sabato 31 marzo 2018

Libagione

Per questo sabato ho scelto una parola che richiama sia atmosfere antiche e solenni, che altre più moderne e ironiche.

Libagione [li-ba-gió-ne] s.f. lett. 1. Nelle religioni antiche, offerta alle divinità di sostanze liquide (vino, latte ecc.), versate sugli altari o per terra. 2. fig. In senso scherzoso, grande bevuta di vino o altri alcolici.

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Fin da quando ho scelto la parola, sapevo che l'avrei usata nel suo primo significato. Restava solo da capire per quali personaggi, e  in quale ambientazione. Mentre ci stavo riflettendo, è arrivata da me Calico.


Quando Bethany ci portò Calico, alla casa della Fratellanza non sapevamo che farne. La bambina non parlava e non si staccava dalla gonna della nostra Voce. Luzian prese l'abitudine di chiamarla Calico perché gli ricordava il gattino che aveva a casa, e ben presto lo imitammo tutti.
All'epoca in cui Seti fece il suo ingresso ufficiale alla casa della Fratellanza, Calico aveva dodici anni, rispondeva al nome che le avevamo dato e si faceva capire a cenni e a gesti.
Si rendeva utile, ma non la consideravamo una di noi. Non aveva un albero, anche se ogni tanto la sorprendevo a fingersi uno, in giardino: i piedi ben piantati a terra, le braccia in alto e gli occhi chiusi.
Calico era con noi quando trapiantammo il Roseto di Seti nel giardino della casa della Fratellanza. Ci aiutò a sistemarlo nella sua nuova dimora, poi guardò a occhi sgranati Menes portare il calice di latte di capra e offrirlo a Seti. Era la prima volta in tanti anni che celebravamo il rito dell'ammissione così vicino a dove abitavamo. La maggior parte di noi era legata ad alberi molto più grandi, impossibili da spostare dal luogo dove erano cresciuti, e il rito doveva per forza avvenire lì dove avevano messo radici.
Seti bevve un sorso di latte e ripeté le parole di Menes mentre Calico le fissava senza battere ciglio. Poi Seti si punse un dito con una spina di rosa, lasciò cadere una goccia di sangue nel latte e lo offrì in libagione alla pianta a cui era legata, ammettendo così che quello che provava era reale, accettando chi era e il mondo di cui faceva parte.
La mattina dopo, Calico fece qualcosa che non aveva mai fatto: prese il suo bicchiere di latte, si alzò da tavola e uscì di casa... da sola. La seguimmo, poiché non si era mai allontanata senza che qualcuno di noi la convincesse ad accompagnarlo. La trovammo abbracciata al tronco di un mandorlo, col bicchiere vuoto ai suoi piedi.
– A quanto pare – disse Menes – abbiamo un altro rito dell'ammissione da celebrare, e un'altra libagione da offrire.

giovedì 29 marzo 2018

Fortuna o disgrazia?

Lunedì ti ho lasciato con un esercizio sulla creazione dei personaggi tratto dai meccanismi dei giochi di ruolo. Oggi ti invito a considerare questa storia, che si trova diffusa un po' ovunque in varie versioni sul web, e che pare essere una storia tradizionale cinese (ovviamente, se hai maggiori informazioni a riguardo ti prego di scrivermi un commento!):

C'era una volta un contadino cinese, era molto povero, per vivere lavorava duramente la terra con l'aiuto di suo figlio, ma possedeva il grande dono della saggezza.
Un giorno il figlio gli disse: - Padre che disgrazia, il nostro cavallo è scappato dalla stalla!
- Perché la chiami disgrazia? - rispose il padre. - Aspettiamo e vediamo cosa succederà nel tempo!
Qualche giorno dopo il cavallo ritornò portando con sé una mandria di cavalli selvatici.
- Padre che fortuna! - esclamò questa volta il ragazzo. - Il nostro cavallo ci ha portato una mandria di cavalli selvatici.
- Perché la chiami fortuna! - rispose il padre. - Aspettiamo e vediamo cosa succederà nel tempo.
Qualche giorno dopo, il giovane nel tentativo di addomesticare uno dei cavalli, venne disarcionato e cadde al suolo fratturandosi una gamba.
- Padre che disgrazia, mi sono fratturato una gamba.
Ma anche questa volta il saggio padre sentenziò: - Perché la chiami disgrazia? Aspettiamo e vediamo cosa succede nel tempo.
Ma il ragazzo per nulla convinto delle sagge parole del padre, continuava a lamentarsi nel suo letto.
Qualche tempo dopo, passarono per il villaggio gli inviati del re con il compito di reclutare i giovani da inviare in guerra.
Anche la casa del vecchio contadino venne visitata dai soldati reali, ma quando trovarono il giovane a letto, con la gamba immobilizzata, lo lasciarono stare per proseguire il loro cammino.
Qualche tempo dopo scoppiò la guerra e molti giovani morirono nel campo di battaglia, il giovane si salvò a causa della sua gamba zoppa.
Fu così che il giovane capì che non bisogna mai dare per scontato né la disgrazia né la fortuna, ma che bisogna dare tempo al tempo per vedere cosa è bene e cosa è male.

Perché ho scelto di condividere questa storia, e che cosa c'entra con l'esercizio di lunedì? È presto detto. Come le vicende fortunate o disgraziate nella storia, non credo che le caratteristiche associate a un personaggio abbiano un valore assoluto, in positivo o in negativo, di per sé. Lo assumono alla luce della trama in cui il personaggio è inserito, dell'ambientazione in cui si muove e degli ostacoli che si troverà ad affrontare.

Per fare qualche esempio, prendiamo un personaggio che è soggetto a improvvisi scatti d'ira quando si trova in difficoltà. Se tutto ciò che si trova ad affrontare è un litigio in famiglia, quella caratteristica potrebbe causargli problemi interpersonali con i parenti, che a seconda dei casi può riuscire a risolvere da solo, oppure con i consigli di un amico o l'intervento di uno psicologo (rispettivamente -3 e -5 nello schema di punteggio dell'esercizio). In un thriller in cui è vittima di una rapina, il nostro iracondo personaggio potrebbe rischiare addirittura un -7 (mettere in pericolo sé stesso o chi lo accompagna). Ma cambiando completamente genere... ebbene, in una battaglia (fantasy o storica) la sua furia e la sua imprevedibilità potrebbero addirittura rivelarsi un vantaggio tale da salvare la vita a se stesso o a un compagno d'armi (+7).

Oppure, come illustrato dalla storia, il mutare delle condizioni e un nuovo evento possono trasformare uno svantaggio in vantaggio e viceversa. Se crei un personaggio con la capacità di leggere nel pensiero e lo butti in mezzo alla lite familiare del primo esempio, il suo potere all'interno della storia gli dà un vantaggio che non potrebbe ottenere con le sue sole forze (+5, o +7 se il suo obiettivo è quello di avere una famiglia unita e in armonia). Ma se a un certo punto la famiglia scoprisse di essere stata spiata da un telepate... chi vorrebbe più averlo attorno? E così il suo potere diventa un ostacolo, assegnandogli un -5 o -7 a seconda dei casi.

Un ultimo caso che mi va di considerare è quello che emerge molto spesso nelle storie di supereroi. In particolare, mi viene in mente l'Uomo Ragno. Almeno una parte dei suoi obiettivi non ha nulla a che fare con criminali e azioni eroiche: trovare un lavoro, conquistare la ragazza dei suoi sogni, riuscire a vivere un'esistenza semi-normale. Nella sua lotta per realizzare questi obiettivi, l'avere dei superpoteri, una doppia identità e un secondo lavoro che non paga sono ostacoli non indifferenti. E il rischio di mettere in pericolo le persone che ama è sempre presente. Quanto sarebbe più facile la vita di Peter Parker se non avesse dei poteri? Ma la sua non sarebbe una storia altrettanto interessante.

