lunedì 28 febbraio 2022

Senza via d'uscita


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Foto di Alex Azabache da Pexels


Era in trappola. E quel che era peggio, non era da solo.
Il fuggiasco ne era stato consapevole fin da quando aveva udito il mostro entrare nella caverna, la sua voce terrificante rimbombare tra le pareti di pietra, e gli echi far crollare il passaggio. Conosceva a sufficienza il labirinto di grotte da sapere che non c'era altra via per l'esterno, se non scavando. Non ne aveva il tempo: la creatura era sulle sue tracce.
Oltrepassò le montagne di coppe, statue, gioielli e monete rilucenti d'oro e di scintillanti pietre preziose, accumulate nel corso dei millenni da più generazioni di draghi rossi, il flagello di quelle terre, e dal cumulo più vicino al suo passaggio una valanga di orpelli tintinnanti scivolò lungo il pendio. I suoi occhi brillarono al pensiero di quell'immenso tesoro, ma lui sapeva di non avere il tempo di metterne al sicuro almeno un po' prima che il mostro lo trovasse.
Con rammarico, si lasciò quelle ricchezze alle spalle e seguì i bracieri che aveva acceso per orientarsi in un labirinto di gallerie scavate nella roccia. Le fiamme crepitanti lo illuminarono impietose, traendo riflessi scarlatti dalla sua livrea. Li aveva accesi, sciocco com'era, pensando che sarebbe stato al sicuro in un antro vuoto, che la luce e il calore delle fiamme avrebbero potuto alleviare l'oppressione di quelle ampie caverne oscure. Pensava che i fuochi gli sarebbero stati amici mentre si aggirava indisturbato tra le grotte e le gallerie di collegamento; e invece, erano diventati dei nemici, spie rivelatrici e creatori di ombre spaventose. Mai spaventose però quanto la creatura alle sue spalle, i cui passi riecheggiavano tra le stalattiti che pendevano dal soffitto. Si era fermata a tuffarsi nei cumuli d'oro, di zaffiri e rubini, indovinò lui nell'udire i tintinnii moltiplicarsi. Il mostro giocava con quel tesoro come se gli fosse appartenuto, come se non fosse stato solo un ladro in casa d'altri, e lui ebbe un moto di stizza.
Ma finché si attardava in quella sala, si disse, per lui c'era tutto il tempo di trovare un nascondiglio.
Non era facile, tuttavia. Non c'erano nicchie grandi a sufficienza nelle pareti di pietra, non c'erano anfratti in cui il mostro non potesse infilarsi, non c'erano vie di fuga.
Il tintinnio metallico alle sue spalle cessò, e lui seppe di non avere nemmeno più tempo. La creatura lo avrebbe trovato, se non si fosse nascosto subito. Doveva fare una scelta all'istante.
Il fuggiasco si tuffò nella galleria alla sua destra. L'antro era buio, i bracieri non erano stati accesi lì, e lui si illuse di essere al sicuro. Si appiattì contro una parete, rannicchiato a terra, e cercò di farsi piccolo, il più piccolo possibile, anche se era un'impresa difficile. Dietro di lui risuonò il grido acuto della creatura, e lui sbuffò inquieto, restando in ascolto di quella voce sgraziata, di quella cantilena beffarda.
– Draaaagoooo? Draghetto draguccio draghiiiiiinooooo?
E all'improvviso, quel che lui temeva avvenne. La bambina apparve all'imboccatura della galleria, illuminata dal fuoco del vicino braciere. E lui, il drago rosso, seppe di non avere più scampo.

sabato 26 febbraio 2022

Belluino

Belluino [bel-lu-ì-no] agg. Da belva; bestiale, ferino; fig. feroce, disumano.

Etimologia: dal latino beluinus, derivato di belua, "belva".



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Fummo costretti a tenerlo fermo in quattro mentre la scassinatrice gli toglieva i ceppi, perché il ragazzo si agitava, scalciava, ringhiava e tentava di morderci come se fosse stato una belva selvaggia. I miei tentativi di spiegargli che lo stavamo liberando furono inutili, e di fronte al suo sguardo belluino che scattava da un viso all'altro, dovetti arrendermi.
– Stiamo solo perdendo tempo – mormorò Runx, distraendomi dall'esaminare le ferite recenti del ragazzo, frutto delle torture dei demoni che gli avevano strappato urla atroci, riecheggianti nelle caverne. Non lo avremmo mai trovato in quel labirinto, altrimenti.
– E che cosa suggerisci, lasciarlo qui?
Il mezzo satiro si strofinò il naso con la mano libera. – È un animale. Credi che ce ne sarà grato, o che ci sarà di qualche utilità?
Scossi la testa. Sbirciai le sue zampe caprine e le corna sulla sua fronte, appena accennate. – Dicevano lo stesso di te, e guardati ora.
Runx era l'ultimo da cui mi sarei aspettata un commento del genere.
– Ma io sono un animale, capo. – Runx mi lanciò un'occhiata lasciva e scoppiò in una risata belluina, fatta di grugniti e ragli, che si smorzo di colpo non appena Hanai tolse le mani dall'ultimo ceppo, la serratura rotta dai viticci che ancora le avvolgevano le dita.
– Libero! – esclamò la scassinatrice, la voce melodiosa storpiata da un accento straniero. Tutti noi ci tirammo indietro.
Il ragazzo si sollevò da terra, e a schiena curva scattò verso l'uno o l'altro, costringendoci a indietreggiare.
– Buono – dissi, e fu a quel punto che lui fece un urlo belluino e me lo ritrovai sopra. Dovevo avergli dato l'impressione di essere l'avversario più debole, ma si sbagliava, oh, se si sbagliava. Spinsi con una mano sul taglio sul suo addome, e con l'altra gli afferrai in braccio ferito, e mi girai per costringerlo a terra. Avrei potuto fargli davvero male se Runx non si fosse avvicinato a noi con un sorriso sornione sul volto, e in mano una mela mezza smangiucchiata.

giovedì 24 febbraio 2022

Punizione esemplare


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Foto di KoolShooters da Pexels


