo parallelo, in un deserto simile e con le stesse condizioni climatiche, sia stato coniato lo stesso termine (o che per semplicità sia stato tradotto così da qualunque lingua si parli in quel luogo).


Quando soffiava l'Harmattan, la terra cambiava. Ogni volta che suonava il corno, segnale che dovevamo chiuderci in casa per ore, o anche giorni, io salivo alla stanza superiore della torre e guardavo dalla cupola trasparente la nuvola dorata che si avvicinava: prima era una striscia confusa all'orizzonte, poi un muro impenetrabile, e infine diventava una coperta che avvolgeva la cupola, nascondendo persino il sole. Lì, nella penombra ambrata, pensavo a quello che avremmo trovato quando la sabbia si sarebbe posata.
Seduta da sola al centro della cupola, rannicchiata e con le ginocchia strette al petto, guardavo la sabbia strusciare contro il vetro e cercavo di immaginare quali meraviglie avrebbe rivelato l'Harmattan. Quali rovine sarebbero emerse dal deserto, quali tesori dell'era antica avremmo riportato a Timing dalle esplorazioni, quali scoperte sarebbero state possibili solo grazie all'ululato di quel vento che ci costringeva a rintanarci sottoterra, al sicuro. Nessun altro, oltre a me, osava starsene lassù durante la tempesta di sabbia. Qualche volta avevo sentito le strutture della torre scricchiolare, ma io non avevo paura.
Quel vento era mio amico.
Anche se sconvolgeva i sentieri e spostava le dune con le quali mi orientavo: era come un amico un po' scontroso, dispettoso, che si divertiva a mettere tutto a soqquadro. Ma che portava anche bellissimi regali. Era grazie a lui se Timing, la mia città di archeologi sperduta nel deserto, prosperava. In autunno tutti i maghi della regione sarebbero venuti da noi per partecipare alla sfida. Solo pochi di loro avrebbero scoperto l'uso degli artefatti antichi ritrovati tra la sabbia, vincendo la sfida e l'oggetto, ma tutti avrebbero portato qualcosa come tributo: cibo, acqua, tessuti e tutto il necessario per fare sì che la gente di Timing vivesse un altro anno.

giovedì 9 agosto 2018

Pianificatori vs improvvisatori

Una delle preferenze che è possibile dichiarare durante il NaNoWriMo, ricevendo persino una medaglia virtuale, è se nello scrivere si ritiene di essere un pianificatore (planner), un improvvisatore (pantser) o un misto di entrambi (plantser). Se leggi questo blog già da un po', saprai individuare a occhi chiusi su quale è caduta la mia scelta. Ma vediamoli un po' più in dettaglio.

Un pianificatore è colui che prima di iniziare stende una scaletta, divide la trama in scene, progetta i capitoli, magari aiutandosi con schemi collaudati come quello del viaggio dell'eroe. Fa uno studio preparatorio dei personaggi, li disegna se è in grado, compila una scheda o un "documento d'identità" almeno per i principali, traccia la mappa (del mondo se la storia è ambientata in una terra inventata, di un edificio se è il luogo principale dove si svolge l'azione), inventa il tipo di società in cui si muovono i suoi eroi o ne ricerca le caratteristiche se esiste ma è lontana da lui nello spazio o nel tempo. Riempie quaderni di appunti. Ed è possibile che abbia anche un tabellone su cui affiggere le sue note e tracciare i collegamenti, qualcosa di simile a ciò che potresti vedere usato in un film giallo per le indagini in corso.

Un improvvisatore, al contrario, è colui che inizia a scrivere mentre l'idea è ancora calda, senza sapere dove lo porterà. Affronta la pagina bianca senza appunti e senza ricerca, scoprendo man mano i dettagli della storia e modificandola in corso d'opera dove serve. Ciò non vuol dire che un improvvisatore non si affida ad alcuna fonte o che ciò che scrive sarà zeppo di incongruenze, ma solo che non si cura troppo di questi problemi nella prima stesura. La revisione in fondo serve a questo: a dare l'impressione che sapevi già tutto fin dall'inizio (citando a memoria M. Kirin, in uno dei suoi vecchi video che ho rivisto di recente).