Tornando all'esercizio, potresti obiettare che uno schema così rigido, con numerini e calcoli ammazza la creatività o non fa per te. Ma considera questo: l'esercizio che ti ho proposto è un punto di partenza. Serve appunto per considerare quali caratteristiche possa avere il tuo personaggio, come influenzano e che funzione hanno all'interno della trama, e come è possibile bilanciare i suoi punti di forza e le sue debolezze. Una volta che hai compreso questo, non è necessario procedere lungo la storia come in un gioco di ruolo, con lanci di dadi e incontri casuali. Anzi, almeno per quella che è la mia esperienza lo trovo sconsigliabile, perché può dirottare una storia con buone premesse in una serie di eventi scollegati e poco significativi. Ma questa è solo la mia opinione.


E tu, cosa ne pensi della commistione tra scrittura e giochi di ruolo? Hai avuto qualche esperienza in questo campo? O hai letto un romanzo scritto da qualcun altro che li riguardi? Scrivimi nei commenti!

lunedì 26 marzo 2018

Equilibrio

Buon inizio di settimana!

Questa volta ti invito a giocare un po'. Se ti sembra che i tuoi personaggi siano troppo abili, che la loro vita sia troppo facile, che niente e nessuno riesca a metterli in difficoltà... forse potresti trovare ispirazione in un gioco di ruolo. Così, per ritrovare l'equilibrio, prova a costruire, o a ricostruire, il tuo personaggio secondo le regole di questa missione:

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Se conosci un gioco di ruolo, crea il tuo personaggio compilando la sua scheda

Solitamente ogni gioco di ruolo è costruito per bilanciare bonus e malus alla creazione del personaggio, e assegnare un numero limitato di punti da suddividere tra varie caratteristiche. Anche se poi per scrivere la storia non dovrai fare lanci di dadi e somme di punti, almeno avrai una base di partenza che ti ricorda che il tuo personaggio non è forte in ogni campo e abile in tutto.


Altrimenti, scegli non meno di cinque positivi e cinque negativi fra caratteristiche, talenti, abilità e oggetti assegnando il punteggio come spiegato di seguito

In questo caso, per semplificare, non farà differenza se ciò che scegli è un tratto del carattere, una dote innata, un'abilità appresa nel corso degli anni, un potere magico, un oggetto mondano o incantato in possesso del personaggio. L'importante è considerare come potrebbe essere di aiuto o di ostacolo nel corso della storia. Questi sono i punteggi da assegnare.

Per le caratteristiche positive:
+ 1 se è d'aiuto ma non cambia la vita
+ 3 se risolve un problema che il personaggio sarebbe comunque riuscito a risolvere da solo in più tempo e con più fatica
+ 5 se risolve un problema che altrimenti necessitava dell'intervento di altre persone o di maggiori risorse
+ 7 se gli consente di realizzare ciò che desidera, di salvare la propria vita o quella di un'altra persona
+ 10 se salva più persone, un'intera nazione o il mondo

Per le caratteristiche negative:
- 1 se crea un piccolo inconveniente facilmente risolvibile
- 3 se crea un problema che il personaggio può risolvere da solo, nel tempo e con qualche sforzo
- 5 se crea un problema che necessita dell'intervento di altre persone o di risorse che il personaggio non possiede
- 7 se lo ostacola nel raggiungimento del suo obiettivo, in pericolo la sua vita o quella di un'altra persona
- 10 se mette a rischio più persone, un'intera nazione o il mondo


Ora somma e sottrai: alla fine, il punteggio deve essere pari a zero.

Un'unica accortezza è quella di controbilanciare ogni caratteristica positiva che aggiunga il maggior numero di punti con una negativa che sottragga lo stesso punteggio o quello subito sotto (questo per evitare di avere un +10 riportato a zero da dieci -1). Ad esempio, una spada magica che consente di salvare la persona amata (+7) e l'anima pura necessaria per utilizzarla (+7) potrebbe richiedere in cambio il sacrificio di una vita (-7) e la perdita di alcuni ricordi importanti del personaggio che la usa (-5). Il resto dei punti in più e in meno possono essere liberamente scelti.


Ora tocca a te. Ti invito a divertirti, a giocare, a mescolare le carte in tavola e a lanciare i dadi. Non importa se non userai mai il personaggio che hai ricavato da questa alchimia di elementi. Ciò che conta è che avrai imparato a riportare un po' di equilibrio nelle tue creature, a mescolare pregi e difetti, abilità e incapacità, benedizioni e maledizioni. Potresti anche, come è accaduto a me, andare avanti e inventare un intero mondo per dare una casa a un personaggio che era nato così, per gioco.

Ma questa è un'altra storia, una che ti racconterò giovedì, assieme ad alcuni esempi se ti senti perso e non sai da dove iniziare. Se invece ci stai già prendendo la mano, raccontami nei commenti qualcosa del tuo personaggio, o anche solo che cosa ne pensi di questo metodo.

sabato 24 marzo 2018

Irsuto

Per assonanza, questa parola mi fa venire in mente un orso. D'altra parte, è pur vero che l'orso è un animale irsuto, quindi ci sta alla perfezione. Va bene, ora la smetto di fare la scema e ti presento la parola di questo sabato:

Irsuto [ir-sù-to] agg. 1. Formato o coperto di peli folti, ispidi. Villoso. Di persona, per estens., peloso, selvatico, rozzo. 2. estens. Ruvido, pungente, grossolano.

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In questo caso mi è venuto in mente il brano prima della parola. Solo che non mi aspettavo di dargli una svolta semi-comica, anzi, avevo in mente una conclusione amara su quello che il bandito non ha detto, ma non ci stava. Sarà per un'altra volta. Ad ogni modo, non è fantastico quando una storia ti sorprende?


La creatura pelosa sotto di lei azzannò l'aria, inchiodata a terra dalla spada. Sembrava identica alle altre: uno scimmione dalla pelliccia bruna, zanne sporgenti e lunghi artigli. La creatura sollevò una zampa e tra le sue dita sprizzarono scintille.
– No – sibilò la donna. Calò la lama più corta e tranciò la zampa. Le scintille si spensero e la creatura ululò di dolore.
I due uomini che se n'erano rimasti comodamente in disparte, a discutere tra loro, scesero dal carro e si avvicinarono.
– Night, spiegaglielo tu, perché questo idiota non mi vuole credere – sbottò il bandito.
– Quale insolenza! – s'inalberò sir Maizorean Lunandi-Xares, umile storiografo dei regni. – Non osate rivolgervi così a una lady degli Shamyan!
Night infilò la punta della daga nella zampa che l'essere stava allungando verso il suo collo. – Veramente qui sarei occupata, messere.
– Oh, ho solo qualche domanda, non vi prenderò molto tempo – ribatté sir Maizorean. – Dunque, è vero, mia signora, che queste bestie irsute sono gli emissari dei falsi dei?
Night puntò un piede sull'addome della creatura e strattonò l'elsa della spada per liberarla. – Vero.
Lo storiografo arricciò il naso all'odore del sangue, poi si coprì la bocca e le narici con un fazzoletto. – Ed è vero che i falsi dei esistono, in carne e ossa?
– È così. – Night colpì la testa dello scimmione grugnente con il pomolo della daga.
– Ed è vero che queste sgradevoli creature erano un tempo uomini e donne, gli stessi che furono sacrificati sugli altari?
Night sollevò la spada e la calò di nuovo, puntando al cuore. – Esatto.
– Ed è vero che...
Sir Maizorean tacque di colpo. Il bandito si sporse a guardare: Night minacciava lo storiografo con la punta della daga vicinissima al suo ventre.
– Zitto e guarda! – gli ingiunse la donna. La creatura irsuta sotto di lei, trafitta dalla spada, aveva smesso di muoversi e grugnire. Gradualmente perse i peli, rimpicciolì e le zanne e gli artigli si ritrassero, fino a diventare i denti e le unghie di una donna.

