lunedì 31 luglio 2017

Questione di tatto

Questo è il momento di andare sul concreto.
Di toccare con mano, o con penna, ogni parola che porti sulla pagina.
Per questo esercizio, ispirato al senso del tatto, avrai bisogno di una mano da parte di qualcuno. Oltre alle tue, di mani, naturalmente.

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Chiedi a qualcuno di nascondere un oggetto in un sacchetto non trasparente. O, se ti fidi, fatti bendare.

Non sbirciare! Assicurati di non riuscire a vedere l'oggetto attraverso la benda o il sacchetto. Questo non è un gioco di prestigio, non c'è trucco e non c'è inganno.

Tocca l'oggetto misterioso. Esploralo con le mani. Scuotilo. Cerca di individuarne ogni caratteristica.

Prova a capirne la forma, se è caldo o freddo, liscio o ruvido, duro o morbido, e così via. Ma non solo. Se ti va, espandi l'esplorazione a qualunque altro senso che non sia la vista. Ascolta se emette un rumore, se sei bendato annusalo, o se non t'importa un pizzico di follia, e davvero ti fidi di chi ha scelto l'oggetto... leccalo!

Descrivi in un breve testo ogni sensazione tattile che hai provato. Anche se hai indovinato di cosa si tratta, non nominarlo. Ma offri a chi legge quanti più indizi possibile per capirlo.

Raccogli le idee e descrivi l'oggetto in un testo coerente. Dai un nome, o un aggettivo, a ogni sensazione. Se hai allargato l'esplorazione ad altri sensi, aggiungi le tue impressioni solo dopo aver esaurito quelle tattili. Non nominarlo mai.
In quante frasi riesci a far indovinare l'oggetto a un ignaro lettore?


Buon divertimento, e mi raccomando, aspetto il tuo testo nei commenti. Proverò a indovinare il tuo oggetto misterioso!

sabato 29 luglio 2017

Tilde

Appena l'ho vista sul dizionario, ho pensato: che bel suono questa parola! Chissà cosa significa...
Sono rimasta un po' delusa nello scoprire che è la definizione di qualcosa di minuscolo, quasi insignificante, e difficile da usare in un discorso, per un italiano.

Tilde [tìl-de] s.m. o f Segno a forma di ondina, caratteristico della grafia portoghese e spagnola, che viene sovrapposto, rispettivamente, a vocale, per indicarne la pronuncia nasale, e alla n, per indicarne la pronuncia palatale.

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Ho però deciso di accettare la sfida, e di provare a scrivere un brano in cui la tilde fosse un dettaglio significativo. Per fortuna avevo, se non i personaggi che sono stati creati per l'occasione, perlomeno il contesto adatto.


Nel quartiere spagnolo, o in ciò che ne era rimasto dopo quella brutta faccenda, si parlava spesso della polvere gialla. Ma piano, a bassa voce, per non attirarne l'attenzione: quelli che la vedevano, sparivano.
A sedici anni, un anno dopo la sua Quinceañera, Nina non era più una niña, eppure continuava a firmarsi con la tilde, come un piccolo sbuffo impaziente sulla sua identità. Forse perché a sua madre piaceva tanto quel vezzo: mi ricordavo come la rimproverava col sorriso e le dava un bacio in fronte prima di partire per il lavoro, se la vedeva sui quaderni di scuola.
A me non piaceva il lavoro di Dora, e non mi piaceva che guadagnasse tanto più di me, ma qualcuno doveva pur pagare le bollette. Lo avevo tollerato, anche se mi pareva contro natura che fosse lei a mandare avanti la famiglia.
Se avessi saputo davvero a cosa lavorava nel suo laboratorio, avrei insistito di più quando litigavamo e mi veniva da dirle che non era giusto, che non andava bene così, che gli uomini giù al bar sparlavano di noi. Di me.
Quella con le palle, in famiglia, era mia moglie. Io non ero niente.
Le chiacchiere non si erano fermate con la morte di Dora. Sapevano tutti che era stata lei a portare la polvere gialla nel quartiere, e si diceva che fosse ancora lei a portarla in giro nel vento, come un fantasma. Se tanta gente era morta, e se continuava a sparire, era colpa sua. E dunque, di riflesso, nostra: mia, e di Nina.
Io non credevo alle storie di fantasmi. Dora era morta. Punto.
Eppure, era strano che tendesse a sparire proprio la gente che ce l'aveva maggiormente con noi.
Fu una mattina d'estate, mentre Nina scriveva le sue poesie durante la colazione, che successe. La sentii gridare, e il quaderno cadere a terra con un tonfo.
– Papà... papà! – urlò Nina, indicando la pagina. Sovrappensiero, si era dimenticata della tilde sulla sua firma sotto l'ultima poesia. Mi chinai.
Sulla enne più piccola, un'ondina di polvere gialla era comparsa a correggere la sua svista.

giovedì 27 luglio 2017

Va' dove ti portano... le lasagne! - Chimera

Secondo brano ispirato dall'esercizio Va' dove ti porta il naso, a mettersi in gioco ancora una volta è un'ospite ricorrente della Piuma, oserei quasi dire un'amica di Piuma: Chimera!