Pianificatore e improvvisatore sono solo gli estremi di un continuum che può vederti propendere più per l'uno o per l'altro, preferenza che può modificarsi nel corso della tua vita o a seconda del progetto su cui stai lavorando. Sono convinta che ci siano tanti tipi di scrittore quante sono le persone che scrivono, eppure, sia a scuola che nei corsi di scrittura creativa, il prototipo dello scrittore che viene inculcato è quello del pianificatore che studia diligentemente l'argomento di cui intende scrivere e che accumula più appunti di quante non siano le pagine del suo romanzo. In fondo, non è quello che viene in mente anche a te se pensi a uno scrittore che sia diventato celebre?

Se provo a pensare al perché sia così, la risposta che mi viene in mente è che l'immagine dello scrittore pianificatore appare essere quella più "seria" e più "professionale", nonché quella più semplice da insegnare. Per creare uno scrittore pianificatore ci sono mille strumenti che è possibile spiegare, dai prototipi dei personaggi (l'eroe, il mentore, il guardiano della soglia, l'antagonista), ai cliché tipici di ogni genere da evitare, fino ai passaggi più o meno obbligatori in cui suddividere la trama, talvolta specificando anche quanto in percentuale del romanzo va assegnata a ciascuno di loro.

È molto più difficile insegnare a essere un improvvisatore. Presuppone di insegnare l'abilità di lasciar andare ogni presunzione di controllo; la capacità di mettersi, invece che nei panni del regista che decide ogni cosa e taglia subito laddove il risultato non rispecchia il suo ideale, in quelli di un semplice cameraman, con l'unico obbligo di essere testimone, al massimo delle proprie capacità, dell'azione che si sta svolgendo di fronte ai suoi occhi. Come si può insegnare a "cominciare senza sapere"? E soprattutto, che sia possibile e che vada bene farlo? E insegnare che improvvisare, seguire la storia laddove ti porta, non significa scrivere solo quando si ha voglia o quando l'ispirazione chiama?

Per come la vedo io, sebbene uno dei due sia quello osannato in ogni corso e manuale, nessuno dovrebbe essere trattato come "il metodo corretto" o quello che ha maggiore dignità. Sono solo due modi diversi di arrivare allo stesso risultato, ciascuno con i suoi pro e i suoi contro, che sono più o meno adatti per questo o per quello scrittore. E con un loro punto d'incontro, una sintesi ideale nel mezzo del continuum che può variare a seconda dei tuoi gusti. Imparare a mettere in pratica entrambi, conoscerne gli "strumenti", è un buon punto di partenza se vuoi cominciare a scrivere. Trovare quello che fa per te è indispensabile se vuoi continuare a scrivere.

E tu che scrittore pensi di essere, un pianificatore, un improvvisatore, o una via di mezzo?

lunedì 6 agosto 2018

Sfida numero 3 - Piuma di Piccione Viaggiatore

Continua la serie di sfide a difficoltà variabile, facile, intermedio e difficile. Il meccanismo è semplice: ti proporrò tre livelli cumulativi, con istruzioni man mano più complesse e specifiche. A te scegliere se completare il livello più semplice, aggiungere le indicazioni di quello intermedio o seguire tutte le istruzioni per arrivare al livello difficile.

Se hai perso le prime sfide e vuoi recuperarle, le trovi qui:
Sfida numero 1 - Piuma di Passero.
Sfida numero 2 - Piuma di Merlo

Se sei pronto, si comincia con la sfida di oggi!

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 
Sfida numero 3

Completandola, vincerai una virtuale Piuma di Piccione Viaggiatore, di bronzo, d'argento o d'oro a seconda del livello scelto.