giovedì 22 marzo 2018

Maia

(racconto ispirato dall'esercizio Una persona da scrivere)

Non ho trovato nessun altro di recente che abbia stuzzicato la mia fantasia abbastanza da permettermi di scrivere un altro brano, perciò, in mancanza di un ospite per questa pagina, ecco un passaggio di un vecchio racconto ispirato da una sconosciuta, come l'esercizio richiede.
Anno 2000, se qualcuno volesse confrontare lo stile con ciò che scrivo ora (e ho "ritagliato" per postarlo qui il pezzetto meno imbarazzante!).

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Una di loro, in particolare, colpì la sua attenzione. Non la sorella maggiore, bionda e disinvolta, di cui lei non ricordava nemmeno il nome. Era Maia, la minore, a sconvolgerla ed a riempire di dubbi la sua “ferrea morale”. Durante la cerimonia fece di tutto per non guardarla, per non permettere ad uno qualsiasi dei suoi acutissimi sensi di percepire la sua presenza, ma al pranzo di nozze la sventura o la fortuna volle che fossero sedute di fronte. Tutti i pensieri che aveva fino ad allora trattenuto esplosero con violenza in lei.
Maia, Maia, che bel nome, Maia… la osservava, mentre era solo con un angolo della sua mente che conversava con la sorella.
Maia aveva una magnifica rosa posata davanti a sé. Ogni tanto la guardava, la sfiorava, la prendeva, ne annusava il profumo, tornava ad osservarla, poi la posava di nuovo davanti a sé.

lunedì 19 marzo 2018

Un gesto altruista

(racconto ispirato dall'esercizio Una persona da scrivere)

Le prime parole che mi sono venute in mente osservando quello sconosciuto sono state:

Aveva la tipica camminata da sceriffo spaziale, quell'andatura tronfia e dondolante che i racconti attribuiscono di solito agli arturiani. Ma lui era umano, brizzolato, e con il sorriso sotto i baffi di chi sa qualcosa di quell'arretrato pianeta che tutti i suoi abitanti ignorano.
Appeso al collo, un visore a infrarossi camuffato da comuni occhiali da vista. Faceva tintinnare un mazzo di chiavi dimensionali in mano e aveva fretta: andava a incontrare una donna.

Arrivata a questo punto, però, ho deciso di cambiare personaggio e ambientazione. E l'ho riscritto e continuato come puoi leggere qui sotto.

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L'uomo saliva tranquillo le scale del condominio con la camminata ondeggiante e tronfia di chi è perfettamente a suo agio, a casa propria. A ogni passo, un paio di binocoli gli dondolava al collo. Sorrideva sotto i baffi, facendo tintinnare nella mano destra un mazzo di chiavi, e rivolse un cenno di saluto a un giovanotto che percorreva le scale in direzione opposta, e che non lo guardò una seconda volta. Tutto normale, tutto regolare, si disse l'uomo, passando una mano tra i capelli brizzolati. I vicini non hanno più il tempo di conoscersi l'un l'altro, soprattutto in palazzi grandi come quello.
Era la prima volta che l'uomo entrava in quell'alveare di appartamenti. E ci andava per incontrare una donna.
Si fermò di fronte alla porta, scelse una tra le chiavi universali del suo mazzo e la infilò nella serratura. Non girava. L'uomo ne provò un'altra, poi abbassò la maniglia e scoprì che la porta era aperta. Troppo facile. Ficcò il mazzo di chiavi in tasca, entrò e chiuse la porta dietro di sé.
In cucina, un fornello acceso sibilava sotto il risucchio d'aria della cappa, e le cipolle soffriggevano in padella, rilasciando nell'aria un vapore mefitico. Una donna rotondetta, con corti ricci castani e un grembiule blu sopra una canotta e un paio di jeans gli dava le spalle, indaffarata a far scivolare da un tagliere alla padella le verdure sminuzzate.
L'uomo attese che la donna posasse il coltello e si spostasse al lavello, prima di parlarle in tono disgustato: – Mi meraviglia sempre come voi, tutti voi, finiate col trascurare uno dei vostri corpi.
La donna si voltò e fissò a occhi sgranati l'uomo sulla soglia della cucina. – Vattene... vattene via! –  sbottò. – Mio marito sta per tornare...
L'uomo scosse la testa e indicò il binocolo appeso al collo. – Non mentirmi. Tu vivi da sola, Zondra. Lo so.
La donna fece una risata nervosa. – Hai sbagliato persona. Io non sono...
– Di nuovo, non mentirmi – la interruppe l'uomo, avanzando a lenti passi. – Andiamo. Un blog sulle tue fantastiche avventure, Zondra? Dovevi aspettarti che uno di noi prima o poi lo avrebbe trovato.
La donna fissò il coltello sul tagliere. Si mosse per prenderlo, ma l'uomo le bloccò la mano sinistra sul ripiano con la sua. Lei allungò la destra, lui la catturò nel pugno e rise.
– Non mi sei mai piaciuta, Zondra – disse l'uomo. – Tu meno di tutti. Così presuntuosa, così egoista.
L'uomo la costrinse ad alzare le mani, poi la spinse indietro. La donna cadde e batté la testa. Frastornata, cercò di trascinarsi via, lontano dal suo aggressore, mentre mugolava frasi sconnesse: – No... lasciami... farò come vuoi, ma ti prego...
L'uomo afferrò il coltello, la raggiunse, la girò sulla schiena e si sedette a cavalcioni su di lei, bloccandole le gambe. Calò il coltello verso il grembiule blu sul suo petto.
Ansimando, la donna gli afferrò il polso con entrambe le mani e lo respinse con tutte le sue forze.
Sul fornello, il soffritto abbandonato a sé stesso iniziava a emanare puzza di bruciato.
– Non resistermi. Sappiamo tutti e due come finirà, Zondra. Tu morirai. – L'uomo sogghigno, trattenendo senza sforzo la lama dov'era. – Ma voglio darti una possibilità, l'ultima, di fare almeno una volta nella vita un gesto altruista. Ti dirò il mio nome, quello che ho dall'altra parte. Puoi restare qui a tentare di respingermi finché non ti stanchi e crepi, o puoi sfruttare gli ultimi istanti che ti restano, concentrarti sull'altra vita e dire a qualcuno chi sono, se ci riesci.
L'uomo appoggiò anche l'altra mano sull'impugnatura del coltello e le sussurrò il suo nome.

Nel grande archivio nell'ufficio-prigione di Arend, Zondra alzò gli occhi neri dal dischetto di dati che stava studiando e urlò: – Me...!
Poi si accasciò sul tavolo, e non si mosse più.

sabato 17 marzo 2018

Habanera

La lettera acca mi farà impazzire, con i pochi termini veramente italiani che puoi trovare in un dizionario, e quasi tutti troppo noti per essere scelti come parola del sabato. Tocca trovarne uno mutuato da un'altra lingua, ma entrato nell'uso comune... almeno per il suo ambito specifico.