Uh... volevo intenderlo come battuta ma mi sono ricordata solo dopo che la chimera è tra le poche bestie mitologiche greche a non avere neanche mezzo artiglio di pennuto, a differenza di arpie, grifoni, Pegaso, fenici, sirene e Sfinge (quelle greche). Non importa, andiamo avanti.

Non c'è due senza tre, ed ecco dunque Chimera tornata alla carica con un testo fatto apposta per l'ora di cena. Ha scelto la prima parte dell'esercizio, quindi se con il mio racconto c'era da tapparsi il naso, con questo ci sarà da aprire bene le narici e respirare a pieni polmoni.

Ti ricordo che il prossimo ospite della Piuma potresti essere tu! Come si fa? Semplice: segui gli esercizi che propongo a lunedì alterni e prova a scrivere il tuo brano!
E ora, la parola a Chimera:


Sono davanti al computer a scrivere... sono super mega concentrata! In inverno amo accendere candele profumate o far evaporare l'acqua essenziale... mi aiutano a concentrarmi insieme alla mia amata musica... ma questa stagione porta in casa qualcosa... una bomba dal nome pasticciato ma dal profumo... fotonico!
Comincia tutto con l'intenso profumo del ragù: e d'un tratto la menta dell'acqua essenziale diventa un fastidio... spengo la candela e apro di più la porta... per 4 ore mi inebrio di questa carezza soave e cremosa... di spezie e sugo...
Poi la farina... con il latte e il sale: quasi non la senti ma se manca è un disonore... uno strato sopra l'altro con la pasta sfoglia, piselli e formaggi... fino alla favolosa altezza di cinque centimetri: neanche lo avessi davanti agli occhi! Poi tutto in forno... io non vado in cucina: se ci andassi che non è pronto, mi metterei a fissarlo per tutto il tempo...il grana fa la crosticina... la mozzarella si scioglie... la pasta cuoce... un profumo che ha riempito ogni inverno della mia vita... e che non si limita solo alla stagione!
"Va' dove ti porta il cuore..."
Beh, io adesso vado dove mi porta il mio stomaco!
PASTICCIO STO ARRIVANDO!!!!!

lunedì 24 luglio 2017

Un fiuto eccezionale

(racconto ispirato dall'esercizio Va' dove ti porta il naso. Ho scelto di svolgere la seconda parte dell'esercizio, ma da un personaggio/punto di vista non umano)

 
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Avere il naso fino in questo posto è una maledizione. Non posso fare un passo fuori dalla soglia della mia casa – perfettamente deodorata e confortevole per le mie narici – che vengo sopraffatto dalla miriade di olezzi che permeano le vostre città. Tanfo di fogna, di urina e di feci di cani e guano di piccioni. Sudore in infinite variazioni di fragranze e intensità. Catrame arroventato dal sole e gomma di pneumatici. I miasmi mefitici dello smog. E che dire di ciò che chiamate “cibo”? Mi meraviglia che riusciate a metterlo in bocca, da quanto puzza.
Camminare per strada, per me, è un’impresa. Ma non è nulla a confronto del dover entrare in un edificio, in particolare un alto palazzo, e dover salire fino all’ultimo piano. Lungo la via, all’aria aperta, gli odori si disperdono. All’interno di uno spazio chiuso, soprattutto se angusto, ci rimangono e sembrano moltiplicarsi a dismisura, rimbalzando tra le pareti. Per questo solitamente non prendo l’ascensore, il più ristretto degli spazi, e preferisco invece salire le scale. Salvo quella volta che mi si è aperto davanti, vuoto. Mi sono bloccato. Salire trenta piani di scale a piedi solo per andare a richiedere un documento in un ufficio mi è sembrato d’un tratto uno spreco d'energie. Ho messo dentro la testa, annusato, e storto la bocca. L’odore di una sfilata di varia umanità era forte, ma sopportabile. Ce la posso fare, mi dissi. Basta trattenere il fiato e schiacciare il pulsante.
Ho preso un bel respiro, sono entrato, e ho scelto rapidamente il tasto corrispondente al mio piano. Le porte si sono chiuse, imprigionandomi assieme al lezzo. Non avevo fatto neanche un paio di piani che l’ascensore si è fermato, le porte si sono aperte, ed è entrato un grassone dalle ascelle pezzate e la fronte madida. Mi sono tirato indietro alla zaffata fetida. Perfino il suo alito sapeva di sudore, quando mi ha chiesto: – Sale?
Mi sono addossato alla parete dell’ascensore, e non ho saputo far altro che annuire, trattenendo il fiato. L’uomo si è voltato, ha schiacciato un pulsante al centro della tastiera, e l’ascensore è ripartito. Ho tossito, e ho approfittato del fatto che non stava guardando per tapparmi il naso. Ho contato i piani che mi separavano dalla liberazione, anche se già sapevo che il suo fetore avrebbe ammorbato l’aria del piccolo ascensore anche quando se ne fosse andato. I numeri scorrevano lenti sul contatore luminoso sopra la porta. E poi è accaduto.
Con un ronzio che si smorzava e una lieve decelerazione che ci ha fatto sobbalzare, l’ascensore si è bloccato.
– No… – ho mugolato disperato, scivolando a terra lungo la parete. – No, no, no, no…
La sua puzza nauseabonda già mi bruciava le narici e la gola, e quello che fa, si è girato e si è avvicinato?
Sì, si è girato e si è avvicinato, cercando di rassicurarmi: – Claustrofobico, eh? Non si preoccupi, verrà qualcuno a farci uscire tra una decina di minuti, un quarto d’ora al massimo. Succede sempre.
– Un quarto d’ora? – ho sbottato incredulo. Mi sono tappato il naso e la bocca con entrambe le mani, cercando di filtrare l’aria irrespirabile della stretta cabina. – Per favore… ho bisogno di spazio…
Quello ha annuito ed è arretrato. Lasciamo pure che mi creda in panico perché ho paura dei luoghi chiusi e ristretti, mi sono detto, se serve a tenerlo lontano da me il più possibile. E mi sono ripromesso di non farmi allettare mai più da una simile trappola mortale: la prossima volta, meglio le scale!