Chiunque conoscesse il Corvaccio sapeva che con lui non c'era da scherzare. Io lo avevo imparato nei primi mesi passati con lui, e ci tenevo meno che mai a tornare legata sulla sedia, a sentire di nuovo gli spilli infilati sotto le unghie. Al solo pensiero, mi bruciavano le dita. Ero diventata scaltra e sapevo che non dovevo farlo arrabbiare.
Io e il Furetto lo conoscevamo molto bene, molto da vicino, ma non era così per quella gente. Si vedeva che ne avevano un sano timore, per come bisbigliavano al nostro passaggio mentre ci inoltravamo in quell'antro buio e umido accompagnati da un uomo alto, magro e cencioso, di poche parole, che rispondeva al nome di "Il Brusco". All'inizio, quando ci eravamo presentati alla sezione crollata delle fogne che faceva da ingresso alla loro tana, alcuni di loro avevano urlato minacce e cercato di allontanarci. Io ero mi ero messa all'erta, ma il Corvaccio, serafico, ci aveva spiegato che quelli erano solo schiamazzi da cornacchie, e che sarebbero cessati presto, non appena quei luridi mendicanti avessero capito che gli conveniva tacere e lasciarci passare.
Non era la prima volta che il Corvaccio faceva affari con la gente dei bassifondi. Informazioni comprate e vendute, soprattutto, ma anche manodopera a basso costo per certi affari loschi, o la vendita di refurtiva scottante per farla sparire al più presto dalla circolazione. Sapevo che a volte ricorreva alla feccia della società per facilitare il suo lavoro, ma io non c'ero mai stata a uno di quegli incontri. Almeno, non fino a quella notte.
Anche se il Corvaccio faceva affari con loro, di quella gente non c'era da fidarsi; perciò, per la mia sicurezza, per tutti loro sarei stata un maschio, un ragazzetto dai capelli rossi che il Furetto teneva sottobraccio con fare protettivo. La mia autentica espressione schifata era perfetta per dare l'impressione di un fratello minore seccato da quelle smancerie e dall'essere, appunto, trattato ancora come un bimbetto da tenere sotto controllo, per evitare che si mettesse nei guai.
Col senno di poi, sarebbe stato meglio passare tutta la sera col braccio del Furetto che mi pesava sulle spalle.
Invece, quando Il Brusco accompagnò il Corvaccio oltre una serie di tendaggi sistemati alla bell'e meglio a separare un salottino formato da casse sgangherate dal resto delle catacombe puzzolenti in cui quella gente aveva trovato rifugio, e noi fummo costretti ad attendere fuori, esclusi dalle trattative degli adulti, il Furetto se ne andò alla chetichella, attirato dal rumore metallico, tintinnante dei catenacci e di quello prolungato, ritmico e strisciante delle lame che venivano affilate. Se c'era qualcuno che stava per essere ammazzato, lui non si sarebbe perso la scena, anche se non era lui stesso a tenere il coltello. O almeno, questo era il motivo per cui immaginavo se ne fosse andato.
Non mi era mai passato per la testa che anche lui avesse i suoi affari, affari per i quali non voleva testimoni, non soprattutto qualcuno che fosse così facile da interrogare per il Corvaccio.
Così mi ritrovai da sola, e fu facile, per quella gente imprevedibile e violenta, accerchiarmi mentre vagavo smarrita in casa loro, buttarmi a terra e poi colpirmi.
Al Corvaccio non piacque affatto il taglio che mi lasciarono sullo zigomo. Lui ci teneva molto che i suoi angioletti pigliamonete apparissero presentabili, innocenti e lustri. A differenza della maggior parte dei mocciosi che abitavano quella fogna, che già avevano cicatrici, dita mancanti o una zoppia più o meno pronunciata, noi non dovevamo avere alcun segno che potesse identificarci, o denunciare la nostra appartenenza a uno stile di vita sregolato e pericoloso.
Il Corvaccio, quando mi vide col sangue che mi colava sul mento, si arrabbiò molto. Con me, per essermene andata in giro, con il Furetto per non avermi controllato, ma soprattutto con i responsabili di quello che considerava un grave danno a qualcosa che gli apparteneva. Oltre a quel taglio avevo dei lividi, e le nocche doloranti per essermi difesa, e il farsetto da maschio in parte strappato, tanto che me lo tenevo stretto con un braccio per non rivelare il corpo ancora acerbo da bambina che nascondevo al di sotto. E avevo un bel dire che non era poi così una cosa così grave, che lui poteva guarirmi con la stessa pozione che aveva usato la volta che ero caduta dal tetto, e che tutto si sarebbe sistemato.
No, il Corvaccio voleva i nomi di chi aveva osato farmi quello, voleva sapere chi meritava una punizione. Insisteva, ma io non lo sapevo, era troppo buio là dove mi avevano attaccato, non li avevo nemmeno visti in faccia.
Per me fu una vera sorpresa scoprire che gli importava così tanto della mia incolumità quando lui stesso mi aveva torturato per giorni su quella sedia, e quando non si era limitato a uno scrollone o a uno schiaffo le volte in cui lo avevo deluso.
– Brusco, voglio tutti gli uomini in una fila ordinata. Subito.
Il Corvaccio non alzò la voce nel dirlo, ma il suo tono mortalmente serio e l'occhiata che gli scoccò bastarono a convincere la mano destra del capo di quella combriccola che gli conveniva obbedire. Lo stesso Zambros, che tirava i fili di chiunque in quella baracca, lasciò il riparo delle tende, parlamentò un po' con il Corvaccio ed esaminò le mie condizioni afferrandomi per il mento con una mano lercia dalle unghie rotte, in modo da potermi girare il viso da una parte dall'altra. Infine inviò Schizzo e Battitacchi, due ragazzetti che erano rimasti di guardia all'ingresso della tenda, a facilitare il compito del Brusco.
In breve tempo una fila di uomini smunti, logorati dalla fame e dalla paura sopportò l'esame del Corvaccio che li passava in rassegna con lo sguardo, mentre allo stesso tempo esortava i responsabili a farsi avanti.
Fece tutto un discorso, a dire il vero, molto convincente, con quel suo tono mellifluo e scaltro, che in breve si riduceva alla dichiarazione di quanto fosse amareggiato dalla mancanza di rispetto che gli avevano dimostrato toccando qualcosa che non apparteneva a loro. Mi definì proprio così, una cosa di sua proprietà, il che mi costrinse a rivalutare la mia prima impressione: la sua premura non era rivolta a difendere me, bensì sé stesso, la sua reputazione tra quella gente.
Capii quella notte perché chi lo conosceva lo temesse tanto. Eravamo solo in tre, un adulto e due ragazzini, contro un'intera comunità sotterranea, eppure nessuno osò muoversi per farci fuori e risolvere in questo modo il problema. E, nello stesso tempo, nessuno si fece avanti dalla fila di uomini a prendersi la colpa. Solo cauti bisbigli riempirono il silenzio al termine del suo discorso, e il Corvaccio li fissò truce, ripeté un'altra volta la sua richiesta, e infine si avvicinò alla fila di uomini, come se volesse studiarli più da vicino per carpire segnali rivelatori dai responsabili.
– Nessuno? – chiese il Corvaccio. – Bene. Va bene. Se questa è la vostra scelta...
Accadde tutto all'improvviso. Io fui presa alla sprovvista, così come quell'uomo. Forse solo il Furetto si aspettava ciò che stava per succedere, anzi, lo pregustava col suo ghigno sadico e gli occhi attenti. In una mossa fulminea, il Corvaccio sguainò un pugnale e lo piantò nella gola dell'uomo che aveva di fronte. Quello rantolò, si portò le mani alla gola, e si accasciò a terra, con una pozza di sangue che si allargava sotto di lui.
– Ora capite – annunciò il Corvaccio, mentre l'uomo agonizzava a terra. – Toccate ancora qualcosa che mi appartiene e nessuno di voi, nessuno, sarà al sicuro.
Alla vista degli ultimi spasmi dell'uomo il Furetto, al mio fianco, si leccò le labbra. In tanti, me compresa, erano scioccati, incapaci di muoversi; solo chi stava alla destra del morto fece per attaccare il Corvaccio, ma quello che lo affiancava dall'altro lato lo trattenne e scosse la testa. Seppi solo più tardi, dal Furetto, che se gli fosse arrivato abbastanza vicino il Corvaccio lo avrebbe ucciso, e oltre a lui qualcun altro, così, a caso, per ritorsione.
Non provava piacere nella violenza il Corvaccio, diversamente dal Furetto, ma non esitava a usarla come mezzo per suscitare quel reverenziale timore che gli permetteva di camminare incolume nella tana di un branco di cani rognosi.
Quel sanguinoso promemoria bastò per evitare incidenti simili le successive volte in cui lo accompagnai a trattare i suoi affari tra i ladri, i tagliagole e i mendicanti delle fogne.