Habanera s.f. spagn. (pl. habaneras); in it. s.f. (pl. orig.) mus. Ballo lento, simile al tango, di origine cubana.

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Naturalmente, trattandosi di una danza con un suo retroscena geografico e culturale, non sarebbe facile inserirla in una storia ambientata in un mondo diverso dal nostro, a meno di non riuscire a trovare una spiegazione per la sua esistenza. L'ideale è scrivere di un mondo come il nostro, o il più possibile simile. La nostra Terra, con qualche differenza. E una volta scoperto che l'aria della Carmen L'amour est un oiseau rebelle è una habanera, sapevo a quali personaggi affidare il brano di oggi.


Era pericoloso. Molto. Ma a quel punto, ero ormai assuefatta al correre rischi.
Perciò, quando Sharona mi propose di andare a vivere assieme, io accettai.
– È un po' piccolo, ma sai come si dice... ci si sta, stringendosi un po'.
Amavamo entrambe la musica. Era ciò che ci univa, al di là di una certa attrazione fisica; perciò fu solo naturale che ci mettessimo a pulire il nuovo appartamento con il sottofondo di una radiolina.
Quando attaccò la habanera della Carmen, quella sensuale danza su e giù lungo i fianchi della lingua più provocante al mondo, iniziai a ondeggiare lo spolverino e il fondoschiena a ritmo della lirica.
Sharona sbirciò e rise. – Finiremo col non combinare nulla se mi distrai in questo modo, sai?
Ghignai, le feci una linguaccia e continuai, esagerando apposta le mie mosse.
Sharona appoggiò la scopa al muro, mi raggiunse e mi tolse lo spolverino di mano. Mi girai tra le sue braccia.
– Se devi ballare, almeno fallo bene – mi disse. Strisciò indietro il piede sinistro e io la seguii, impacciata. Non sapevo dove mettere le mani, come muovere le gambe, al contrario di lei che ancheggiava agile ed elegante.
Non era fatto di quello, mio mondo. Il mio mondo era fatto di spade, di scudi e incantesimi. Quando stringevo l'elsa di Fulmine Blu nel pugno, era allora che sapevo come danzare con il mio avversario. La spinsi indietro e Sharona inarcò la schiena in un ampio giro e poi si raddrizzò. Lei era concentrata nel ballare la habanera. Io, invece, non potevo fare a meno di pensare all'altra me, quella sicura e forte. Di vedermi menare un fendente, parare, affondare un colpo. Vérys la Saetta Azzurra, mi facevo chiamare. E, tranne qualche batosta presa da un avversario o due che avevo sottovalutato, ero piuttosto brava nel gioco.
Ma questo Sharona non lo doveva sapere. Avrei dovuto nasconderle i lividi, non dirle nulla di dove andavo quando non ero con lei. Era pericoloso, vivere assieme.
Ma non era il primo rischio che correvo, e non sarebbe stato l'ultimo.

giovedì 15 marzo 2018

Chi fa da modello?

I miei primi personaggi assomigliavano alle persone della mia vita: parenti, amici, compagni di classe, insegnanti. Non avevano lo stesso nome, o lo stesso passato, o non facevano lo stesso lavoro. Ma prima o poi, nella storia, ecco che saltava fuori quel dettaglio, quel modo di fare o quella passione che rendevano riconoscibile il modello dietro al personaggio per chiunque ci avesse avuto a che fare.

Posso solo immaginare che sia capitato anche ad altri, di cominciare così, soprattutto se hanno iniziato a scrivere molto giovani, in quell'età in cui non si ha una grande esperienza del mondo e della psicologia umana. Si tratta di un punto di partenza migliore rispetto al creare tante copie di se stessi, tutte uguali, o personaggi piatti e stereotipati. Ma usare coloro che ti sono più vicini come base per un personaggio presenta qualche... inconveniente.

  • Uno dei problemi maggiori è che quelle persone, inevitabilmente, si riconosceranno nei tuoi personaggi. Potrebbero quindi criticarti per non averli resi al loro meglio. Lamentarsi se al personaggio capita qualcosa che non li soddisfa, o se agisce diversamente da come avrebbero fatto loro. Oppure offrire suggerimenti per le prossime avventure della loro copia. E se poi hai riservato loro un ruolo marginale o la parte dell'antagonista... non sia mai! Tieniti pronto a rifare il tutto e ad aggiustare il torto.
  • Se vuoi bene alla persona che hai usato come modello per un personaggio, esattamente come accade a una versione di te nella storia, potresti essere restio a coinvolgere la tua creatura d'inchiostro in eventi troppo sgradevoli. Al contrario, se nutri qualche risentimento per quella persona della tua vita, dovrai resistere alla tentazione di prenderti una rivincita sulla pagina.
  • La varietà di tipi di carattere a cui puoi ispirarti è ristretta e... di loro, vedi solo ciò che ti lasciano vedere. Questo ti limita nella creazione di personaggi differenti (a parte coloro con cui sei costretto a interagire che tu lo voglia o meno, le persone di cui ti circondi sono quelle che ti piacciono, con cui vai d'accordo, con le quali hai un'affinità). E ti sarà difficile avere una visione più complessa dei loro processi mentali, sia perché hai come indizio solo le loro parole e il loro comportamento, sia perché non sai nulla di chi sono quando non sono con te.
  • Un caso raro ma comunque possibile, è anche quello di inimicarsi per sempre qualcuno o rischiare persino una denuncia, se rendi pubblica una storia con un personaggio che rivela particolari che quella persona avrebbe preferito mantenere segreti.

Per tutti questi motivi e per altri che ti saranno venuti in mente (continua pure la lista nei commenti, se vuoi!), molto meglio prendere spunto da un estraneo, qualcuno che hai incrociato per caso e che non rivedrai. Vero, non potrai mai conoscerlo abbastanza da riportare sulla pagina un frammento della sua anima, uno scorcio veritiero su di lui o lei, ma tranquillo: non dovrai rendere conto a nessuno delle imprecisioni, se il tuo personaggio e la persona non collimano. Anzi, è vero il contrario. Lo sconosciuto sarà per te come una nuvola, un'immagine astratta su cui proiettare la tua fantasia di personaggio. Prendi ciò che ti serve, alcuni tratti della fisionomia, un modo di camminare o di parlare, la gestualità, un'opinione che contrasta con ciò che sei abituato a pensare. E, da lì, sviluppa qualcuno di completamente diverso.

Impara ad ascoltare, a guardare. A raccogliere ciò che incontri nel mondo come un tesoro, e tenerlo nella memoria finché non troverà le parole per nascere. L'ispirazione può nascondersi davvero ovunque, e in chiunque.

lunedì 12 marzo 2018

Una persona da scrivere

Buon lunedì! Pronto per un nuovo esercizio?

Finora abbiamo esplorato le caratteristiche di un personaggio, dal nome, all'aspetto fisico, al carattere e come si esprime... Ma da dove si può trarre ispirazione per ideare queste caratteristiche? In altri esercizi ti ho già fornito come spunto un'immagine, una domanda, o gli esiti di un generatore casuale di nomi o descrizioni. Oggi ti chiedo di uscire e guardarti attorno. Ci sono così tante possibilità, tante idee là fuori. Devi solo trovarle.