sabato 22 luglio 2017

Stamberga

Tra le tante parole che indicano lo stesso concetto (baracca, tugurio, catapecchia, spelonca, bicocca, topaia) stamberga mi sembra la meno spregiativa. E mi ricorda la parola stambecco. Questi i motivi strampalati per cui l'ho scelta!

Stamberga [stam-bèr-ga] s.f (pl. -ghe) Abitazione squallida, misera, inospitale.

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Ho costruito l'idea per il brano pensando a che motivo potessero avere due personaggi, che immaginavo uno maschile e uno femminile, per andare in una stamberga. Tra le varie possibilità (esplorazione, sfida, invito...) mi è venuta subito in mente la fuga. E da lì ho identificato i personaggi, e solo a metà brano mi sono resa conto di una somiglianza con quello di sabato scorso: oh no, un'altra sacerdotessa! Ma ormai era troppo tardi per cambiare idea.


La terza sera dall'imboscata, sulle Colline di Giada, Will mi condusse a una stamberga costruita con pietre piatte, priva di finestre e delle porte per chiudere i due varchi nelle pareti, ma con un tetto e un angolo adibito all'accensione del fuoco. Il ragazzino sembrava avere ripreso la voce che gli era mancata negli ultimi giorni.
– Eccoci qui, siamo arrivati! Qui puoi dormire al sicuro, te l'ho promesso, no, che ti portavo al sicuro? – Will batté la mano sulla parete esterna della casupola. – Possiamo restare qui qualche giorno prima di ripartire verso nord, lo so che non sembra, e che a confronto della tua vecchia casa a Laeverth è molto molto poco, ma questo posto è bellissimo, lo giuro! Era  il capanno di caccia dello zio Alvàr, ci sono venuto spesso qui, con lui e con mio papà...
Will tacque, chinò il capo e poco dopo tirò su col naso. Riuscivo a immaginare a cosa stesse pensando, ma non avevo parole di conforto per lui. Io stessa avevo perso tutto.
Guardai l'orlo della mia veste bianca, insudiciato da giorni di viaggio. La mia vecchia casa a Laeverth, aveva detto Will. Il Grande Tempio, l'ultimo posto dove mi fossi sentita felice e al sicuro.
– Sacerdotessa! – mi chiamò Will da dentro la stamberga. Il cielo della sera si stava oscurando e presto i demoni sarebbero usciti dalle loro tane. Quel luogo non era sicuro, ma non avevamo di meglio.
– Vieni a vedere, presto! Ho trovato un arco: ora ti posso difendere, vedrai, non dovremo più scappare...
– Will. Una freccia comune non può scalfire quelle creature – gli ricordai. Vidi il suo entusiasmo crollare come le mura di Laeverth il giorno dell'attacco, ma che avrei dovuto fare? Nessuna bugia pietosa da una sacerdotessa di Endera.
Sbirciai il falcetto dalla lama dorata che tenevo appeso alla cintura. Era stato solo uno strumento cerimoniale per la raccolta delle erbe, fino a tre giorni prima.
Il padre di Will mi aveva affidata a lui con il suo ultimo respiro, ma ormai non sapevo più chi di noi stesse proteggendo chi.

giovedì 20 luglio 2017

Aver fiuto per la scrittura

L'olfatto è il più ineffabile dei sensi. Gli odori sono difficili da descrivere a parole. Sfuggono alle definizioni.

Ovvio, se ne conosci la fonte, puoi sempre identificarli nominandola. Profumo di gigli. Aroma di caffè. Tanfo di fogna. Se sono odori noti sia a chi scrive, che a chi legge, tutto bene. Ma come si fa quando il tuo narratore si ostina a descrivere olfattivamente il salone di un castello con le parole "fragranza di fata" o "fetore della tana di un troll"? Non è cosa da tutti avere una fata o un troll sottomano da poter annusare per rinfrescarsi la memoria.