lunedì 21 febbraio 2022

Sacrificio


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Foto di Engin Akyurt da Pexels


Aspetto. Non posso far altro che aspettare. Con la fronte appoggiata al tronco di un albero, al limite esterno dell'accampamento del clan, e le unghie divenute lunghi artigli che scavano nella corteccia. Aspetto, e ascolto i segreti dell'aria.
La brezza scuote le fronde degli alberi in un fruscio sommesso e porta i suoi messaggi a questa povera vecchia. Soffia calda e umida all'alba di un nuovo giorno, risvegliando i tafani infreddoliti dalla notte che subito riprendono a ronzarmi addosso, note stonate, fastidiose, tra le voci ovattate e gracchianti delle cicale. Alle mie spalle, plasmo una coda per scacciare le mosche, mentre sollevo il viso e inspiro. L'aria odora di muschio, odora di cibo, qualche volta odora di morte, quando le carcasse delle prede non sono gli unici fardelli che i cacciatori portano sulle spalle al loro ritorno. La palude non è clemente con i giovani incauti.
Oggi, da qualche parte, qualcuno ha ucciso un ruamaku.
Ne sono certa, il vento è pregno del sentore acre e appiccicoso, simile a resina, del loro sangue rosso. Creature potenti e distruttive, i ruamaku. Invadono la nostra casa, uccidono i nostri cacciatori con la magia e con l'inganno, rapiscono i nostri cuccioli. A chi resta, non rimane che piangere e disperarsi per ciò che ha perduto. Soltanto di rado uno di loro trova la morte nella palude, e quello è un gran giorno, dicono, un giorno da ricordare.
Oggi, da qualche parte, qualcuno festeggerà una vittoria. Folli, io dico, perché non hanno idea di quanti ancora ce ne siano fuori dalla palude, al di là delle montagne. Non hanno visto le loro città formicaio, mucchi di terra e roccia che sorgono nelle piane alla luce accecante del sole, dove ogni albero è stato estirpato e ogni stagno, prosciugato. Non amano le forme di vita che non sono come loro, i ruamaku, e me lo hanno dimostrato cavandomi gli occhi. Io, più di chiunque altro, ho visto da vicino la loro crudeltà, prima di cessare del tutto di vedere.
Aspetto, qualche altra alba ancora, e lei sarà al sicuro, di nuovo con noi, con il clan, con me. La figlia di mia figlia, tutta la famiglia che mi sia rimasta. Aspetto, ma so quello che temo.
Ieri notte mi sono allontanata dal calore dei fuochi del clan. L'aria ha soffiato voci nelle mie orecchie, voci diverse da quelle dei grilli, dal gracidare dei rospi e dalle urla delle scimmie notturne. Voci diverse persino dal ruggito possente della bestia che si annida nell'oscurità. Ho seguito un sentiero di fango che cedeva sotto i miei piedi, molli gorgoglii odorosi d'acqua stagnante che passo dopo passo si è insinuata tra le mie dita, mi ha avvolto le caviglie, è salita ad accarezzarmi le gambe. Lottavo per camminare nel liquido limbo, finché un ruglio lontano non ha risvegliato in me la prudenza. L'acqua mi lambiva la vita, e io ero lontana dalla mia casa, lontana dalla sicurezza del clan, che cosa facevo lì? Il verso tremendo, minaccioso, si ripeté più volte, e io mi voltai per scappare, ma lì da dove venivo la strada era bloccata. Una collina di terra e di alberi sorgeva dallo stagno, e saliva, sempre più alta, risucchiando dentro di sé tutto ciò che la circondava. Vidi anguille e serpenti dibattersi al suo interno, vidi zampe di coccodrillo e ali di corvo, la pelliccia delle scimmie e le pinne dei pesci, e colonie di formiche e ragni zampettare ovunque sulla collina. Tutto ciò che era nella palude, era lì dentro, in quel monte di melma in continuo mutamento. Sulla sommità emerse il muso lungo e piatto di un eigk, ma senza le zampe sottili e scattanti, senza il lungo collo flessuoso. L'eigk mi fissò con i suoi grandi occhi scuri, poi aprì la bocca, ma quel che ne uscì non fu il verso di un eigk, bensì parole che io potevo comprendere.
– Quando lei te lo chiederà, lasciala andare.
Dopo quelle parole non vidi più nulla, e sollevai le mani a toccarmi le orbite vuote e raggrinzite. Non potevano essere quelli gli occhi con cui avevo visto il prodigio, e il crepitio e il calore dei fuochi, e le voci del clan, mi rivelarono che non mi ero mai mossa. Era stato con l'occhio-di-dentro che avevo visto la montagna che conteneva la palude, e quando me ne resi conto, capii anche che cos'era che avevo incontrato. La montagna era tutto ciò che esiste. Era Aku.
