lunedì 29 gennaio 2018

Vorrei... ma non posso

Buongiorno, esploratore di intrecci!

Con la missione di oggi raggiungerai il fulcro di ogni storia: il conflitto! Ti esorto, senza paura e senza indugio, a camminare tra i venti del ciclone, a gettarti tra le fiamme, ad addentrarti nella zona di guerra, ad affrontare cento suocere... ma solo metaforicamente e con la penna, s'intende.

La tua missione di oggi sarà scoprire che cosa vuole un personaggio... e poi mettergli i bastoni tra le ruote.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
 

Ogni storia ha bisogno di un protagonista con un obiettivo e almeno un ostacolo sulla sua strada.

Senza obiettivo, il protagonista non avrebbe motivo di muoversi, di fare qualcosa o di cambiare (se stesso o il mondo). Senza ostacoli, l'obiettivo verrebbe raggiunto subito, e la storia finirebbe alle prime pagine.


Scegli un obiettivo e un ostacolo dalle liste che ho preparato, o lancia il dado per una scelta casuale

Gli elementi della lista sono volutamente generici, così da potersi adattare a vari tipi di storie, combinazioni e personaggi. A te renderli più specifici e dettagliati nel tuo brano.


OBIETTIVI:

1 Salvare qualcuno o qualcosa

2 Sconfiggere l'antagonista

3 Ottenere il lavoro dei propri sogni

4 Essere amato

5 Vincere una competizione

6 Risolvere un mistero


OSTACOLI:

1 Un rivale che cerca di raggiungere per primo l'obiettivo

2 Un consiglio che rimette tutto in discussione

3 Un equivoco che porta il protagonista e/o altri fuori strada

4 Un difetto del protagonista che può impedirgli di ottenere ciò che vuole

5 Un aiuto non richiesto che complica le cose

6 Scagnozzi che vengono inviati a ostacolare il protagonista


Come reagirà il tuo personaggio di fronte a quell''imprevisto? Scrivilo!

Non vedo l'ora di scoprire che cosa verrà fuori, soprattutto dalle combinazioni più astruse! Fai una prova, posta il testo nei commenti, e soprattutto, buon divertimento!

sabato 27 gennaio 2018

Abbrivo

Il mare, e la vita in mare, ha tutta una serie di termini particolari, da conoscere se si vuole ambientare una vicenda tra le onde dell'oceano. Ricomincio dalla A con uno di questi, che tra l'altro è uscito dai confini del suo uso per entrare in quello comune, almeno in senso metaforico.

Abbrivo [ab-brì-vo] o abbrivio s.m. (pl. -vi) 1. Spinta iniziale impressa a un'imbarcazione o a qualsiasi veicolo . 2. fig. prendere l'abbrivo, prendere la rincorsa, lo slancio.

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Pensando al termine abbrivo, e a una barca in senso proprio o figurato, mi sono venute in mente tre situazioni diverse: una enorme, una di media grandezza, e una minuscola. Ho cercato di metterle insieme in questo brano.


Gli oblò non erano veri oblò. Erano schermi, ma io li fissavo come se davvero fossero finestre sull'esterno. E vedevo qualcosa che fino ad allora pochi avevano avuto la fortuna di guardare, solo che loro erano tornati indietro per raccontarlo. Noi non avremmo più rivisto quel mondo blu e azzurro, i profili dei continenti, le luci che tracciavano il reticolo di città e strade, di relazioni umane. Unito e senza confini, ma così piccolo di fronte a ciò che stava per travolgerlo.
Noi saremmo morti altrove, nello spazio, esuli. Era il prezzo da pagare per dare ad altri un futuro in una nuova terra.
Fissavo gli oblò cercando di imprimermi in mente l'ultima immagine della nostra casa. Mi chiesi se si fosse sentita così anche mia madre, il giorno che salimmo con zio Noah su quella zattera di legno - difficile chiamarla barca - e lei mi strinse la mano mentre zio Noah spingeva via col remo il pontile del molo e spiegava la vela, e la nostra imbarcazione prendeva l'abbrivo verso l'immenso mare aperto. Anche allora non guardai avanti, nell'ignoto che mi attendeva, ma indietro. Io e mia madre guardammo il profilo della nostra isola sparire, inghiottita dal blu senza fine. Non l'avremmo più rivista, lo sapevamo.
La nostra zattera era fragile quanto le barchette di carta che gli altri bambini mi avevano insegnato a costruire, qualche anno più tardi. Vicino alla vecchia fontana, piegavamo i fogli di giornale e li ponevamo sull'acqua stagnante, poi soffiavamo per spingerle incontro al loro destino. Non tornavano mai indietro: noi non avevamo le braccia abbastanza lunghe per riprendere le barche al centro della fontana.
Con la Pinta, la nostra nave generazionale, era la stessa cosa. Ero seduta in una fragile barca di carta che si allontanava dall'unica casa che avessi mai avuto nell'universo; e mentre l'umanità prendeva l'abbrivo per navigare tra le stelle, io non potevo far altro che guardare quello che si stava lasciando alle spalle.

giovedì 25 gennaio 2018

Le cicatrici che non vedi

(racconto ispirato dall'esercizio Memorabile

Personaggio: Mayaselena

Esito del dado: 3
Un dettaglio fisico anomalo, per nascita o creato artificialmente (es. tatuaggio).