Se pensi agli altri sensi, ti verranno subito in mente definizioni esatte e comprensibili. Persino per il gusto: dolce, salato, aspro, piccante, sono termini che ti può capitare di pronunciare nella vita di tutti i giorni. Quanto all'olfatto, forse è una mia impressione, ma mi sembra che il lessico, che pure esiste, sia rimasto un po' confinato agli addetti ai lavori. I profumieri: fruttato, fiorito, agrumato... I sommelier: tannico, oltre a tutti i paragoni con frutta e fiori. Ma i paragoni sono appunto ciò che rimane ai non addetti ai lavori per descrivere un sentore sconosciuto che raggiunge le loro narici: "un odore come di plastica nuova... hai presente? Ma anche un qualcosa di più delicato, come un fiore... tipo fresia, ecco."

Il senso dell'olfatto trasposto sulla pagina solleva un altro problema, oltre a quello del riuscire ad afferrarlo e a metterlo dentro una serie di parole. Ed è una certa timidezza nell'inserire in una storia il lato più sgradevole dello spettro di ciò che può capitare di annusare. Nessuna remora nel descrivere una visione orrenda, un suono stridente, un dolore atroce o un sapore disgustoso. Con meno frequenza leggo pagine di autori che si soffermano su ciò che i nasi dei loro personaggi devono subire mentre si rifugiano nelle fogne, o attraversano la Palude della Morte. E il giorno che mi è capitato in mano il libro che continuamente mi ricordava quanto poco profumata fosse l'atmosfera attorno alla protagonista, ho anche letto una recensione che lamentava proprio l'enfasi del romanzo sugli odori meno gradevoli. Nessuno ha la macchina del tempo per verificare, ma dubito fortemente che nel medioevo gli accampamenti di mercenari e i campi di battaglia profumassero di fiori.

L'olfatto è il più ineffabile dei sensi, ma è anche il più ancestrale, e nel cervello è più di altri collegato ai ricordi. Basta un effluvio indefinibile ad aprire un baule di memorie che credevi perdute. Basta anche solo immaginarlo, a rammentarmi della mia insegnante di italiano alle medie, che ci teneva i pomeriggi sui banchi a riempire quaderni di elenchi di verbi, nomi e aggettivi legati ai cinque sensi, sì, anche all'olfatto, per poi inventare righe e righe di frasi d'esempio. Su quegli elenchi ho costruito chi sono oggi, e grazie anche a insegnanti come lei ho imparato ad amare la varietà della lingua italiana.

Ora scusami, ma devo andare alla ricerca di un quaderno.

lunedì 17 luglio 2017

Va' dove ti porta il naso

Questa settimana ti invito a lasciarti ispirare dal tuo naso.

E ti propongo non uno, ma ben due esercizi. Puoi scegliere quello che preferisci sviluppare, o provarli entrambi.
Questo è il primo, ideato per un odore (si spera) piacevole:

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Pensa a un profumo del tuo passato. Torna ad annusarlo adesso, se puoi, o cerca di rievocarlo nella tua mente.

Può essere il profumo di un fiore che hai ricevuto da una persona speciale, l'odore della cucina di tua nonna, la tua fragranza preferita, o l'aria che hai respirato durante una vacanza, che sia in montagna o al mare. O qualsiasi altra sensazione olfattiva ti torni in mente, purché abbia un qualche significato per te.

Quali ricordi ti riporta alla mente? A quali sensazioni lo associ, cosa pensi quando ti stuzzica le narici?

Qualunque cosa ti faccia venire in mente, anche se apparentemente non collegato, annotalo.

Descrivi il profumo e il tuo ricordo, con ogni senso possibile.

Usa le tue annotazioni per creare il brano, cercando di organizzarle in un percorso sensoriale. Non limitarti all'olfatto, ma componi un'esperienza per quanto possibile completa, coinvolgendo vista, udito, gusto e tatto.

Puoi scegliere il tuo punto di vista, o quello di uno dei tuoi personaggi.

Se non ti senti a tuo agio con un brano autobiografico, o preferisci scoprire cosa potrebbe venir fuori usando la fantasia, puoi cercare di scrivere il testo dal punto di vista di un personaggio, immaginando le associazioni con il profumo scelto invece di ricordarle.

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Il secondo esercizio che ti propongo è tratto dal blog "Scrivere creativo", e riguarda il lato sgradevole dell'olfatto. Eccolo qui:

Immagine/esercizio tratto da Scrivere Creativo sotto licenza Creative Commons 3.0.
 
 
Sei in ascensore, arriva una persona che puzza terribilmente.
L'ascensore si blocca.
Descrivi in 400 parole (opzionale, per me).
 
Puoi trovare l'esercizio qui: https://scriverecreativo.net/2014/01/11/32/
E, se ti ha ispirato, puoi continuare a cercarne altri.
 
 
Ma per ora segui il tuo naso, divertiti, e ricordati di postare il tuo racconto nei commenti!

sabato 15 luglio 2017

Refolo

Curioso che mentre scrivo questo post ci sia effettivamente una brezza fresca che mi arriva al viso dalla finestra di fronte. Che mi abbia influenzato nella scelta della parola? Sì, è possibile. Eccola qui:

Refolo [rè-fo-lo] s.m. Soffio di vento improvviso, folata.