E adesso sono qui, e aspetto, e temo, perché le sue parole sono un sacrificio troppo grande per me. So che parlava di lei, la figlia di mia figlia, tutto ciò che mi resta. Sta affrontando da sola, nella palude, il passaggio tra la sua vita da cucciolo e quella da adulta, e non tutti ritornano da quella prova, e il sangue di ruamaku nel vento mi dice che altri di loro sono qui, perché quelle creature codarde non cacciano mai da sole, o comunque altre ne verranno per vendicare il loro simile ucciso.
Ho avuto altre visioni dopo quella prima, ma non so se dicano il vero o se siano nate dalla mia paura. Ho visto la figlia di mia figlia coprire le sue squame con la pallida e viscida pelle di un ruamaku, l'ho vita cambiare la sua forma in quella del nemico, ho visto il suo sangue candido scorrerle sulle mani, l'ho vista incatenata e sacrificata da una di quelle immonde creature al loro dio morto, immobile in un simulacro di pietra.
Aku non poteva volere questo. Non volevo crederci.
Ma oggi lei è tornata, e addosso ha l'odore di un ruamaku, e la voce di un ruamaku è dietro di lei. E a me sembra che ogni voce, gli strilli spaventati e rabbiosi del clan alla vista del nemico tra noi, il frinire delle cicale, i ritmici canti degli uccelli, persino il soffio del vento tra le fronde, ogni voce tace di fronte alla sua.
– Devo andare – dice lei, la figlia di mia figlia, tutta la mia vita. – Mi ha salvato. Gli devo altrettanto, è la legge.
Io non voglio, anche se lei me lo chiede, anche se Aku stesso me lo ha chiesto. La figlia di mia figlia, ancora senza un nome, non può dover già affrontare un viaggio così pericoloso in compagnia della più spregevole tra le creature. Lei però insiste e mi racconta ciò che lei stessa ha visto con l'occhio-di-dentro. E allora so che Aku l'ha scelta per un compito molto importante, una prova che ci salverà tutti, e io non posso impedirle di andare.
Troverà colui che è perduto, lo riporterà da noi, e lui ci guiderà alla più grande delle vittorie, alla sconfitta dei ruamaku. Questo farà la figlia di mia figlia, la discendenza di una reietta.
Solo al compiersi del mio tempo, solo al mio ultimo respiro comprendo davvero la portata del suo compito, il cambiamento che il suo apparente sacrificio porterà nel nostro mondo e nel mondo dei nostri nemici, e anche se so che non ne potrò godere il frutto, che non sarò qui ad accoglierla quando lei tornerà assieme al suo ruamaku per unire ciò che prima era diviso... io ne sono felice.

sabato 19 febbraio 2022

Rancoroso/rancore

Rancoroso [ran-co-ró-so] agg. Che prova rancore, che è pieno di rancore.

Rancore [ran-có-re] s.m. Avversione nei confronti di qualcuno per un torto o un'offesa subiti; risentimento.

Etimologia: deriva dal tardo latino rancorem, "rancidezza", dal verbo rancere, "essere rancido".



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– Mamma, il gatto mi sta di nuovo fissando!
– E tu ignoralo, tesoro. – Era la stessa storia ogni giorno. Uscivano di casa e il dannato felino era là ad aspettarli, i grandi occhi gialli corrucciati in un'espressione rancorosa. Impossibile definirla altrimenti, sebbene la donna sapesse che attribuire tali sentimenti a una bestia sulla base della mimica facciale fosse assurdo. Non che i gatti non potessero provare rabbia; ma di certo, la esprimevano in un modo diverso.
Il rancore che pareva animare il gatto non sfociava mai in soffi a denti scoperti, né in morsi, né in graffi, perciò non c'era motivo di pensare che la bestiola nutrisse sentimenti malevoli nei loro confronti. Madre e figlio, inoltre, non avevano fatto nulla che potesse giustificare l'avversione del gatto. Non avevano tirato la sua coda, minacciato con la scopa, o urlato per allontanarlo, nemmeno quando li seguiva nella stalla e sovrintendeva alla mungitura senza battere ciglio.
Per la continua sorveglianza e l'aria critica, la donna lo aveva soprannominato "capo", e spesso gli si rivolgeva con fare bonario, pigliandolo in giro come non avrebbe osato fare con il padrone, un uomo tarchiato e ben vestito che ogni mese veniva a riscuotere la sua parte senza aver fatto nulla.
– Va bene così, capo? – gli chiedeva la donna. Oppure: – Oggi sono proprio stanca... no, di più non posso fare. Se sei tanto bravo, provaci tu a governare le vacche!
Non si era mai aspettata una risposta, sebbene il figlio le avesse detto più volte di aver sentito il gatto brontolare. Ma era un bambino, aveva fin troppa fantasia, era normale.
Cominciò a non essere più tanto normale il giorno in cui, all'ennesima presa in giro, il felino replicò: – Donna, basta con le scuse, e parliamoci chiaro. Lo so che nascondi parte del denaro del signor Todaro. La mia domanda è: dove?
A quel punto la donna non poté più accantonare come infondate le sue impressioni. Impossibile sbagliarsi: la voce del gatto era inequivocabilmente intrisa di rancore.