Ho scelto come dettaglio: una cicatrice sulla guancia.)

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Mayaselena è fiduciosa. Pensa che stavolta sarà diverso, che non la guarderanno come sempre, che andrà tutto bene. Io le cammino accanto e lei lo sa, lo sente. Mi parla.
Da quel poco che vedo del futuro, so che non potrò proteggerla da questo.
Una cicatrice è una cosa strana. In un uomo adulto è un segno di vanto, il simbolo delle disavventure a cui è sopravvissuto. Il suo trofeo. O almeno, così è la definizione romantica che ne danno questi fragili esseri umani.
Sul viso di una bambina, stando a quanto ho scoperto in questi anni, non è una cosa desiderabile. E a mano a mano che Mayaselena cresce, il segno delle mie unghie che le deturpa il volto si fa sempre più evidente. L'ho sentita lamentarsi spesso, di notte, che prude e le tira la pelle. Ma è la luce del giorno, lo sguardo dei suoi coetanei, ciò che lei teme di più.
La mia luce l'avvolge, invisibile a occhio umano, mentre Flora parla con la maestra che la accompagnerà dentro l'aula. Cerco di darle forza, a mio modo.
Mayaselena guarda in su. La maestra annuisce, ricambia il suo sguardo, e le rivolge un sorriso d'incoraggiamento. Quando Flora se ne va, sento Mayaselena mormorare: – Maipe, stammi vicino.
Entriamo nell'aula. Mayaselena cammina lentamente, quasi sfila verso la cattedra. Guarda dritto davanti a sé, in modo da mostrare agli altri bambini il profilo destro, quello perfetto, quello carino.
Qualcuno la guarda, qualcun altro è distratto, ma i bisbigli che si scambiano non riguardano lei.
Poi, come sempre, arriva il momento. Mayaselena giunge alla cattedra, è costretta a fermarsi, a girarsi.
E allora gli sguardi diventano fissi, i mormorii, commenti malevoli. Un paio di ragazzine, che sembrano più grandi dei loro anni, ridacchiano tra loro. Non passerà molto prima che comincino a chiamarla "la sfregiata".
Mayaselena abbassa lo sguardo, si copre la guancia sinistra con la mano. Ha i capelli acconciati in una treccia, ma presto la scioglierà per poterli tirare in avanti, a coprire i segni paralleli degli artigli, gonfi e pallidi.
Un'altra cicatrice, invisibile, si aggiungerà a quelle che già la segnano.
Nel pomeriggio andrà a singhiozzare da Cinthia, e io sarò lì a consolarla. Forse non vorrà evocarmi per qualche giorno, vedendo in me la causa dei suoi guai, ma io ci sarò.
La verità è che Mayaselena non è sopravvissuta ad alcuna disavventura, non ancora. La sua cicatrice non è un trofeo, ma un presagio di quello che verrà. Io non sapevo che l'avrei esposta a tutto questo quando l'ho fatto, e a volte mi chiedo: l'avrei graffiata lo stesso, conoscendo in anticipo la sua sofferenza?
Da quel poco che vedo del futuro so che ci sono cose peggiori di questo, cose da cui potrò proteggerla. La mia piccola segnata avrà bisogno di me, e io farò tutto ciò che è in mio potere per non perderla.

lunedì 22 gennaio 2018

Fidarsi di un bugiardo

(racconto ispirato dall'esercizio Memorabile

Personaggio: Tia Midsummer

Esito del dado: 1
Una frase, un'imprecazione inconsueta, un modo di dire.

Ho scelto come imprecazione: Galam!)