La prossima volta che esci di casa, questa è la tua missione:

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Guardati attorno. Cerca tra coloro che incroci qualcuno che attiri la tua attenzione.

Mentre passeggi per strada, mentre sei seduto al tavolino di un locale o mentre spingi il carrello della spesa lungo la corsia di un supermercato... non c'è luogo in cui tu non possa trovare ispirazione. Forse di tratta di un vestito fantasioso, di un tatuaggio il cui significato rimarrà sempre oscuro, di una frase che hai origliato di passaggio o di una fisionomia curiosa. Cerca di notare tutti i dettagli che ti possono essere utili per stimolare la tua creatività.

Chiediti: chi è? Da dove viene, e dove sta andando?

Non importa che tu riesca a dedurre correttamente, come potrebbe fare Sherlock Holmes, particolari della vita di quella persona. Lascia che sia come una macchia d'inchiostro o una nuvola, da interpretare a seconda di quello che tu ci vedi.

Descrivi che cosa ti ha attirato, e racconta in un brano almeno un pezzetto della sua storia.

Immagina un dettaglio del suo passato, magari proprio quello legato alla caratteristica che te lo ha fatto scegliere tra gli altri. Oppure, prova a scrivere di ciò che farà nel futuro più immediato, proprio dopo che tu lo hai incrociato per strada.


Ma ora basta leggere, che aspetti? Esci e va' a cercare colui o colei che ti possa ispirare a scrivere. Poi torna qui, a riferirmi ciò che hai visto con gli occhi e con la fantasia. E se sono riuscita a offrirti uno spunto in più per creare un personaggio, ma non te la senti di condividere ciò che hai scritto, fammi sapere ugualmente che ti sono stata utile!

Giovedì della settimana prossima sarà offerto rifugio all'ombra della Piuma a un testo tra quelli che troverò nei commenti e al suo autore, con una breve biografia e collegamento a blog e pagine personali/altre opere edite, per chi lo desidera.

sabato 10 marzo 2018

Galaverna

Ricordo che una volta sono passata in una valle racchiusa tra i monti, e ovunque guardassi vedevo solo alberi bianchi, ricoperti dai cristalli di ghiaccio che avevano raccolto durante la notte. Uno spettacolo impressionante e magico. Non avevo parole per descriverlo allora, ma ora ne ho una. Eccola qui: galaverna.

Galaverna [ga-la-vèr-na] s.f. region. Ghiaccio che si forma su alberi, foglie e oggetti rimasti all'aperto.

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Per il brano che accompagna la parola di oggi non ho dovuto pensarci troppo, avendo già a disposizione qualcuno come Neve. Mi è venuta in mente lei appena ho letto la definizione, e come il protagonista del racconto ho seguito le sue impronte per vedere dove mi conduceva.


Ero uscito per rinforzare le barriere che proteggevano il rifugio. Era un compito talmente facile da risultare noioso, alla lunga: sostituire gli amuleti spezzati con i nuovi gingilli preparati da Belial e spruzzare su tutti la mistura nauseabonda della boccetta di vetro scuro. Lo facevo almeno una volta al mese, e di solito non avevo motivo di restare fuori più a lungo del tempo che occorreva per completare il giro della casa, né di allontanarmi dal perimetro.
Ma vidi le impronte.
Piccole orme di piedi tracciate in cristalli di brina.
Partivano da dentro il perimetro, da quello che rimaneva del vecchio pozzo, e puntavano dritto verso l'esterno, oltre il cerchio di protezione e più avanti, tra gli alberi, dove i passi si perdevano tra felci e arbusti. Sapevo cosa significava.
Neve.
Neve era tornata, e sembrava che volesse invitarmi a seguirla.
Non mi fidavo abbastanza di lei da non considerare l'eventualità di una trappola. Prima di seguire le orme, mi armai.
Due amuleti di protezione al collo, per nascondermi ad altri occhi.
Biancospino avviluppato a un chiodo contro gli incantesimi.
Rete di corda di campana, ornata da rune incise nel ferro, per impedirle di scomparire.
Lanterna con una candela bagnata da lacrime di cieco, per rischiarare la strada e rivelare gli inganni, magici e no.
Per la prima volta, non andavo a un nostro incontro impreparato. O almeno, così pensavo.
Avevo sottovalutato quanto potere Neve avesse sul suo elemento. Più m'inoltravo nella foresta e più i rami si ricoprivano di un manto di lucente galaverna. Cristalli gelidi e affilati, che intrappolavano le foglie verdi di una primavera inoltrata in un impossibile inverno.
Gli alberi erano candidi. L'erba gelata scrocchiava sotto le mie scarpe.
Una voce stridente come graffi su una lavagna calò da sopra la mia testa.
– Ti piace il mio mondo, Infero?
Guardai in alto. Su un ramo a tre metri da terra, acciambellata in un nido di galaverna, una donna bianca come la neve mi fissava con occhi dalla pupilla verticale.

giovedì 8 marzo 2018

La giustizia degli alberi

(racconto ispirato dall'esercizio Le ultime parole)

Una doverosa avvertenza: avevo all'inizio pensato di glissare su certe espressioni e tagliare il finale, lasciando all'immaginazione con frasi come "mi riempie di insulti" o "conclude con una imprecazione", ma poi mi sono ricordata il consiglio di Stephen King. Sii sincero, scrivi in modo onesto, se un personaggio si esprime in quella maniera, riporta le sue parole. L'ho seguito, quindi il racconto di oggi contiene linguaggio scurrile e temi forti, e ti invito a non proseguire se ciò ti disturba.

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Io so una cosa che lui non sa. Più di una, ma il punto fondamentale è questo: io non sono più la ragazza spaventata di quella notte. Perciò trovo molto divertente che mentre me ne sto appoggiata al bancone con l'aria più serena del mondo, lui mastica a vuoto in un silenzio turbato, gli occhi fissi su di me.
– Ho detto: ciao – ripeto tranquilla. Inclino la testa e riprendo a sorridere.
I suoi amici mi guardano e smettono di ridere. Sono rimasti in pochi: due di loro li riconosco e, ne sono certa, loro riconoscono me. Il terzo invece è nuovo, perplesso, e interessato.
Riporto gli occhi sul mio uomo.
– Che cazzo ci fai tu qui? – mi apostrofa lui.
– La stessa cosa che fai tu. Mi diverto. Posso offrirti qualcosa da bere?
Lui sbuffa, appoggia le braccia conserte al bancone e si curva in avanti. – Non voglio niente da te. Avresti fatto meglio a stare zitta...
Vedo le sue labbra continuare a muoversi formulando parole a bassa voce, soffocate dalla musica del locale. Non è difficile immaginare i modi in cui mi chiama.
Volgo le spalle al bancone e osservo una ragazza ballare in mezzo alle sue amiche, ricci biondo rame, un vestito rosso e un sorriso ampio da bambina, il giorno del suo compleanno. Ai margini del gruppo, un ragazzo con un bicchiere di mojito a metà la punta. – È vero, tutto quello che volevi lo hai già preso – replico al mio uomo. Mi curvo verso di lui e aggiungi a voce più bassa: – E probabilmente avrei fatto meglio a stare zitta, visto come è finita.
Mentre il ragazzo si avvicina al gruppetto intento a ballare e rivolge la parola a un'amica della bionda vestita di rosso, il mio uomo alza gli occhi e mi chiede. – Che cosa vuoi, Christie? Soldi?
Scuoto la testa. – Mary Autumn. Mi faccio chiamare Mary Autumn, adesso. – Distolgo lo sguardo dal ragazzo: è innocuo, al contrario dell'uomo che ho accanto. – E non voglio niente, solo bere un po'. Ho sete, voi no?
Coinvolgo i suoi amici con un mezzo sorriso, ed è facile allora accumulare i bicchieri sul bancone mentre parliamo del niente, proprio come quella notte, e la sua diffidenza si scioglie nell'alcol. Solo che, al contrario di quella notte, a fine serata la proposta di accompagnarmi a casa è la mia. Mi appoggio a lui, gli infilo una mano in tasca, e mentre è distratto da altri pensieri gli prendo le chiavi dell'auto. – Però guido io. Tu sei troppo ubriaco – gli dico, sollevandole in alto. Lui cerca di afferrarle, ma io porto indietro il braccio e lo alletto con un: – E se vuoi, puoi restare da me.
I suoi amici fischiano, commentano, ridacchiano, e vengono avanti. Scuoto la testa. – Uno alla volta. Sono una ragazza per bene, io.
Li lasciamo indietro. Sfiliamo verso l'ingresso del locale, tra luci soffuse e faretti colorati, e sopporto la mano che mi piazza sul fondoschiena mentre lo accompagno alla sua Maserati.