giovedì 17 febbraio 2022

Il mostro in agguato


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Foto di Adriaan Greyling da Pexels


Le mie ferite stavano guarendo ed ero perfino riuscito a saziarmi quando, innumerevoli passi barcollanti più tardi, trovai rifugio dal calore di un sole impietoso e per me sconosciuto sotto una fitta coltre di verde. Il paesaggio era mutato a poco a poco: dapprima bassi arbusti spinosi erano spuntati qua e là tra l'erba secca e giallastra della savana, e si erano fatti sempre più numerosi e rigogliosi; nel frattempo ai gruppi di acacie e alle palme, la cui forma avevo presto imparato ad associare a una fonte d'acqua presso cui abbeverarmi e trovare nutrimento, si erano mischiate nuove specie di quelle torri vegetali, che nel corso del mio pellegrinaggio senza meta si erano fatte sempre più audaci e vicine fino a nascondermi del tutto ogni orizzonte e, alla fine, perfino la vista del cielo.
Ogni giorno in cui io vivevo, a dispetto di colei che mi aveva mandato lì a morire, una risata malevola mi sgorgava dal petto. Resistevo, tenace, ostinato, aggrappato alla vita con le unghie e con i denti, con ogni oncia della mia volontà pervicace. Non che avessi piani di vendetta, non mi dicevo "quando sarò più forte, tornerò e la distruggerò", no, non era questo il mio intento. Volevo soltanto continuare a esistere. Anche se in quel mondo aspro, abbacinante e rumoroso, ogni piacere era offuscato da un'immane fatica.
Trascinai le mie membra a un corso d'acqua dove stemperai i resti seccati del sangue che mi incrostava il viso in un fiume tanto lento da parere immoto. Sopra e attorno a me, più forti di quelli che mi avevano lacerato le orecchie nelle notti trascorse a vagare nella savana, la cacofonia di fischi, schiocchi, strepiti, versi belluini e cori animaleschi mi stava facendo impazzire. Urlai e agitai le braccia, invano. E poi lo vidi.
Fu dapprima un movimento al limite del mio campo visivo a tradirlo. Grigio come le rocce affioranti dall'acqua su cui aveva trovato riposo, basso e zigrinato, nell'immobilità la mia poca dimestichezza con le forme di vita locali mi aveva indotto a non ritenerlo degno di nota. Ma quando tornai a fissarlo, dopo quel lampo bigio colto con la coda dell'occhio, lo vidi aprire una lunga bocca irta di zanne e rivolgerla verso di me. Mi accovacciai sulla riva e allargai le braccia, afferrai manciate d'erba, le strappai, poi piantai le unghie nelle radici degli alberi. Il mio nervosismo era evidente, e crebbe in una frenesia ansiosa man mano che il tempo trascorreva a fissarci l'un l'altro da lontano, senza accennare a una mossa. Forse la creatura aveva fiutato qualcosa in me che lo rendeva sospettoso, nonostante le armi evidenti di cui disponeva e che suscitavano la mia invidia. Avessi avuto io una bocca così larga, così ben fornita di pugnali aguzzi creati apposta per afferrare e lacerare la carne morbida, non avrei esitato ad attaccare. Sbirciai tra il fogliame animato da ombre volanti e dall'intreccio di un variegato pandemonio, scelsi una di quelle voci e la feci mia, un rapido e acuto strillo che indirizzai alla creatura adagiata sulle rocce, una provocazione.
Funzionò: quella scivolò pigramente in acqua e non la vidi più. Scrutai la superficie del fiume, ma le increspature provocate dal suo tuffo mi avevano nascosto la direzione che aveva preso, e non riuscii a capire se si fosse allontanato alla chetichella o se si fosse avvicinato di soppiatto per tendermi un agguato. Nel frattempo, però, al chiasso incessante si era unito un altro rumore, più flebile: un fruscio cauto e strisciante alle mie spalle, più vicino, sempre più vicino. Stando accovacciato, mi girai verso la nuova fonte di un possibile pericolo alla mia esistenza.
Era forse lei? Era tornata a completare ciò che aveva lasciato a metà?
La creatura che emerse dalla giungla mi somigliava più di qualunque altra avessi mai visto. Era più alta, più massiccia e più scura, ma si muoveva su due gambe, e aveva due braccia che pendevano ai fianchi, e un viso piatto proprio come il mio.
Le mancavano le ali, e forti artigli al termine delle dita. Altrimenti, avrei giurato di essermi trovato di fronte a un altro Incubo vivente, un altro sopravvissuto in quel mondo atroce. Se solo avessi conosciuto le parole per giurare.
La nuova creatura simile a me ci mise meno tempo della precedente per valutarmi e reagire. Mi ero appena alzato in piedi quando quella urlò e mi lanciò contro un lungo aculeo che solo più tardi imparai a identificare come una lancia. La sua reazione, seppur più immediata, fu comunque troppo lenta per causarmi un reale fastidio. Schivai facilmente la lancia piegandomi di lato, e non appena mi superò, mi raddrizzai e scattai verso la creatura. Alle mie spalle, la lancia non era ancora caduta in acqua con un tonfo che già avevo afferrato il mio bersaglio. Quello riuscì a urlare solo: – Demone! – e poi: – Spettro, – prima che lo gettassi a terra sulla riva del fiume. O almeno, tale fu il senso delle sue parole, che ricostruii nella mia memoria molto tempo dopo.
La sua scarsa resistenza mi sorprese. Nonostante la stazza, ero bastato io, un adolescente ancora debilitato per le ferite inferte dalla sua solerte genitrice, per avere la meglio su quell'essere debole e lento.
No, non era davvero come me.
Puntai un piede sul suo petto e tirai verso di me il suo braccio, torcendo e strappando con forza finché non cedette con uno schiocco, perfettamente udibile tra le sue urla e la gazzarra di versi chioccianti e fischianti che era proseguita imperterrita sopra e attorno a noi. Il sangue sgorgò copioso dalla carne lacerata e io immersi la bocca in quella cascata cremisi, saziandomi del suo terrore quanto del nettare che bevevo avidamente. Poi gettai a terra il braccio e risi, risi a lungo, in maniera scomposta, e trattenendolo sempre a terra col mio piede gli afferrai una gamba e la sollevai. Piantai le unghie nella caviglia e nel polpaccio, ascoltandolo modulare le urla in modo diverso. Quello sì che era un concerto soddisfacente, gradito alle mie orecchie, il canto dell'agonia.
All'improvviso dall'acqua emersero le fauci della creatura grigia che si strinsero sul braccio ancora attaccato al corpo. Giocammo a tirarlo da una parte e dall'altra, io e la creatura grigia, finché le urla non si smorzarono e quello giacque inerme, e allora lo lasciai alla creatura grigia, che se lo trascinò in acqua. Il mio primo istinto, quando l'avevo vista sulle rocce, era stato di ucciderla, ma dopo tutto quello non mi andava più di ammazzare qualcosa che mi assomigliava molto di più per indole di quanto non mi fosse stato simile l'essere con le mie stesse sembianze esteriori. D'altra parte. la sola carne non soddisfaceva i miei appetiti, che si erano fatti con quell'ultima uccisione più sofisticati, perciò la creatura poteva averla tutta per sé. Io dovevo trovarne degli altri. Il suo dolore, il suo terrore, accresciuto dalla ragione e dalla consapevolezza di ciò che si era trovato di fronte prima ancora che iniziasse il mio attacco, erano stati molto più intensi di quelli delle bestie incaute che mi avevano attaccato nella savana, credendo che un Incubo ferito fosse una preda facile. Altri miei simili lo erano stati, ma non io. Io ero più forte di quel mondo ostile. Io avevo trovato il modo di trarre godimento dal mio esilio. E anche la cacofonia di voci ferine che attutiva i miei passi e il frusciare delle foglie man mano che mi allontanavo dal fiume iniziava a suonare in modo piacevole e familiare alle mie orecchie. Percorsi a ritroso la strada che la creatura simile a me aveva compiuto verso la sua morte. Un unico pensiero mi ronzava in testa.
Dovevo trovarne altri. Dovevo trovarne altri.
Ancora non sapevo che quelli erano uomini, e che quel mondo gli apparteneva. Che se da soli erano una facile preda, insieme, e con le armi giuste, potevano diventare un pericolo per la mia esistenza. Che erano loro il mostro dal quale dovevo proteggermi, nascondermi, fino a prenderne le sembianze, l'identità e le abitudini, se volevo sopravvivere. Celare me stesso persino a me stesso.
Questo sarei arrivato a fare pur di muovermi indisturbato tra loro, nel loro mondo.
Ma allora, in quel momento, tra quei primi passi nel mondo degli uomini, mi sentivo invincibile.
Io ero il mostro in agguato, ed era solo naturale, e giusto, che fossero loro a tremare inermi al mio cospetto.