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Trattandosi di vento, avevo il giusto personaggio e la giusta storia fin da subito, senza dover scartabellare tra i miei appunti. Stavolta non è stato difficile trovare un'ambientazione che rendesse giustizia al termine.


Non ho mai avuto paura dell'altezza.
Stare in piedi sull'orlo del dirupo è una cosa naturale per me, oggi come allora. Mia madre sarebbe morta di paura se mi avesse visto, quel giorno, strisciare i piedi sulla roccia fino a far sporgere gli alluci nel vuoto. Dicono di non guardar giù, ma che divertimento c'è se non lo fai?
L'abisso era un vortice di nebbia che offuscava i tetti della città. Riuscii a scorgere gli spioventi rossi del Tempio del Fuoco, l'edificio più imponente della capitale, e forse l'isola sede del Tempio dell'Acqua, al centro del lago a ovest. Quanto al Tempio della Terra, non sapevo di preciso dove fosse e non m'importava.
Io ero al di sopra di tutti loro.
Il cielo era immoto e caldo, prigioniero del sole del meriggio. Allungai un braccio e attorcigliai un po' d'aria attorno all'indice, come quando si arrotolano i capelli. Tirai verso di me e un refolo fresco sorse ad accarezzarmi la pelle, sollevare le ciocche più corte ai lati del viso e suonare una melodia con la seta leggera della mia gonna frusciante.
A volte sognavo di essere una nuvola. Di potermi sollevare da terra e volare via, libera, nel vento.
Chiusi gli occhi e allargai le braccia, e fu allora che lo sentii. Più irregolare del costante soffio del refolo nelle mie orecchie, come un drappo scosso dalle folate. Qualcosa di soffice e caldo si abbatté sulla mia caviglia.
Aprii gli occhi e balzai indietro. Ma era solo un giovane falco, poco più che un pulcino, che respirava in affanno dal becco dischiuso. Lanciò un verso acuto, e io provai a imitarne il suono.
– Syuss. Ti chiami così, piccolo? – Mi sedetti sui talloni. – Io sono Lyla. Ti sei perso? Dov'è la tua famiglia?
Scrutai il cielo, ma non c'era traccia di altri della sua specie. Allora presi il rametto spezzato di un faggio e ce lo feci salire.
– Andiamo, su, ti porto da Zefiro. Lui è il Sacerdote del Vento, sa tutto sulle correnti. Ti aiuterà a ritrovare la strada – mormorai al falchetto che dondolava sul ramo a ogni mio passo cauto e lento.

giovedì 13 luglio 2017

Il piatto preferito

(racconto ispirato dall'esercizio Assaporare un concetto. Ancora gusti ed emozioni/peccati, ma da una diversa prospettiva)