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Mi ero accorta dell'ombra che mi stava addosso. Mi seguiva, come minimo, da quando avevo lasciato la Locanda del Granchio Azzurro. Ma finché non gli avessi dato un'occhiata più da vicino, non avrei saputo dire se la sua era una delle brutte facce che avevo incontrato prima, al Ritrovo del Guercio.
– Galam! – imprecai tra me. Proprio quando pensavo che mi stesse andando tutto bene... troppo bene.
Era un'abitudine che avevo preso anni prima, ma al Corvaccio non era mai piaciuto che pronunciassi in pubblico il nome del Dio Nascosto, il Grande Ingannatore. M'aveva dato una bella strizzata sulla spalla una volta, tanto da farmi mugolare di dolore in quell'età in cui ormai non mi lamentavo quasi più.
– Che c'è? – avevo sbuffato quella volta. – Di che hai paura, vecchio? Nessuno sa che vuol dire. Solo quelli come noi.
– Appunto – mi aveva risposto lui. – E tu ti fideresti abbastanza di qualcuno come noi da spifferargli chi sei e lasciare che faccia ciò che vuole con questa informazione?
Il Corvaccio era fissato con cose del genere, ma non potevo negare che mi avesse insegnato bene il mestiere.
Appena possibile m'infilai in un vicolo, rallentai il passo e con la coda dell'occhio la vidi. L'ombra non mollava. Mi aveva seguito nel vicolo.
Ripresi a camminare svelta e nel frattempo mi tastai le tasche e le scarselle appese alla cintura, alla ricerca di qualcosa da poter usare come arma. Tra i miei attrezzi da lavoro, forse l'unico che potesse servirmi anche a quello scopo era un grimaldello dall'estremità seghettata. Lo strinsi in mano. E guardando avanti, di nuovo imprecai: – Galam!
Due persone mi venivano incontro dall'altro lato del vicolo, intabarrate fin sopra il naso e con un cappello in testa. Non sapevo se fossero amici dell'ombra, o semplici passanti.
Amici miei no di certo.
E mentre ci ragionavo sopra, in attesa della loro mossa, mi accorsi di aver commesso un errore. Avevo dimenticato l'ombra alle mie spalle.
Me ne accorsi quando quella mi afferrò e mi spinse sotto la volta ad arco di un portone. Con una mano mi bloccò contro il legno della porta il pugno in cui stringevo il grimaldello, con l'altra mi puntò  un coltello alla gola.
Alle sue spalle, i due tizi intabarrati passarono oltre in tutta fretta, non troppo desiderosi di lasciarsi coinvolgere in una faccenda che non li riguardava.
La mia ombra, che si era rivelata essere un uomo castano con la bocca e il naso coperti da un fazzoletto nero, mi bisbigliò in fretta queste parole: – Ora sta fermo e ascoltami bene. Ti ho visto, sì, sia dal Guercio che al Granchio. Ho visto cos'hai fatto, come li hai fregati per bene. E giuro su Galam che intendo farti del male e che non ho un lavoro per le mani, uno che frutterà davvero tanto, in cui potrei aver bisogno di qualcuno con le tue peculiari abilità.
– Per Galam! – mormorai, fissandolo negli occhi. – Lo sai cos'è quello che hai appena detto, vero?
Un Giuramento Inviolabile. Chiunque lo conosceva, sapeva che non si giurava a cuor leggero in nome del dio dei pazzi, dei poeti girovaghi e dei bugiardi di professione. Nel suo nome era necessario giurare il falso, e fare in modo che mai diventasse vero. Farlo significava sfidare Galam, un dio, e contro un dio per un mortale era impossibile vincere.
La mia ombra annuì, abbassò il coltello e mi lasciò il pugno. – Sì, lo so. Ma non avevo altro modo per convincerti a fidarti di me.

sabato 20 gennaio 2018

Zimarra

Questa l'ho vista spesso, tra i personaggi dei quadri e i costumi delle rievocazioni storiche. Ma non ho mai saputo come si chiamasse... fino a oggi.

Zimarra [zi-màr-ra] s.f. 1. Ampia e lunga sopravveste, con maniche molto larghe, usata dalle persone di riguardo soprattutto nel Seicento. 2. Vestaglia lunga da camera.

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Come al solito, la scelta più facile è un'ambientazione storica o fantasy medievaleggiante. Ma io che vado sempre a pescare tra le scelte difficili, ho deciso di restare ai giorni nostri e riprendere uno dei personaggi di Egida. La zimarra sarà un po' "fuori tempo", ma così passa da semplice capo di abbigliamento a elemento caratteristico.