lunedì 14 febbraio 2022

Aspettando un fulmine


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Foto di Guilherme Rossi da Pexels


– Due... tre... quattro... cinque... – Silvia si interruppe quando un rombo cupo precedette di qualche frazione di secondo un'esplosione crepitante, molto più intensa della precedente.
Si sta avvicinando, considerò, per nulla intimorita. Anzi, la sensazione che la pervadeva era di trepidante attesa, come alla vigilia di un evento importante. Ogni temporale poteva essere quello giusto, quello che le avrebbe riportato lui. Perciò Silvia aspettava, in piedi di fronte alla finestra chiusa, con la pioggia che tamburellava copiosa sui vetri e lampi di luce che rimbalzavano tra le nubi, accompagnati dal forte ruggito dei tuoni.
– Mi dispiace che il temporale abbia rovinato i tuoi programmi, – le disse sua madre, di passaggio in salotto, ignara del vero motivo per cui Silvia era assorta in osservazione del giardino flagellato dal fitto diluvio. – Ma stare alla finestra a fissare le nuvole non cambierà la situazione.
Silvia sospirò, consapevole che anche per la questione a cui stava invece pensando studiare il temporale non poteva cambiare lo stato delle cose. Lei non era come Laura o William. Lei non era in grado di distinguere tra un comune fulmine, costituito da una scarica di elettricità, e un vremra, una strada di luce, un varco tra due punti lontanissimi nello spazio. Si girò e afferrò il cellulare.
Digitò rapida un messaggio diretto a Laura. Per sua madre, che la sbirciò ancora una volta prima di uscire dalla stanza, non sarebbe stato difficile indovinare a chi stava scrivendo, ma Silvia era certa che non avrebbe saputo intuire il contenuto.
"Me lo dirai quando ritornerà, vero?"
Silvia inviò. Nessun bisogno di specificare di chi stava parlando, e infatti una decina di minuti dopo, passati a scrutare i fulmini e a contare in attesa dei tuoni, le arrivò una risposta: "Più probabile che sia tu a dirlo a me".
Silvia ridacchiò e con le dita giochicchiò con il pendente a forma di fiore della collanina, senza stringerlo, per non attivare la tecnologia miniaturizzata al suo interno. Non ha proprio idea di come funziona, pensò, mentre replicava al messaggio: "Non se capita lontano da qui come la prima volta".
Il Legame telepatico tra lei e William, che Silvia aveva dapprima odiato, poi studiato con curiosità scientifica e infine adorato per l'intesa che aveva contribuito a creare tra loro, aveva dei limiti per quanto riguardava la distanza. Lei e William non erano mai arrivati a testare concretamente quei limiti, ma Silvia ne era certa perché c'erano state delle volte in cui si era sentita come "scollegata", persa, e non riusciva a comunicare con lui. E in quel momento lui era così distante che Silvia era proprio sconnessa del tutto dal Legame, come se non fosse mai esistito, e la cosa le dava un certo fastidio.
Insomma, avrebbe almeno potuto rimandare il viaggio, visto che le cose tra noi erano appena cambiate... Silvia brontolò a mente, consapevole che nessuno avrebbe potuto sentirla o risponderle. Così come era consapevole che tra tutti i temporali che si scatenavano ogni giorno nel mondo, era assurdo pensare che proprio quello che stava flagellando la sua casa fosse quello giusto, il temporale che Silvia aspettava, con il fulmine... o meglio, il vremra che Silvia aspettava. E, d'altra parte, era ancora troppo presto per pensare che lui fosse già di ritorno.
Eppure Silvia non poteva fare a meno di sentirsi elettrizzata a ogni temporale, di restare alla finestra, in attesa, e in ascolto del più flebile pensiero. La risposta era sempre la stessa, uno sconfortante vuoto, segno che lui non era ancora di ritorno, per quanto le aveva promesso che lo avrebbe fatto. Con il tempo Silvia smise di aspettare e si accontentò della compagnia di Laura e delle estati passate da sua nonna Alice, che aveva vissuto a suo tempo una situazione paragonabile a quella di Silvia e non aveva più alcuna remora a parlarne e a insegnarle tutto ciò che sapeva.
E fu proprio quando meno se lo aspettava, in una giornata senza pioggia né fulmini durante una di quelle estati a casa di nonna Alice, che Silvia ricevette la più incredibile delle visite.