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Fissai Belial, che ricambiò il mio sguardo da oltre il tavolo della cucina. Appoggiai il mento sulle braccia conserte e mugugnai. Da seduto, i miei piedi ancora non toccavano terra se non con la punta delle scarpe, se mi allungavo un po'.
– Non avere fretta, ragazzino – mi disse Belial, con voce stridente eppure sensuale. – Troverai il tuo... piatto preferito. Lo troviamo tutti.
Intendiamoci: Belial, a differenza di me, non era costretto a mangiare. Non era una metafora che avrebbe usato, quella culinaria, se non fossi stato io a descrivergli così ciò che provavo nel soddisfare la metà di me che non era umana. Perché era così che l'avevo percepito, fin dalla prima volta, fin da quando Belial mi aveva portato in mezzo agli umani della mia età e io avevo sentito distintamente, come se fosse stata reale e concreta sulla mia lingua, la gelosia tra fratelli. Ero riuscito a esacerbarla e a godermi, mentre fioriva, il suo sapore piccante, come il curry del riso all'indiana che Belial aveva portato a casa per me la settimana prima. E da allora ho sempre percepito la gelosia, che fosse tra amanti, tra fratelli o altro, come corposa e speziata cucina indiana. L'invidia, che molti confondono con la gelosia, era invece più nordica, più magra, con abbondanti tracce di sale e di pesce, come il salmone affumicato
Ma nessuna delle due era il mio piatto preferito, nessuna mi soddisfaceva appieno, e a causa della metà di me che era umana, temevo che non avrei mai trovato ciò che cercavo.
Quel giorno me lo ricordo bene. Belial e io eravamo appena tornati da una visita a uno dei quartieri malfamati di una città di cui non posso fare il nome, poiché ancora oggi la frequento. Belial aveva indossato una delle sue pelli preferite, ed eravamo una strana coppia: una prostituta e un bambino che camminavano a testa alta come se il mondo gli appartenesse. E in parte era così.
Belial mi aveva condotto ad assaggiare alcuni tra i suoi peccati "di gola". Prima avevamo fatto visita a quella che avrei potuto definire una casa di piacere, non fosse stato che io ne avevo tratto ben poco gusto. Là scoprii che la lussuria era per me come la cucina crudista: verdure insipide e legnose, tutto nutrimento e niente sapore, che non mi saziavano affatto. Non era quello di cui avevo bisogno come infero, ed ero troppo giovane per apprezzarlo come umano.
Poi Belial mi aveva condotto quasi nel mezzo di un litigio tra bande rivali. La violenza alimentata dalla rabbia era dolce, ma di quel dolce che dopo il primo assaggio mi aveva già stancato, come acqua zuccherata versata a forza nella mia gola. Nemmeno l'occasionale spruzzata di paura di coloro che fuggivano, o che rimanevano a terra agonizzanti, poteva stemperarla: era come aggiungere aspro succo di limone. Un mix rinfrescante, ma non avrei potuto vivere solo di quello.
E l'astuzia, la manipolazione che Belial adorava sopra tutto, era una cucina dai sapori troppo ricercati per il mio palato. Gusti strani, quasi sintetici, che non avrei saputo definire.
– Ho ancora fame – dissi a Belial, tornati a casa. – Posso andare da qualche parte?
– Ricorda le regole. Dieci minuti, ragazzino.
Dieci minuti nel mondo esterno, questo era il massimo che Belial mi concedeva quando mi muovevo da solo. Questo era il massimo che poteva avere qualcuno come me, con una condanna a morte sulla sua testa da prima ancora di nascere. Non ero in grado di nascondermi a loro, e più tempo passavo lontano dalla protezione di Belial, più aumentava il rischio che mi trovassero.
Mi ero infilato in quel posto, tra musica e alcool, sperando in una rissa al sapore di meringa. Invece, trovai qualcos'altro.
Il primo impatto fu rinvigorente, amaro e gustoso come una tazza di espresso italiano.
Dicono che sia la cucina migliore al mondo. Ho avuto occasione di assaggiarla: non è male.
Ma quello era ancora meglio. Una varietà di sapori diversi, verdure condite con olio di oliva e arrosto in un intingolo di mele  e pasta al ragù e oh... era come un pranzo completo, un pranzo al contrario che mi lasciò satollo e soddisfatto come non mi era mai accaduto.
L'esaltazione della folla. Quella follia collettiva, come una marea montante a ogni nota, quel fanatismo cieco che avrei potuto controllare e dirigere con le mie canzoni, se solo ci fossi stato io sul palco.
Sorrisi, forse per la prima volta nella mia vita, mentre mi giravo e tornavo a casa. Avevo trovato il mio piatto preferito, e negli anni a venire avrei saputo come trarne il massimo godimento.

lunedì 10 luglio 2017

I gusti del vivere

(racconto ispirato dall'esercizio Assaporare un concetto. Ho scelto di associare gusti ed emozioni)

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Dolce e zuccherina è la gioia, con un lieve sentore di vaniglia. La tristezza invece sa di sale, di lacrime e di mare invernale. La paura è acida, al culmine ha il sapore acre della bile ma quando passa lascia in bocca il gusto asprigno del limone, che a dosi moderate può piacere. La rabbia è calda e piccante, con un sapore persistente di peperoncino che più tento di placare e più pizzica la lingua: forse è proprio per questo che quando lo sento non riesco a tenere la bocca chiusa e mi sfuggono parole pesanti.
La sorpresa è indefinibile e mutevole, o meglio ha tanti gusti quanti sono i motivi che la provocano, dal dolce all’amaro, dall’insipido al saporito. La mia preferita è quella che sa di menta, fresca e spontanea. È un peccato che il gusto della sorpresa svanisca tanto in fretta.
Il più duraturo e piacevole di tutti è però il sapore dell’amore. Come il cioccolato, dopo il primo morso non posso più farne a meno. È dolcissimo e morbido, al latte, non appena mi scopro innamorata. Col tempo assume più corpo e sostanza e coi primi baci diviene croccante, alle nocciole. Fondente è l’amore sicuro di sé stesso. Ogni giorno ha un aroma diverso: all’arancia, gianduia, al caffè… c’è un’ombra di peperoncino quando si affaccia la gelosia e nella furia delle litigate.
E se finisce l’amore, il gusto resta. È il fondente più nero del ricordo, che fodera la lingua e il palato col suo aroma dolceamaro che non posso e non vorrò mai lavar via.

sabato 8 luglio 2017

Quadrivio

Ogni volta che arrivo alla lettera q mi prende un po' d'ansia. Quale termine posso scegliere che non sia banale come quadro o ristretto a una singola branca scientifica come quantico? Con questo, penso di aver trovato un buon compromesso!

Quadrivio [qua-drì-vio] s.m. (pl. -vi) 1 Punto in cui due strade si incrociano. 2 L'insieme delle quattro arti che, nel sistema scolastico medievale, costituivano il gruppo scientifico (aritmetica, geometria, astronomia, musica).

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Una parola simile sarebbe più comune in un'ambientazione storica o fantasy, eppure mi piacciono le sfide, così ho deciso di trasporla in ambito moderno e scoprire se può funzionare in quel contesto.