– Sei preoccupata.
Ascoltai la sua voce senza alzare gli occhi dal tavolo di lavoro. Sfilai l'ago dal tessuto lucido e il filo argentato lo seguì. Tirai per fissare il punto al suo posto. – Ah sì? E da cosa lo deduci?
– Stai cucendo rune protettive sulla tua zimarra.
Sospirai e accarezzai il colletto vellutato. Lasciai che la mia mano percorresse il tessuto fin oltre l'attaccatura dell'ampia manica. Una zimarra, un abito antico per un'anima antica. Era stato lui a regalarmela, quando me n'ero innamorata nel vederla in vetrina. Ma ero stata io a entrare nel negozio ad acquistarla, poiché lui per il mondo non esisteva. Esisteva solo per me.
Le mie dita incontrarono le linee argentate tracciate dal filo. Ritrovai il punto, pizzicai il tessuto e infilai di nuovo l'ago. – Non sono protettive – gli spiegai. – Sto rafforzando un vecchio incantesimo.
– Non funzionerà.
Aggrottai la fronte. Come faceva a restare così calmo, proprio lui?
– Devo fare qualcosa. Non posso restare con le mani in mano, mentre tu... – Le dita mi tremarono e non riuscii a proseguire, né con la voce, né con l'ago. Alzai gli occhi e fissai la sua figura traslucida protesa sul tavolo. Era sempre meno presente, ogni giorno. Ormai non riuscivo nemmeno più a sentire il suo tocco.
– Ti prego, non lasciarmi – mormorai, allungando una mano. Lui non si mosse per prenderla. Tanto era inutile, il suo corpo rarefatto l'avrebbe attraversata.
– Sapevamo che sarebbe accaduto.
Non potevo afferrarlo, trattenere lui, perciò abbassai gli occhi e strinsi nei pugni il velluto della zimarra. – Non voglio crescere le nostre figlie da sola. Luna, Rugiada... hanno bisogno di te. Io ho bisogno di te.
– No, non è vero. Sei più forte di quello che credi. È tempo di lasciarmi andare.
Fuori dalla stanza, la luce del giorno si stava spegnendo. A malincuore tagliai il filo e fissai il punto con un nodo. Girata verso la finestra, indossai la zimarra sopra il vestito, poi mi voltai.
Non riuscii mai a chiedergli come mi stava.
Lui era sparito.

giovedì 18 gennaio 2018

Codice colore e altri segni particolari

Hai presente quella riga della carta d'identità che riporta i "segni particolari"? Ebbene, tutti noi ne abbiamo qualcuno, anche se spesso non ne siamo consapevoli. È quella parte della nostra identità che ci distingue come individuo, quella che viene enfatizzata nelle parodie e nelle caricature. Quella che vedono i nostri amici, ma che noi non riconosciamo finché non ci viene fatta notare. Le frasi e le parole che ripetiamo più spesso, il modo di gesticolare, di giocare con i capelli o di tamburellare con le dita, di camminare e di stare seduti. Non esistono soltanto i segni particolari sulla pelle, le cicatrici e i tatuaggi che scrivono la nostra storia. Sopra la pelle, gli abiti che indossiamo, gli accessori e gli oggetti che portiamo sempre con noi parlano di quella parte di identità che ci appartiene per scelta.

E quello che esiste nella realtà, spesso nelle storie viene enfatizzato. Avete mai notato che nei fumetti, nei cartoni animati ma anche in qualche film e telefilm, si tende ad assegnare uno stile e talvolta persino un colore, o una combinazione di colori, almeno ai personaggi principali? Il colore li rende immediatamente riconoscibili, nonostante l'occasionale cambio d'abito. Li differenzia dagli altri, li identifica. È più facile quando la storia è raccontata attraverso un mezzo visivo, ma il codice dei colori può esistere anche in un racconto scritto. E le frasi tormentone, non dimentichiamo le frasi tormentone!

Se ti mostro un violino, una pipa e un cappello di questo tipo, forse ti verrà in mente il personaggio a cui sto pensando. Ma se ti dico: "Elementare, Watson", non ottengo lo stesso effetto, molto più immediato? Un solo "Grande Giove!" vale quanto un camice bianco, un paio d'occhi sbarrati e i capelli bianchi e spettinati del dottor Emmeth Brown. E che dire, per chi le conosce, delle varie incarnazioni del Dottor Who, ciascuna distinta non solo dal volto dell'attore che la interpreta, ma da un capo d'abbigliamento iconico e un'esclamazione o una frase che gli appartiene? Certo, forse la prima volta suonerà strano (sono rimasta perplessa di fronte a un "senza indugio" al posto di un normalissimo sì, o dei vocalizzi senza senso di Sunny Baudelaire spiegati di volta in volta dal narratore), ma la ripetizione della frase, o la presenza continua degli elementi caratteristici del personaggio li lega indissolubilmente alla sua identità, tanto che la loro assenza... farebbe sospettare al lettore o allo spettatore che qualcosa non va. E se chi scrive la storia sa il fatto suo, è di sicuro così.