sabato 12 febbraio 2022

Vituperare

Vituperare [vi-tu-pe-rà-re] v.tr. (vitùpero ecc.) [sogg-v-arg] Insultare, ingiuriare qualcuno; frequente al passivo: essere vituperato.

Etimologia: derivato dal latino vituperare, composto da vitium, "vizio" e parare, "prepararsi, stabilire, fare".



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Foto di Yan Krukov da Pexels


A bordo della nave generazionale c'era una ragazzina che non era nata nell'ospedale del ponte F come accadeva da generazioni. Era stata salvata da una morte certa alla deriva nello spazio. Questa era la notizia del giorno, da molti giorni.
La notizia era trapelata prima che le brave famiglie dei residenti avessero avuto la possibilità di vederla, figurarsi parlare con lei. I motivi della sua segregazione non erano chiari, e già circolavano ipotesi assurde: che fosse malata, contaminata dalle radiazioni, impazzita per la solitudine, che fosse un clone alieno sotto sembianze umane, che avesse due teste e quattro braccia. Più la gente per bene ne parlava, più i dettagli suo suo ritrovamento e sulla sua situazione si facevano strani.
Fu solo quando la ragazzina fu presentata ufficialmente che tutti tirarono un sospiro di sollievo: aveva due braccia, una sola testa, e tutti gli arti al proprio posto. Poi lei aprì la bocca e, con quel poco di lingua comune che le avevano insegnato, chiese a quelle brave persone: – Perché mi fissate come un branco di idioti?
Qualcuno nella folla si irritò, qualcun altro si scandalizzò, ma la maggior parte pensò che la ragazzina non poteva aver voluto dire proprio quello, no, ci doveva essere un errore, forse ancora non comprendeva bene il significato delle parole. Poveri illusi. Lei le capiva benissimo, e si curava di non parlare mai con qualcuno senza vituperare lui, la sua famiglia, i suoi vicini e l'intera nave, quando ci riusciva. Nessuno capiva che non lo faceva con cattiveria, che era stata abituata così dalla sua famiglia adottiva, appartenente a una razza aliena che usava l'ingiuria come forma di comunicazione. Con l'andare del tempo la ragazzina venne isolata dai suoi simili, e vituperata a sua volta, con l'intento, in questo caso, di sminuirla e offenderla. Cosa che non riusciva mai, perché più la insultavano, e più lei si sentiva a casa, e rispondeva a tono, felice di poter avere quella che considerava una conversazione normale.

giovedì 10 febbraio 2022

La torre nel deserto d'ossa


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Foto di Emre Can Acer da Pexels


Quando Mod rivelò loro quel dettaglio, il deserto assunse d'un tratto connotazioni assai più sinistre.
– Ne sei certo? – Handel sbirciò l'orbita vuota dell'enorme teschio sepolto nella sabbia bianca, in cui il suo piede era incappato. – Tutta la sabbia? Non si tratta solo di uno o due scheletri?
Gli occhi di Mod si strinsero in due fessure astiose, amplificando l'impressione di trovarsi di fronte a un rettile pronto a colpire.
– Handel, non è molto saggio accusare un Arturiano di non saper usare un analizzatore – si intromise Cinde, la tuta bianca e argento abbacinante alla luce del sole a picco. – Sul suo pianeta quasi ci nascono con quei cosi in mano.
– Grazie, capitano – replicò Mod in tono cortese, riprendendo la suo consueta impassibilità.
Cinde immaginò che quello fosse il suo modo di gongolare, ma non aveva tempo per i battibecchi tra i due. – Hai detto che c'è un mausoleo?
– Esatto capitano. A una distanza di due punto sette rish in quella direzione.
Cinde si grattò la tempia, guardando nella direzione indicata da Mod. Trovava irritante che l'Arturiano usasse ancora le unità di misura del suo pianeta, invece dello standard galattico: a quel punto, avrebbe benissimo potuto restare sul vago, tipo "da qualche parte per di là", per quanto ne capiva lei.
– D'accordo. Andiamo, vediamo se possiamo ricavarne qualcosa di utile – propose Cinde, prima di girarsi verso l'uomo massiccio che le si era affiancato, e che spiccava come un'ombra nera in quella distesa candida: – No, Handel, tu resta qui con l'astronave. E se il nostro contatto si fa vivo, cosa di cui ormai dubito...
– Lo strapazzerò un po' prima di strappargli un prezzo da miseria per tutto il carburante che può offrirci. – Handel ghignò nella sua migliore espressione sadica e sistemò la cinghia del fucile a impulsi a tracolla.
– Ci conto – gli fece Cinde, poi si voltò e si allontanò dietro all'Arturiano.