Livello facile: scrivi in un luogo dove non hai mai scritto.
Dove vai di solito per scrivere? A casa? In biblioteca? In un parco?
Dimenticati di questi posti. Dimentica qualsiasi luogo in cui tu abbia mai scritto una sola parola. Un posto nuovo può fornirti una diversa prospettiva e rivelarsi un'inaspettata fonte di ispirazione.

Livello intermedio: guardati attorno. Ascolta. Rendi ciò che ti circonda parte della tua storia.
Può essere il paesaggio, un oggetto, una persona, un frammento di conversazione. Puoi inserire un dettaglio minuscolo o portare i tuoi personaggi lì dove ti trovi e farli interagire con l'ambiente.

Livello difficile: i tuoi personaggi si sono persi. Racconta le loro reazioni.
Dove sono, e come ci sono arrivati? C'è qualcun altro con loro, hanno i mezzi per contattare un amico oppure no? Se possono ricevere una mano, chiederanno aiuto per ritrovare la strada del ritorno? O, meglio ancora, vogliono davvero trovarla?


Aspetto i tuoi commenti, suggerimenti o il brano che questo nuovo tipo di esercizio ti ha ispirato a scrivere. Come al solito avrai la possibilità, se lo desideri, di mettere sotto i riflettori le tue parole nel post di giovedì della settimana prossima. Riuscirci è semplice: ti basta sorprendermi!

sabato 4 agosto 2018

Giumella

Oggi ho imparato anch'io una parola utile, che potrebbe essere pronunciata in molte situazioni... se solo fosse più conosciuta.

Giumella [giu-mèl-la] s.f. 1. Concavità che si ottiene giungendo insieme le palme delle mani, con le dita strette e incurvate. 2. Quantità che può essere contenuta nel cavo delle mani accostate.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Il gesto di unire le mani a coppa mi ha portato alla mente due personaggi. Il primo beveva da un ruscello, e non mi pareva una scena molto interessante. La seconda, invece, è Helena di Luce.


Le mie notti, da bambina, non erano mai buie. Mi bastava fare giumella, ricordare un momento in cui ero stata felice e al sicuro e in pochi istanti una luce liquida si raccoglieva tra i miei palmi. Mi pareva incredibile che gli altri bambini non potessero farlo, ma mio padre mi aveva detto che ero speciale, e che non dovevo raccontarlo a nessuno, nemmeno alla mamma. Lei era una biologa. Studiava la bioluminescenza degli organismi marini quando ha conosciuto mio padre, che all'epoca faceva l'istruttore di surf in un villaggio turistico.
Avrebbe trovato il fenomeno troppo interessante.
Ho provato anche a berla, quella luce impalpabile. La maggior parte delle volte non sapeva di niente; ogni tanto, però, aveva il sapore del ricordo con cui l'avevo evocata. I biscotti al burro di mia nonna. Una granita divisa con mio padre. L'acqua salata di mare, quando mia madre mi ha insegnato a nuotare.
La luce è scomparsa dalle mie mani il giorno in cui mio padre è morto. Forse non riuscivo più a sentirmi felice e al sicuro. Forse quello speciale era lui, e io invece ero come tutti gli altri.
Da sola, e al buio.
Così ho vissuto la mia vita finché non ho incontrato Lucien. Stavo bevendo da una fontana e pensavo a lui quando è successo. Per la prima volta dopo anni, da due soli che risplendevano nei palmi le mie mani si sono colmate di una giumella d'acqua lucente.
E allora ho capito. Com'era stato per mio padre, Lucien è la mia luce.
È passato un mese da quel giorno. Domani, forse, avrò il coraggio di dirglielo.

giovedì 2 agosto 2018

Buoni vicini

(racconto ispirato alla Sfida numero 2. Ho scelto ancora il livello difficile, stavolta proseguendo con i personaggi di Vociferare)
 
 
Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.