Attenzione, però: non intendo dire che l'uso di questi "segni particolari" possa far emergere o dare dignità a un personaggio altrimenti piatto, vuoto e inconsistente. Si rischia, al contrario, di farne una caricatura, una macchietta ridicola. Come un regalo incartato e infiocchettato, ci vuole qualcosa, un po' di sostanza dentro, per non deludere una volta scartato. Serve un personaggio che sia, come scrivevo, prima di tutto persona: qualcuno con un passato, con desideri e obiettivi, con il suo modo di pensare e di agire. Una volta dato vita sulla pagina a qualcuno le cui vicende valga la pena leggere, alcuni segni distintivi, ripetuti e coerenti, sono secondo me la ciliegina sulla torta che renderà immediatamente identificabile, e memorabile, quel particolare personaggio.

lunedì 15 gennaio 2018

Memorabile

Buongiorno creatore di identità!

Bene, dopo esserti occupato del nome, dell'aspetto fisico e della professione dei tuoi personaggi, è tempo di scavare un po' più a fondo. E di portare alla luce un dettaglio che può fare la differenza.

La tua missione di oggi sarà scoprire che cosa rende unico e memorabile un personaggio.

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Riprendi un personaggio da un esercizio precedente, o uno su cui stai lavorando per un tuo testo

Se non ne hai creato uno, puoi sempre tornare indietro agli esercizi precedenti e scegliere il nome, l'aspetto fisico e la professione tra quelle proposte. Oppure puoi andare avanti e costruire il personaggio attorno al segno particolare scelto.


Lancia un dado per scegliere la categoria del segno particolare e inventane uno sensato per il tuo personaggio

1 Una frase, un'imprecazione inconsueta, un modo di dire

2 Un gesto, un tic che compie in particolari condizioni

3 Un dettaglio fisico anomalo, per nascita o creato artificialmente (es. tatuaggio)

4 Un capo d'abbigliamento o un oggetto che porta sempre con sé

5 Un'attività in cui indulge mentre riflette, è annoiato, è solo, o in altre occasioni specifiche

6 Un colore dominante o un elemento/metafora che il narratore associa sempre e solo a quel personaggio

Spiego meglio il 6 che può essere il meno immediato da capire. In questa categoria sono riuniti il resto dei segni particolari, che vanno dal concreto dello stile del personaggio (il colore dell'abbigliamento, un profumo, o se si tratta di un fantasy, anche un vero e proprio elemento come fiammelle sul corpo o fiori tra i capelli) a una metafora associata al personaggio (è paragonato sempre a un felino, selvatico o domestico a seconda della situazione? I suoi stati emotivi sono descritti come i vari stati dell'acqua?).


Ora scrivi un brano in cui il segno particolare sia evidente e lo distingua da altri personaggi

Inventa una situazione in cui emerga o venga citato quel segno particolare. Nei casi numero 1 e 2 può essere un dialogo, per il 3 e 4 una descrizione o il racconto di come si è procurato il simbolo distintivo  e che significato ha per il personaggio, ecc.
Libera la tua fantasia, lascia agire il personaggio, e il resto verrà da sé. E non dimenticarti di postare il tuo brano, perché la settimana prossima il protagonista potresti essere tu!


Se ancora non ti è ben chiaro come affrontare questa missione, o se non credi che un segno particolare possa rendere unico e memorabile un personaggio, resta su queste pagine perché giovedì ti citerò qualche esempio celebre.

sabato 13 gennaio 2018

Vicissitudine

Ci sono volte in qui mi scervello e mi affanno a sfogliare il dizionario, e altre in cui non ho nemmeno bisogno di aprirlo. Oggi mi sono svegliata con questa parola in mente. Comincia con la v, perciò ho pensato che fosse perfetta per questo sabato.

Vicissitudine [vi-cis-si-tù-di-ne] s.f. (al pl.) Esperienze negative, tristi eventi, traversie.

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Ho parecchi personaggi che he hanno "passate tante". Fa parte della natura delle storie. Ma forse nessuno ha attraversato più guai di Tia Midsummer, quindi ho pensato che fosse perfetta per un brano sulla parola vicissitudine.