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Sono stata brava: non ho mosso una foglia per tutto il tragitto, nonostante le sue avances e i suoi "allora dillo che quella sera ti è piaciuto, dillo!" ululati tra esalazioni alcoliche. Non incrociamo un'auto per chilometri lungo la strada: lui l'aveva scelta per questo, anni fa. Accosto e spengo il motore. Ci siamo solo noi e gli alberi. Lui guarda fuori. Guarda me. – Dove cazzo siamo?
– A casa mia. Vieni! – lo esorto, e scendo. Lontano dalla città, dagli alti palazzi che intrappolano il vento, posso finalmente respirare di nuovo. Allargo le braccia, e sono il vento che accarezza i rami, sono le foglie che frusciano. Rilasso le braccia e m'incammino tra gli alberi.
Lui è sceso e ha chiuso la portiera, ma è rimasto accanto alla maserati. Quel minimo di lucidità che ha ancora gli dice di non fidarsi. Gli indico un punto più avanti. – Casa mia è da questa parte... coraggio, non avrai paura di una donna? Che cosa ti posso mai fare io, te lo ricordi di quanto sei forte, o no?
Lui ghigna e si affretta a raggiungermi. Deve appoggiarsi agli alberi per non cadere, sento le sue mani addosso quando tocca un tronco dopo l'altro. Sopporto, ma quando mi arriva davanti e allunga le mani per aggrapparsi a me, mi tiro indietro e lo lascio piombare a terra.
Lui mugola, agita le gambe e si puntella sulle mani.
Mi piego su di lui, e assieme a me si piega ogni ramo. – Te lo ricordi questo posto, vero? È stato qui che mi hai portato. Mi hai lasciato là, sulla strada, in mezzo al nulla. Ma non ero da sola come tu pensavi.
Sporco di terra, lui alza gli occhi e mi rivolge uno sguardo astioso. Si mette carponi e fa per afferrarmi le gambe, ma io sono più veloce: una delle mie radici si avvolge alle sue caviglie e lo tira indietro, facendolo ricadere di nuovo steso a terra. – Che cazzo succede qui? – biascica, lottando per alzarsi. Lo stringo con un'altra radice alla vita e lo tengo giù.
– Vuoi sapere cosa succede? Te lo dico io. Succede che una volta, qui, mi è stata offerta "giustizia, non vendetta". Ho accettato, e mi sono affidata alla giustizia degli uomini. E ho scoperto che nella giustizia degli uomini la verità più convincente si ottiene con il denaro. Io ero solo una povera pazza, una che mirava ai tuoi soldi, che aveva tentato il suicidio e che non aveva una famiglia importante alle spalle. Come si può dare ascolto a una testimone così inaffidabile? Non lo so quanti anni hai passato dentro, alla fine. Troppo pochi. E tu non sei cambiato. Tu non sei pentito. Quante altre hai portato qui?
Lui solleva la testa e mi urla in faccia. – Nessuna! Nessuna, stronza, vuoi sentirmi dire che sei stata l'unica puttana che mi sono fatto qui? Te lo dico, sei stata la sola, e ora dammi una cazzo di mano a liberarmi da queste cose...
Lui cerca di allentare le radici, ma io stringo di più. Mi raddrizzo e allargo le braccia. La mia pelle si indurisce in una corteccia bruna e i miei capelli si ricoprono di foglie. Quando riprendo a parlare, dalle mie labbra fluisce in un coro la voce di molte donne, molte vite: – Bugiarlo. Ho raccolto le loro lacrime, ho ascoltato le loro preghiere. La giustizia degli uomini ci ha deluso. Ora è tempo della giustizia degli alberi.
Lo sento piangere, supplicare e graffiare il suolo in cerca di un appiglio mentre con le radici che lo avvolgono tiro verso il basso. I suoi piedi e le sue gambe affondano nella terra. Le sue lacrime non mi faranno cambiare idea, perché io so una cosa che lui non sa. La sapevo fin dal momento in cui l'ho visto al bancone del bar: questa è l'ultima volta che una donna avrà a che fare con lui.
Lo lascio sprofondare nella terra e riempirsi la bocca di fango. Io sono la terra, e mi conosco. So come disporre dei rifiuti organici. Oh, si agiterà per un po', sì. Ma poi se ne starà tranquillo mentre lo digerisco, e il mio corpo d'alberi crescerà più forte su ciò che resta di lui.
Mi siedo, attendo, e ascolto. Ascolto le grida delle mie sorelle.
Io sono una figlia della Madre, e offrirò il mio aiuto a chi lo chiederà, così come un tempo è stato offerto a me.

lunedì 5 marzo 2018

Addio

(racconto ispirato dall'esercizio Le ultime parole)