La donna sul sedile del passeggero si voltò indietro. Non vide nulla del retro del furgone.
Strinse la borsetta, tornò a fissare la strada e lo rimproverò: – L'hai lasciata da sola, al buio.
– Non ha bisogno della luce – replicò Jeremy.
– Certo – mormorò Virginia. Serrò le labbra in una linea rossa, sbirciò l'uomo al volante e aggiunse. – Bimbo, sai qual è il problema? Se continui a trattarla come una donna di latta, non sarà mai altro che questo.
– Non puoi dirmi come fare il mio lavoro. A meno che tu non sappia qualcosa di reti neurali artificiali e circuiti decisionali e...
– Svolta a destra, qui – lo interruppe la donna.
Jeremy curvò le spalle e ringhiò in gola. – Si può sapere da quando sei diventata il mio capo?
– Da quando hai accettato i miei soldi – rispose Virginia, accennando un sorriso.
Jeremy si immise nella corsia di destra.
– Ti sei mai chiesto perché abbia scelto la musica? – domandò lei con voce languida, adocchiando l'autoradio spenta. – Tu affermi che era il suo slancio creativo, il suo lato umano, qualcosa di assolutamente inconcepibile per un robot.
– Androide – la corresse lui.
Virginia gli rivolse un'occhiata annoiata. – Ma non ti è mai venuto in mente che la musica è anche matematica. Oggi la consideriamo soprattutto una forma d'arte, ma in passato era una delle materie del quadrivio.
Il semaforo divenne verde. Jeremy partì e accennò alla strada davanti a loro. – Quadrivio. Intendi, l'incrocio?
– No. Intendo le quattro discipline scientifiche del medioevo: aritmetica, geometria, astronomia e... musica. Dovresti saperlo, sei uno scienziato. – Virginia guardò i lampioni che sfilavano fuori dal finestrino, allontanandosi alle loro spalle.
Jeremy rimase in silenzio per un buon tratto di strada. Alla fine affermò: – Sai, forse non hai tutti i torti. E io che pensavo che t'intendessi solo di creme e rossetti.
Virginia sospirò e scosse la testa. – Uomini. Vi serve sempre una donna per notare l'ovvio!

giovedì 6 luglio 2017

Scritto e gustato!

Fra tutti i sensi, il gusto è probabilmente il meno rappresentato tra le pagine.

A meno di non avere fra le mani un libro di cucina. Quando si tratta di storie e personaggi, il gusto compare in una descrizione solo in caso di colazioni, pranzi, cene, spuntini o assaggi. O nel bel mezzo di una scazzottata quando, dopo aver incassato un pugno, Jeff sentì in bocca il sapore metallico del sangue. Gusto che può andar bene anche se si scrive di un vampiro, ma così si ritorna a cene e spuntini e si chiude il cerchio.

Per l'esercizio di lunedì, Assaporare un concetto, avrei potuto proporre di descrivere o ambientare una scena durante un pasto. Ma in questo caso, dentro quel cerchio ci sarei rimasta.

Avrei potuto prendere spunto da un esercizio che ho trovato altrove, e che richiedeva di descrivere il proprio cibo preferito usando tutti i sensi, tranne il gusto. Può risultare un esercizio interessante, soprattutto considerando di dover giustificare, nel testo, il motivo dell'assenza (è un sogno? un piatto altrui? il personaggio ha le papille gustative bruciate? o è un androide?). Così però avrei perso il punto dell'esercizio, ovvero di aumentare la presenza del gusto nella descrizione, non di annullarla.

Per uscire dal cerchio ma mantenere il senso, era necessario qualcosa di un po' folle. Fuori dall'ordinario. Dare sapore a quello che nemmeno si può toccare.

Potresti pensare che sia un esercizio futile in termini di una storia, giusto una prova di stile. Un gioco che non entrerà mai a far parte di un racconto. Ti sbagli.

Senza arrivare a scrivere di un personaggio dotato di una forma di sinestesia che coinvolga il gusto (e ce l'ho... non mi faccio mancare nulla!), i sapori possono servire a dare concretezza a concetti altrimenti inafferrabili. Ecco alcuni esempi presi dal blog e dal romanzo che sto scrivendo, alla sua ultima fase di editing.

Il gusto può rivelare un incantesimo: "...ma lo sento, il turbine di rabbia che la circonda. Ha increspature elettriche e un sapore amaro."

Evocare uno stato d'animo: "Cerco nei meandri della mente una di quelle volte di cui non ho memoria, cerco il sapore del sangue, cerco la furia."

Dare il senso di una condizione di spossatezza o malessere: "...si umettò le labbra screpolate. Aveva uno sgradevole sapore in bocca, di polvere e marcio."

Senza dimenticare le metafore che coinvolgono questo senso:
"...non avrai fatto del male a nessuno, e sarà stato soltanto uno scherzo di pessimo gusto."
"Lo schermo però non ha lo stesso sapore della carta, non ha la stessa concretezza e non mi dà lo stesso piacere dello scorrere di una penna."
"Cantare dà sapore alle cose."

Giusto per citare alcuni esempi. Ma l'impiego di questo senso al di fuori dell'ambito "cibo" non si ferma qui, ed è limitato solo dalla fantasia di chi scrive.