Lo ammetto: mi ero un po' distratta mentre quell'uomo mi raccontava le sue vicissitudini. Difficile stare attenta per tutta l'ora di monotono e lagnoso borbottio in cui mi aveva trascinato. Problemi di donne e sventure varie, ma già alla terza femmina mi ero persa.
In fondo, i loro problemi erano tutti uguali.
Se fossi stata un po' più stupida ed egocentrica gli avrei dimostrato a quanto poco era sopravvissuto, in confronto a me. Ma espormi in quel modo non mi avrebbe fatto ottenere quel che volevo, oltre a fornirgli armi che non intendevo lasciare nelle mani di nessuno.
La conoscenza è potere. Me lo aveva insegnato il Corvaccio nel modo più doloroso, usando contro di me tutto ciò che da me aveva appreso.
– Mh-mh. Capisco. E poi? – mormorai, trangugiando il vino e infilando un altro pezzo di bistecca in bocca. Ero affamata, senza un soldo, senza un posto dove stare, e trovare un pollo che mi offrisse da bere e da mangiare era stata un'impresa.
– E poi? Amico, non mi hai ascoltato? Cosa vuoi che mi succeda ancora?
Mi ero presentata come un giovanotto, perché per il suo bene era meglio che non mi offrisse anche un posto nel suo letto, oltre alla cena. L'ultimo che ci aveva provato aveva smesso per sempre di frequentare i bordelli.
– Oh, be'... questo me lo devi dire tu – bofonchiai con la bocca mezza piena. Mandai giù prima di proseguire: – Cosa vuoi che ti succeda ancora?
Si protese in avanti. Mi scrutò a lungo. – ...che intendi dire?
Agganciato.
Mi pulii le mani sul tovagliolo lercio. – Intendo dire, amico mio... – Abbassai la voce e assunsi quel tono, quello che li allettava sempre. – Che ne hai passate tante, e che forse è ora che tu prenda in mano il tuo destino. Per come la vedo io, te lo meriti. Dimmi un po', che cosa saresti disposto a dare per avere la fortuna finalmente dalla tua parte?
Avevo dovuto sorbirmi la sua sequela di vicissitudini banali e ridicole, ma ne era valsa la pena: stavo per guadagnarmi, assieme alla cena, anche un bel po' di grana.

giovedì 11 gennaio 2018

Perché sei qui

(racconto ispirato dall'esercizio Deformazione professionale. Ho pensato come luogo a un mondo fantasy, rappresentato dalla foto. Per quanto riguarda la professione che mi è capitata come abbinamento... ti lascio indovinare)

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 – Stupefacente! – L'ometto calvo vagava col naso all'insù tra gli alberi rosa. Lo precedeva una creaturina alta un palmo, appesa a grandi ali di farfalla. Ovunque profumo di fragola, ma non l'odore vero di un vero frutto, bensì l'aroma stucchevole e zuccherino di una caramella al gusto di fragola.
– Posso scattare qualche foto? – chiese l'ometto alla fatina, e prima che lei potesse rispondergli, cavò dalla tasca dei pantaloni uno smartphone, si accostò al laghetto e inquadrò scorci del paesaggio. – Stupefacente! C'è anche un romantico ponticello, è perfetto, questo posto finisce dritto dritto nel catalogo di San Valentino.
La fatina frullò le ali e volò tra il cellulare e l'ometto calvo, mentre quest'ultimo si faceva un selfie proprio davanti al "romantico ponticello".
– Ti starai domandando perché ti ho portato qui – disse la fatina con la sua voce sottile. – Ti ho portato qui perché tu sei il...
– A dire il vero – la contraddisse l'ometto, – quello che mi domando è: come mi hai portato qui? Puoi rifarlo? Puoi portare più persone contemporaneamente? Quante? E i bagagli?
– Polvere di fata, e magia – si affannò a rispondere la creaturina, svolazzandogli intorno. – Sì, posso, ma questo non è importante, adesso. Ora devi ascoltarmi...
– Polvere di fata... magia... aha – mormorò l'ometto, annuendo e digitando sul cellulare. – Stupefacente. Già. Però tutto questo non basta. No. Dobbiamo organizzare qualcosa di più... caratteristico. – L'uomo si allontanò lungo la riva del lago, tallonato dalla creaturina.
– Ti devo dire una cosa molto importante! – gridò quella, agitando le braccia.
L'ometto si fermò e scattò una foto a una radura avvolta da fronde color confetto. – Ecco. Qui ci vedrei bene un resort. O un villaggio vacanze. Ci vuole un bel comitato d'accoglienza, e animatori, e attività di coppia. Del laghetto ne facciamo una piscina termale? Quasi quasi... – borbottò nel digitare ancora. – Con l'idromassaggio e l'aromaterapia.
La creaturina sorvolò la sua testa liscia, gonfiò le guance e sbottò: – Ascoltami! Ti ho portato qui perché tu sei il Prescelto. Una grande ombra minaccia questa terra di pace e secondo la profezia, tu sei l'unico che può fermarla. Ma non sarà facile. Molti ostacoli dovrai affrontare lungo il tuo cammino...
L'ometto alzò la testa e ascoltò per qualche istante la creaturina che parlava di pericoli, oscurità e morte. Poi scosse la testa. – No, no, no. Queste cose teniamocele buone per Halloween, d'accordo? Per San Valentino, solo cuori, fiori e amori!

lunedì 8 gennaio 2018

Oggi scegliete voi!