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– Non mi lasciare! – gridò Lisa voltandosi indietro mentre due notturni emaciati, dalle vesti lacere, la spingevano lontano da me.
– Va' con loro – la esortai a voce più bassa. – Non aver paura. Sono qui, dietro di te.
Mi fermai e vidi la luce della sua torcia affievolirsi, sempre più distante, e cedere spazio al lieve chiarore di luna che entrava dalle finestre in frantumi. Attesi di non scorgerla più e poi feci, per la prima volta, il contrario di quanto le avevo detto. Le girai le spalle e tornai dalle ombre in attesa nella sala. La maggior parte di loro era assiepata attorno alla portone d'ingresso del palazzo, che avevano bloccato con assi e vecchi mobili mezzi sfasciati e tarlati; altri sorvegliavano le finestre, divisi in gruppetti. Qualcuno di loro si era portato un'ascia o una spada. Nessuno parlava: i notturni stavano solo lì, in piedi, in attesa. Nel silenzio avvertii uno stridio e vidi un notturno alto e magro, dalle labbra bluastre e gli occhi smorti, che grattava con gli artigli il muro e apriva e chiudeva la bocca irta di zanne. Ovunque mi girassi, il lezzo di morte e di muffa, proveniente dai loro stracci e dai loro corpi, mi riempiva le narici.
Non avevo molto tempo, ma dovevo sapere.
Mi avvicinai in fretta a quello di loro che aveva la testa coperta da un velo di tessuto bianco, sporcato da grandi macchie color ruggine. L'odore del sangue, anche se ormai da tempo rappreso, era inconfondibile.
Le afferrai un polso dalla pelle grigia e la chiamai. – Sara!
Le abitudini non muoiono, neanche nella morte. Così lei si girò e alzò gli occhi ai miei, prima di coprirsi il volto con l'altro braccio, sibilando un agghiacciante: – Perché?
Un momento. Un momento che era stato sufficiente a imprimermi nella mente le sue guance scavate, le labbra che si erano ritirate sulle gengive lasciando scoperte una fila di zanne appuntite, gli occhi rossi, affossati nelle orbite.
Ciò che era rimasto di Sara si liberò dalla mia presa sul polso con uno strattone e mi girò le spalle. – Perché sei qui? Tu non dovresti... perché hai voluto vedermi così?
Indietreggiai di un passo, lasciandole lo spazio di andarsene, se voleva. – Perché non lo credevo possibile.
Le sentii fare una risata amara, gracchiante. – Che cosa? Che io fossi talmente aggrappata alla vita da accettare... questo?
Scossi la testa. Sbirciai gli altri notturni in attesa, all'erta, ombre guardinghe aggrappate alle pareti e dietro la porta. – No – le risposi. – Non credevo che i morti si sarebbero schierati. Sei stata tu, vero?
Sara erse la testa, si girò e mi fissò. Più di tutto, era inquietante non vederla respirare, non vedere le palpebre calare sui suoi occhi. – I morti non dimenticano. Sono ancora la loro regina – sibilò in tono imperioso. – E sono ancora anche la tua, se intendi tener fede al giuramento che mi hai fatto.
"Sì" stavo per risponderle, ma Sara avanzò rapida, le mani in avanti, e mi spinse a terra.
– E allora perché non sei con lei? – Sara non alzò la voce, ma la sua ira mi graffiò più delle sue lunghe unghie nere. Puntò un dito al corridoio dove avevo mandato Lisa e i due notturni a cui l'avevo affidata. – L'hai portata qui. Tu l'hai portata... non avresti dovuto. Vattene – mi ordinò Sara.
La fissai dal basso e trattenni un gemito. Era una di loro, ricordai a me stesso. Con la loro forza. – Non ho avuto il tempo... di dirti addio – mormorai. Mi alzai in piedi e spazzolai via dai pantaloni la polvere che il tempo aveva accumulato sul pavimento.
Sostenni il suo sguardo, mentre lei replicava: – Addio. E ora vattene.
– Addio, principessa.
Anche dopo averlo detto, non riuscii voltarle le spalle, né a muovere un solo passo lontano da lei. Sara avanzò di nuovo e mi spinse, ma in modo più lieve. – Vattene, stupido orecchie-a-punta!
Erano anni che Sara non mi chiamava più così. Da prima di diventare la regina di Laeverth. Sorrisi, ricordando la sua voce da ragazzina al posto di quella stridente che aveva da notturna. E le obbedii, mentre la luce della luna già veniva oscurata dai battiti di ali demoniache.
Sapevamo entrambi quello che stava per accadere nelle rovine di Llamado. I notturni erano forti, ma non quanto i demoni, e non avevano con loro armi d'oro in grado di ferire quelle creature. Sara li aveva convinti a schierarsi, non per vincere la battaglia, bensì per regalare a me e a Lisa il tempo che avevano rubato alla morte.

sabato 3 marzo 2018

Foriero

Lo sapevi che la parola che ho scelto questo sabato deriva da "foraggio"? Io no. Pensavo più a un qualche verbo latino che vuol dire "portare", e invece proviene dal soldato che aveva il compito di precedere l'esercito e foraggiarlo, ovvero procurare cibo e alloggio.

Foriero [fo-riè-ro] agg. Che precede e annuncia qualcosa.

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Magari è una scelta scontata, ma ho subito associato la parola "Foriero" al vento. E quando scrivo di vento, come ho fatto con Refolo, una delle prime che mi viene in mente è lei.


– Lyla!
Ero sull'altopiano assieme a Syuss e seguivo con gli occhi le sue evoluzioni in aria quando Zefiro mi chiamò. – Ascolta il vento – mi disse.
Le sue lezioni giungevano senza preavviso, repentine come la bufera da ovest. Abbassai lo sguardo all'orizzonte. La città era sotto di noi, lontana e rinchiusa nella nebbia. Solo i tetti degli edifici più alti bucavano la caligine, e tra di loro quello Tempio del Fuoco, da cui si levava un filo di fumo. Chiusi gli occhi e mi lasciai accarezzare da un soffio caldo. – Sarà un lungo autunno – decretai. – Caldo e umido, ma le piogge non cadranno fino all'ultimo mese.
Aprii gli occhi e mi voltai verso Zefiro. La sua espressione severa mi rivelarò che non era la risposta che si aspettava. – Ho forse sbagliato, Maestro?
Il sacerdote venne avanti e attorno a lui frusciò l'erba alta sfiorata dalla veste. Alla mia destra, Syuss calò in picchiata.
– No. Non sulla stagione, almeno – mormorò Zefiro. – Ma questo è un vento foriero di sventure, mia brezza.
Non avevo mai sentito la sua voce così malinconica.
Zefiro tese la mano sinistra: sul palmo riposava un minuscolo frammento, fragile e grigio, che mi ricordò un pezzettino di pergamena bruciata. Zefiro strinse le dita, ma il vento rapì il frammento prima che lui potesse trattenerlo.
– Il vecchio sacerdote del Tempio del Fuoco è morto, e la sua ancella è troppo giovane per proteggerci dall'oscurità. – Zefiro mi oltrepassò e si avvicinò allo strapiombo. – Dovrò aiutarla. Cercare nel vento stagioni migliori di quella che ci attende, e farmi foriero di esse.
Scossi la testa. Eravamo così in alto, distanti da tutto, intoccabili. – Il fuoco non è cosa che ci riguardi, Maestro.
– Ti sbagli – replicò il sacerdote. – L'aria può spegnere o alimentare il fuoco. Nessun elemento sopravvive da solo. – Zefiro si voltò. –  Il Vento ora è nelle tue mani, Lyla.
Poi compì quell'ultimo passo e cadde nel vuoto. Col cuore in tumulto, corsi al precipizio e guardai giù, ma non lo vidi. Il mio maestro era svanito.

giovedì 1 marzo 2018

Ragnatele di parole

L'ho già scritto che adoro i dialoghi? No? Allora eccolo qua: adoro i dialoghi. Sono la parte che mi piace di più e che, mi hanno detto, mi riesce meglio. Bizzarro, dal momento che non sono una che parla molto. Forse perché così ho imparato ad ascoltare, a sentire il ritmo delle parole. Certo, anche aver fatto teatro per tutti gli anni delle scuole superiori probabilmente c'entra qualcosa. Ma questa è un'altra storia.

Potresti pensare che un dialogo fatto bene sia solo, o principalmente, una trasmissione di informazioni. Tra personaggi, e dai personaggi al lettore. Per come la vedo io, non è così.

Non si tratta solo di cosa viene detto, ma di come, e spesso anche di "a chi". Ogni personaggio si esprime in modo diverso, ha il suo ritmo, alcune parole ed espressioni che usa di frequente e altre che non si sognerebbe mai di pronunciare: se nel leggere ad alta voce le sue battute ti viene spontaneo usare una voce e un'intonazione diversa da quella con cui leggi le battute degli altri, complimenti hai centrato l'obiettivo. Inoltre, nello scegliere come e cosa dire, ogni personaggio dimostra quanta confidenza e che tipo di relazione ha con chi lo ascolta. Sembra complicato, vero? In effetti, un po' lo è, ma la fortuna è che non devi necessariamente riuscirci alla prima scrittura. La revisione e le varie fasi di riscrittura di un testo servono anche a questo. Quando conoscerai abbastanza bene le tue creature, saprai anche come parlano.