 
Chi dice che di questi tempi tra vicini non ci si conosce affatto, ha perfettamente ragione. Prendete me, per esempio. Non avrei mai sospettato che i miei vicini fossero dei gran ficcanaso.
E io che mi ero trasferito qui per avere un po' di tranquillità e un minor numero di occhi indiscreti attorno, mi ritrovai d'un tratto al centro dell'attenzione.
La riunione era a casa di Arturo, e non era la prima. Capitava spesso che la signora Emilia, la loquace autonominata portavoce di zona, bussasse a ogni porta per avvertirci di una futura assemblea. Di solito il problema era un danno da parte di un ignoto vicino da identificare, un barbecue o una festa a sorpresa da organizzare, una richiesta di aiuto o lo scambio dei prodotti degli orti.
Capitava meno spesso che la riunione fosse una questione della massima urgenza, e che la signora Emilia riuscisse a dire solo due parole prima di trascinarmi fuori di casa.
– Vieni, tu!
Guardai il capanno degli attrezzi mentre la seguivo verso la casa di Arturo. Avevo altri programmi, di cui però non intendevo metterla al corrente.
Quello che sentii in casa di Arturo non fu il solito accavallarsi di voci concitate, bensì un silenzio di tomba e il mormorio flebile di Michele, l'attempato contadino.
– ...che l'ho visto bene, credo, era ancora un po' buio, e prima ho pensato che fosse uno dei ragazzini di Luciana, e l'ho seguito, ma quando siamo sbucati fuori dal campo di mais... vi dico che non camminava come un bambino, era tutto... e sapeva dove andava, vi dico, è andato dritto di là.
Il capannello di vicini che circondava il contadino seduto si aprì, e il suo indice finì col puntare me. Tutti gli altri mi guardarono. Come me, sapevano che Michele non indicava davvero me, ma la direzione di casa mia.
– Si può sapere cos'è questa storia? Che cosa succede?
– È entrato in casa sua – biascicò Michele.
– Oh, Orm... – La signora Emilia mi si piazzò di fronte. – Sono davvero costernata di averti fatto uscire in tutta fretta, ma tu più di tutti lo dovevi sapere. È una questione importante, e santo cielo, sono davvero felice di averti portato via prima che quella cosa ti facesse del male!
Aggrottai la fronte. – Non capisco. Quale cosa?
Naturalmente, immaginavo che cosa Michele pensava di aver visto. Ma avevo bisogno che qualcuno lo dicesse, per impiantare in loro il pensiero di quanto quell'idea fosse ridicola.
Sabina, che sosteneva di essere una veggente, si fece avanti. – Percepisco una presenza ostile tra di noi.
Gli altri bisbigliarono.
– Ha fermato il furgone! – sbraitò Anna. – Lì, di botto, in mezzo alla strada. Tutto d'un colpo è morto. Li ho visti i film, loro fanno così.
– Loro chi? – provai a insistere. Li guardai tutti, uno a uno. Nessuno ebbe il coraggio di dare per primo l'assurda rivelazione.
Poi Alberta gridò. Anche lei, come Michele, puntò il dito, ma non verso casa mia, bensì alla finestra. – Un a... a... a... a... – balbettò.
Sospirai. Possibile che non vedendomi arrivare, fosse uscito dal capanno e fosse venuto a cercarmi?
– Sentite – proposi, visto che nessuno voleva dire quella parola. – Se pensate che ci sia qualcosa a casa mia, andiamo a cercarla tutti assieme. Ma vi assicuro che non troverete nessuna... presenza ostile da me.
Si misero tutti a discutere. La decisione, alla fine, fu che gli uomini sarebbero partiti alla ricerca della creatura, mentre le donne se ne stavano al sicuro in casa di Arturo. Eravamo comunque un numero sufficiente per indurre il mio ospite a una salutare timidezza.
Mentre tornavo a casa in compagnia, guardai il cielo diurno, il cui azzurro celava le stelle. Con dei vicini così invadenti quaggiù, la mia opera di buon vicino di quelli lassù si sarebbe dimostrata assai più difficile di quanto speravo.