(racconto ispirato dall'esercizio Deformazione professionale. Ho pensato come luogo al cinema, e la professione è la numero 4, Antiquario)



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Cosa ci faccio qui? Avrei preferito mille volte andare al mercatino a Piazzola sul Brenta piuttosto che respirare quest'odore stantio di pop-corn. La pelle delle poltrone che scricchiola sotto le mie terga non mi dà la stessa soddisfazione di un divano in stile impero o della melodia di un grammofono in perfetto stato, e questo fracasso che mi riempie all'improvviso le orecchie mi fa temere che non riuscirò mai più a sentirla, quella musica. Ma anche se i miei padiglioni auricolari dovessero riprendersi dal trauma, le luci intermittenti nel buio della sala, gli scintillii che mi accecano e i colori sgargianti di questo spettacolo mi rovineranno di sicuro la vista. Senza contare che, per quanto sia un po' al di fuori dell'epoca storica di mio interesse, sono quasi certo che l'Antico Egitto non sia come lo descrivono in questo "film" a cartoni animati.
Cuore di nonno, lo so, ma sto cominciando a pentirmi di aver detto ai miei nipoti: vi accompagno al cinema, e oggi scegliete voi! 

sabato 6 gennaio 2018

Uadi

Questo sabato ho avuto qualche difficoltà a scegliere la parola da presentare. Non che ci sia troppa varietà quando si arriva all'ultima vocale del nostro alfabeto, ma tanto per cambiare cercavo un verbo e neanche stavolta sono riuscita a trovarlo!

Uadi [uà-di] s.m. inv. geogr. Letto asciutto di antichi corsi d'acqua, tipico delle zone desertiche africane, inondato da acque piovane solo in determinati periodi dell'anno.

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Con una parola come questa l'ambientazione è già decisa. Restava solo da capire chi sono i personaggi e che cosa stanno facendo. Ho cambiato idea più volte mentre scrivevo, poi mi è venuto in mente un nome, ed eccolo qua!


Risalivamo da due giorni l'uadi racchiuso tra alte pareti di roccia. Abituata agli spazi aperti e agli orizzonti, quella stretta gola non mi piaceva per niente. Avevo un peso nello stomaco e mi mancava il fiato, e l'odore rovente della sabbia mi bruciava in gola, lì più che altrove. Gli altri si rallegravano del riparo che offriva dal sole. Io avrei preferito non essere lì.
Maarit mi stava appiccicata addosso. Forse avvertiva il mio senso d'oppressione, o forse era intimorita dagli estranei che si erano uniti alla carovana.
La maggior parte camminava in un silenzio stremato, ma alcuni si lamentavano che il vecchio fiume fosse asciutto, o supplicavano Dio per un po' di pioggia. Un gruppo alle mie spalle iniziò una cantilena chiassosa per invocare l'acqua dal cielo. L'uomo che mi precedeva, uno dei nuovi di cui non conoscevo il nome, tornò indietro e ordinò loro di smettere. Quando mi oltrepassò, lo ringraziai.
L'uomo sbirciò il fagotto che mi stava aggrappato al collo.
– Non l'ho fatto per lei o per il bambino – borbottò. – Quelli non sanno cosa significhi l'acqua in un posto del genere. Preghi di non vederla finché non ne saremo fuori.
Le sue parole fecero sprofondare il peso nelle mie viscere. Realizzai allora che il mio timore era stato quello di perderci in un labirinto di pietra, o di finire in un'imboscata. Ma c'era di peggio.
Non ci fu il tempo di avere paura.
L'uadi fu percorso da un tuono che zittì la gente della carovana. Hilo si svegliò tra le mie braccia e si mise a frignare.
Maarit mi tirò per la manica.
– Ilo piange – disse la bambina.
– Sì, lo so tesoro – replicai, ma la mia voce fu sovrastata da un coro di acclamazioni. Un rivoletto scorreva verso di me bagnando la terra secca, seguito da un altro a destra e da un terzo a sinistra. La gente si chinò per colmare le borracce e le mani.
– Correte! – urlò invece l'uomo di prima
Rimasi impietrita a guardare il muro d'acqua che riempiva l'uadi mentre attorno a me le esclamazioni di gioia mutavano in urla e confusione.

giovedì 4 gennaio 2018

Sei ciò che fai?