Dunque, in concreto, che cosa c'è dentro un dialogo? Voglio mostrarti alcuni esempi tratti dai brani che ho scritto per questo blog.

Informazioni... e sottintesi

Quello che salta maggiormente all'occhio è che un dialogo contiene informazioni. Informazioni che passano da un personaggio all'altro, e dalle pagine al lettore.
Handel imprecò. – Guardati attorno. Non verrà nessuno.
Cinde scrutò il cielo eburneo, poi la loro navetta color ruggine, che assieme alla divisa nera di Handel era l'unica macchia in quel candore. Quanto a lei, il bianco e l'argento le donavano di più. – Non possiamo andarcene. Quel carburante ci serve.
– Sì? Non quanto ci serve la vita. – Handel lottò per liberare il piede, poi indietreggiò. – È chiaro che qui non abita nessuno. Non c'è acqua, cibo, niente di valore. Perché darci appuntamento qui? Dammi retta, siamo in un dannato cimitero.
da Eburneo

Da questo frammento di dialogo si può comprendere il motivo che ha portato i due a essere dove sono e alcune caratteristiche di quel luogo. Informazioni che il lettore non poteva sapere prima di leggere le loro parole, ma che entrambi i personaggi già conoscevano. Solitamente sconsiglierei questo tipo di dialogo, e me ne terrei ben distante: non è naturale che due o più personaggi si dicano l'un l'altro ciò che già sanno, solo per informare anche chi legge. A meno che... a meno che non ci sia "un altro testo" sotto, o un motivo diverso per parlarne, che non sia il mero passaggio di informazioni. In questo caso, tolti tutti gli abbellimenti e le nozioni utili a chi legge per comprendere la situazione, il dialogo avrebbe potuto essere:

– Andiamo via.
– No. Restiamo.
– Andiamo via!

Così è chiaro che è in corso un litigio, o almeno, una discussione. Lo scopo dei due personaggi non è quello di comunicare il motivo della loro presenza lì o ciò che hanno intorno, quanto di usare quelle informazioni per persuadere l'altro ad accettare il corso d'azione scelto.

Umore e carattere

Un dialogo è utile per presentare un personaggio, rivelando sia il suo carattere (che difficilmente può cambiare nel corso della storia), che il suo umore in quel particolare momento (che può modificarsi a seconda delle circostanze, e quindi influenzare il modo di esprimersi).
– Ve l'ho detto un milione di volte! A che pro svegliarsi presto se tutto ciò che devo fare tutto il santo giorno non è altro che sentire quelli di fuori lamentarsi di noi. Isme! – Castai si sedette di peso sulla panca, e senza spendere un solo commento sulla novità della giornata, si spalmò una generosa porzione di miele su una fetta di pane. – Diglielo, no, diglielo com'è là fuori... manca solo che si radunino con le accette per buttarci giù la casa. 
da Frugale

Com'è Castai? Non sembra che dica "Non rompete, sono già irascibile, brontolone e pessimista di mio, e in più oggi mi sono svegliato male".

Ritmo e pause

Personaggi diversi possono essere più o meno loquaci, tendere a parlare a velocità diverse, e una pausa o un discorso lasciato all'improvviso in sospeso può avere un grande significato.
– Eccoci qui, siamo arrivati! Qui puoi dormire al sicuro, te l'ho promesso, no, che ti portavo al sicuro? – Will batté la mano sulla parete esterna della casupola. – Possiamo restare qui qualche giorno prima di ripartire verso nord, lo so che non sembra, e che a confronto della tua vecchia casa a Laeverth è molto molto poco, ma questo posto è bellissimo, lo giuro! Era  il capanno di caccia dello zio Alvàr, ci sono venuto spesso qui, con lui e con mio papà...
Will tacque, chinò il capo e poco dopo tirò su col naso. [...]
– Sacerdotessa! – mi chiamò Will da dentro la stamberga. Il cielo della sera si stava oscurando e presto i demoni sarebbero usciti dalle loro tane. Quel luogo non era sicuro, ma non avevamo di meglio.
– Vieni a vedere, presto! Ho trovato un arco: ora ti posso difendere, vedrai, non dovremo più scappare...
– Will. Una freccia comune non può scalfire quelle creature – gli ricordai.
da Stamberga

Come hai letto le battute di Will, e come l'unica della sacerdotessa? Chi parla in modo più rapido? Spero sia chiara, anche se non viene esplicitamente rivelata, la differenza d'età tra i due... E quando Will si interrompe, riesci a capire il perché, e quali pensieri gli passino per la testa?

Distanza o familiarità

In un dialogo dovrebbe essere chiaro se due personaggi si conoscono e che relazione c'è tra loro. In questo caso, ti propongo un confronto:
La regina mi fece segno d'alzarmi, nel proseguire celiando: – Alle Torri di Smeraldo non coltivate la terra, non allevate bestiame, non pescate e non commerciate. Da dove viene dunque il vostro sostentamento? Ho sentito dire che la ricchezza della vostra terra è costituita da stregoni, e che voi stesso lo siate.
– Maestà – replicai con un sorriso. – Se lo fossi, vi avrei recato in dono le stelle del cielo, e avrei messo la mia magia al vostro servizio. Ma tutto quello che posso portarvi sono gioielli, e uomini, e lame.
da Celiare
– Ti fa male?
– Solo nell'orgoglio. – Katrina serrò le palpebre e mugolò: – Odio perdere.
– Non ti posso lasciar sola un momento che vai a infilarti in una rissa? – scherzai, tirandole indietro i capelli. per guardare fin dove si estendeva il livido. [...]
Katrina allungò le mani, io le afferrai i polsi. – Adesso basta, questa storia finisce qui. Si va all'ospedale.
Se lei non voleva prendersi cura di sé, lo avrei fatto io.
– No! – protestò Katrina mentre la strattonavo per farla alzare. – Niente ospedali, niente medici, io sono una guerriera!
– Sarai anche una guerriera, ma sei una guerriera ferita. Perciò adesso o ce ne andiamo all'ospedale o ti decidi a dirmi chi è stato. 
da Languore

A parte l'ovvia differenza tra l'uso del voi e del tu, ce ne sono altre. Nel primo lo stile è più pomposo, il modo di parlare è meno diretto, e l'argomento meno personale. In un caso, si parla di qualcosa di esterno e concreto, ricchezze e doni; nell'altro, di dolore ed emozioni. Quando due persone si conoscono, inoltre, molto di quello che intendono dirsi può restare inespresso, sono più frequenti gli scherzi, inutili le spiegazioni e i preamboli. In un testo più lungo, inoltre, sarebbe possibile notare come varie conversazioni tra gli stessi personaggi che già si conoscono tendono a seguire uno schema già consolidato, mentre quelle tra due che all'inizio sono estranei si evolve con l'approfondimento della conoscenza reciproca, man mano che si creano un linguaggio e una serie di ricordi condivisi.



Mi fermo qui per ora, il resto lascio a te scoprirlo con la pratica, scrivendo. Spero intanto di averti dato qualche spunto di riflessione su cui cominciare a lavorare ai tuoi dialoghi, o attraverso il quale leggere tra le righe di un romanzo o un racconto. Ora tocca a te, che ne pensi? Che cosa non può mancare nei dialoghi tra i personaggi?
Lasciami la tua ricetta segreta nei commenti qui sotto.