Ora tocca a te. Il tuo personaggio "mangia libri di cibernetica e insalate di matematica"? Divora i giorni di lavoro per arrivare più in fretta al fine settimana? "Assaggia l'arcobaleno"? O è un perfido demone che si diverte a insinuare nell'animo umano i più torbidi vizi, per poi gustare il frutto di quei peccati quando sono maturi?
Qualunque sia il suo "piatto preferito"... coraggio, racconta!

lunedì 3 luglio 2017

Assaporare un concetto

È il momento di passare dalle orecchie alla lingua.

Se ti sembra strano, aspetta di leggere l'esercizio che ho preparato per il senso del gusto:

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 
 
Scegli una serie di elementi astratti (numeri, vocali, note, giorni della settimana, peccati o virtù…).

Puoi scegliere qualunque cosa tu desideri, seguendo questi due criteri: non deve essere una serie troppo lunga, o se lo è, prendi solo alcuni degli elementi che la compongono; assicurati che non siano oggetti materiali. Se nella realtà non li puoi leccare, allora vanno bene.

Associa a ciascuno di essi un gusto.

Puoi basarti sui classici "dolce, salato, amaro, aspro, piccante" o elaborare di più, come fossero veri e propri manicaretti ricercati. L'associazione è puramente basata sulla tua fantasia e sul tuo gusto personale, e non esiste giusto o sbagliato.

Scrivi un brano in cui qualcuno (tu o un tuo personaggio) li assapora.

Che sia un banchetto o semplicemente uno spuntino, assicurati di permettere al lettore di sentire sulla punta della lingua ciò che descrivi. Sii preciso nella scelta delle parole: d'altra parte, sono gli ingredienti della tua ricetta. Dosali bene.


E quando il testo è cotto a puntino, servilo nei commenti qui sotto. Aspetto di poter assaggiare la tua opera, e di sceglierne una per metterla in menù come piatto del giorno, giovedì della prossima settimana!

sabato 1 luglio 2017

Princisbecco

Esistono parole che derivano dai nomi di persone che hanno scoperto o inventato qualcosa. Parole che poi hanno superato in fama il loro ideatore.
Conoscevo già questo termine, ma prima di oggi non sapevo nulla del signor Christopher Pinchbeck, orologiaio londinese del diciottesimo secolo.

Princisbecco [prin-ci-sbéc-co] s.m. (non com. pl. -chi) Lega di rame, zinco e stagno, di aspetto simile all'oro.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Un termine che indica un surrogato dell'oro, usato per imitazioni a basso costo così come per truffe da parte di gioiellieri disonesti? Era quasi obbligatorio che questo brano fosse tutto per lei (va bene, anche un po' per la sua "famiglia". Ma soprattutto per lei).


Il vecchio soppesa le monete sul palmo della mano. Lo fa ogni volta che io e il Furetto gli portiamo il bottino della giornata. Di solito arriccia le labbra, assesta una pacca sulle spalle al suo preferito e a me dice solo "ben fatto".
Non fa niente di tutto questo, stavolta.
Qualcosa non va.
Qualcosa non va proprio oggi che il Furetto gli ha detto che sono stata io a prendere le monete! Ero così contenta che glielo avesse detto, e invece avrei dovuto sapere che quello stupido di un Furetto aveva qualcosa in mente: si faceva bello col vecchio anche quando ero stata più brava di lui.
Lo guardo, lui e quel suo brutto sorriso sotto il naso storto. Afferro un sassolino da una crepa e glielo tiro. La pietruzza lo colpisce a una gamba e lui mi sorride ancora di più.
Quando fa così mi sale una voglia di saltargli addosso e morderlo e prenderlo a pugni...
Ma non posso adesso, perché il vecchio si avvicina e mi parla con quella voce, quella che mi fa paura. Quella dolce. Quella della sedia e degli spilli.
– Mia cara, carissima Vixen, mia astuta Volpe. Te lo ricordi quello che ti avevo detto sulle monete di princisbecco, vero?
Annuisco, accucciata sul selciato. Traccio con un dito i solchi tra le pietre. Sbircio in su. Il Corvaccio mi fissa.
– Che sembrano fatte di oro – sussurro.
Il vecchio stringe le monete nel palmo. – E...
– Che sono... più leggere?
Lo vedo alzare le mani e mi riparo la testa con le braccia, gridando mentre le monete mi colpiscono la schiena. Mi afferra per un braccio e mi solleva da terra, e io so che dimenarmi non serve a niente, perciò sto ferma, e quando lui tira indietro la mano e fa per darmi uno schiaffo, io inclino la testa e gli offro la guancia.
È una sfida.
Avanti, provaci. Colpisci.
Ormai lo conosco e so che non ci proverebbe mai a rovinare le nostre facce da angioletti di strada.
Il Corvaccio grugnisce, mi mette giù e ordina: – Raccogli quella robaccia di princisbecco. Non sei furba, Vixen, ma sei fortunata: forse possiamo farci qualcosa di buono da vendere.