Da un po' di tempo colleziono citazioni. Ce n'è una di William Faulkner, che tradotta in italiano suona un po' così:
Non essere uno scrittore. Scrivi.
Il che, a mio avviso, può essere inteso anche come: non ha senso definirti in una certa maniera, se non fai quanto è sottinteso dalla definizione. E questo vale un po' per tutti i mestieri. Non puoi essere un commerciante se non vendi (o almeno, se non tenti... ma senza qualche successo, non sarai un buon commerciante!), non puoi essere un sarto se non cuci, non puoi essere un nuotatore se non entri in acqua. Questo, tradotto all'interno di una storia, potrebbe voler dire: dedica almeno una piccola parte a mostrare il personaggio nel suo luogo di lavoro, invece di scrivere semplicemente "Tizio era un calzolaio" e poi dimenticartelo per il resto del racconto.

Lo ammetto, non sempre è un'opzione possibile. Se la storia è incentrata sulle vacanze di Tizio, non ha senso che di punto in bianco si metta in un angolo ad aggiustare scarpe. E a meno che non sia rilevante per la trama, tante volte una scena al lavoro è semplicemente superflua. Ma allora che senso ha specificare che di mestiere fa il calzolaio?

Ti dirò che per me ha perfettamente senso a livello di caratterizzazione del personaggio. O almeno, non specificarlo, ma farlo sentire a chi legge. In molti casi per svolgere determinati mestieri si studia anche per anni, a livello accademico o pratico, ed è uno studio o un apprendistato che, come dire... lascia il segno. Nel modo di pensare, di percepire il mondo, di esprimersi. Quindi sei ciò che fai? Forse non del tutto, ma almeno in parte, ciò che fai per tante ore al giorno contribuisce alla definizione che dai a te stesso e a quella che gli altri hanno di te. E la stessa cosa vale per i personaggi di cui scrivi.


Per concludere, come è possibile mostrare la professione di un personaggio senza dire chiaro e tondo quale sia e senza scrivere una scena in cui lavora? Ci sono molti modi. Difficile includerli tutti, ma ti offrirò qualche spunto da cui partire. Puoi includere nel tuo brano:

  • ciò che nota nell'ambiente e nelle persone
  • come risolve un problema
  • come si esprime, le parole che usa
  • fisicamente, segni particolari lasciati sul corpo o sugli abiti
  • le sue conoscenze nell'utilizzo di un attrezzo o un macchinario
  • argomenti che invece gli sono estranei o indifferenti
  • il possesso di uno strumento del mestiere, se è plausibile che lo abbia con sé
  • dove dirige la sua curiosità, le domande che gli vengono in mente
  • le persone che frequenta abitualmente, se collegate al lavoro.

Hai altre idee per mostrare la professione di un personaggio all'interno del testo? Scrivile nei commenti!

Questo è tutto per ora, ti ricordo ancora una volta l'esercizio Deformazione professionale e ti invito a provarlo entro mercoledì prossimo e postare il tuo brano nei commenti: il tuo racconto potrebbe essere ospite della Piuma Tramante tra una settimana!

lunedì 1 gennaio 2018

Deformazione Professionale

Buon 2018!

Ti auguro un anno ricco di storie, idee, scrittura e lettura. Perché allora non cominciare già da subito con un esercizio?

La missione di oggi sarà semplice, giusto un po' di riscaldamento per le settimane che verranno. Se sei pronto, leggi i dettagli qui sotto.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Chiudi gli occhi. Pensa a un luogo.

Può essere un luogo reale o immaginario, ampio o piccolo, all'aperto o all'interno di un edificio. Non è necessario definire tutti i dettagli, ma assicurati di avere già in mente un luogo prima di procedere.


Lancia un dado per scegliere una professione.

Hai a disposizione una di queste sei occupazioni:
1 Impiegato in agenzia di viaggi
2 Astrologo
3 Ladro
4 Antiquario
5 Pittore
6 Parrucchiere
Se nessuna di quelle qui sopra ti ispira, o vuoi ripetere l'esercizio espandendo le possibilità di scelta, puoi usare questo generatore casuale.


Scrivi un brano ambientato nel luogo a cui hai pensato, con un protagonista appartenente a quella professione.

Fai in modo che entrambi, sia il luogo che la professione, abbiano una rilevanza per la storia che stai scrivendo. Come si comporterà il tuo personaggio in quella situazione? Si trova lì per lavoro, o sta sfruttando il suo tempo libero per uno svago? In questo caso, come cambia il suo atteggiamento la sua appartenenza a una data categoria? Come si comporta, che cosa nota?
Scrivi il tutto dal suo punto di vista.


Per ora ti saluto e ti auguro ancora un buon 2018! Ti ricordo che per ogni suggerimento, domanda, o per il resoconto della tua missione, mi puoi trovare qui. Giovedì approfondirò l'argomento, nel frattempo, se l'esercizio ti ha ispirato, scrivi pure il tuo brano nei commenti.