Anche con una buona andatura, per quanto consentito dalla finissima sabbia pallida che inghiottiva le suole a ogni passo, la scarpinata le parve interminabile. Cinde ancora non vedeva alcun edificio nella piatta distesa bianca, rotta di tanto in tanto da quelli che aveva scambiato per tronchi d'albero spezzati e che invece ormai riconosceva come enormi ossa, quando Mod le disse: – Ci siamo.
L'Arturiano si fermò e guardò verso il basso. Cinde gli si affiancò.
Si trovavano sull'orlo di una voragine dai pendii che digradavano morbidi verso una massa che spiccava solo per le ombre che gettava sulla sabbia del suo stesso candore. Cinde si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa. Da quel che poteva indovinare da lassù, la struttura era imponente, quadrangolare, sormontata da archi e da una cupola e affiancata da una torre ancora più alta, sottile ma ingrossata in più punti da quelle che a Cinde parvero le giunture di un dito. Un dito scheletrico puntato verso il cielo.
– È... alta – mormorò Cinde. Talmente alta, che se non si fosse trovata in quella depressione, l'avrebbero vista da dove erano atterrati, e perfino da più lontano.
– Posso solo ipotizzare che il mausoleo sia stato costruito molto tempo prima che la polvere d'ossa si accumulasse strato su strato fino a formare il deserto in cui ci troviamo – spiegò Mod. – Oppure, che il terreno sottostante abbia ceduto e il mausoleo sia sprofondato. In entrambi i casi, emerge chiara una domanda...
– Chi è che scava per continuare a mantenerlo libero dalla sabbia? – domandò Cinde con un brivido.
Nel deserto d'ossa non avevano incontrato anima viva. Cinde preferì non pensarci.
– Come sai che si tratta di un mausoleo? Potrebbe essere benissimo un tempio qualunque, o un'abitazione privata, per quel che ne sappiamo della civiltà che lo ha costruito...
– Semplice: sono entrato.
Mod non aggiunse altro e con passo esperto iniziò la discesa della scarpata. Non si muoveva un sassolino sotto le sue suole, non un pezzetto d'osso veniva smosso dai suoi stivali. In compenso, quando Cinde gli si mise alle calcagna, dai suoi passi piovve una grandinata di sabbia e frammenti levigati che colpirono le caviglie dell'Arturiano.
– ...scusa. – mormorò Cinde, con sguardo colpevole rivolto all'Arturiano che si era girato a fissarla. Era rischioso avventurarsi sul terreno ghiaioso al di fuori del percorso già testato dall'Arturiano: poteva franarle sotto i piedi e farla scivolare giù fino in fondo al pendio. Perciò, a Mod toccò sopportare l'occasionale grandinata di detriti, e a Cinde parve di sentirlo sospirare di sollievo quando giunsero in fondo. Non molto da Arturiano, ma Cinde non lo disse.
Non scambiarono una parola mentre si avviarono alle enormi porte del tempio. L'atmosfera era irreale, l'afa del deserto resa ancora più pesante dai declivi della voragine che incombevano su di loro. Si aveva l'impressione di un vago pericolo, come di una bestia in agguato che li osservasse da ogni dove mentre si muovevano furtivi nel fondo della conca. Quando entrò, Cinde rimase senza fiato.
Un'antica scrittura indecifrabile ricopriva le pareti del mausoleo, illuminata da fasci di luce paralleli che piovevano dall'alto, dalle finestre sotto la cupola. Era un luogo grandioso, solenne, e i suoi guardiani non erano da meno. Svariate file di enormi teschi incassati in nicchie lungo le pareti li fissavano con orbite vuote. Al centro del pavimento intarsiato di un mosaico di madreperla, sorgeva una cassa di pietra ricoperta dei medesimi glifi incomprendibili che adornavano le pareti. Senza alcun dubbio, quello era un sarcofago.
– È un mausoleo – concesse Cinde, sottovoce. Accennò alla tomba ricoperta da una lastra di pietra. – Si direbbe che sia stato una persona di alto rango. Vediamo se il suo occupante si è portato nell'aldilà qualcosa di valore.
Non era la prima volta che Cinde e il suo equipaggio si trovavano a depredare una tomba. Viaggiare per lo spazio in un'astronave comportava necessità costose, e i proprietari di quelle cose ormai non ne avevano più bisogno.
Cinde e Mod spinsero un angolo della lastra, che cedette a poco a poco, con scricchiolii rimbombanti d'echi nell'alta cupola, faticando per ogni spanna guadagnata. Prima di aprire uno spazio sufficiente per guardare dentro, Cinde si pentì almeno venti volte di non aver portato Handel e le sue braccia muscolose con sé.
– Fatica sprecata – esalò Cinde, crollando a sedersi con la schiena addossata a una parete del sarcofago, dopo aver dato una sola occhiata all'interno. Oltre a un gigantesco scheletro alto quanto due uomini, nel sarcofago non c'era nulla. Nemmeno un brandello di carne, o un pezzetto di veste o di sudario era rimasto a ricoprire le ossa.
Cinde riprese fiato per qualche respiro, poi alzò la testa: – Che cosa è stato?
Dapprima lieve, poi sempre più forte, un canto mesto iniziò a risuonare tra le pareti del mausoleo. Nessuna parola, ma solo un lamento lugubre, che rimbalzava tra le pareti, accarezzando i teschi e le pietre.
– Il vento – rispose imperturbabile Mod. Nemmeno si accorse dell'umana paura che aveva invaso Cinde all'udire quel che pareva la voce di antichi fantasmi.
La donna in bianco, pallida come un cencio, si alzò in piedi, e levò la voce al di sopra del bisbiglio per la prima volta da quando era entrata nel mausoleo, per farsi udire a dispetto del coro funereo: – Handel aveva ragione: questo è un luogo di morte. Andiamo via.
Uscirono assieme dal mausoleo e furono investiti da refoli bollenti. Il sole bianco nel cielo terso si era fatto ancora più impietoso. Cinde si schermò gli occhi e guardò sconsolata la salita che l'attendeva. Ma mentre lei guardava avanti, Mod guardava indietro.
– La torre – disse l'Arturiano.
Cinde sbuffò. – Inutile esplorarla, non troveremo niente là dentro.
– No, capitano – la contraddisse Mod. – Intendo: la torre è sparita.
Cinde si voltò a guardare, e scoprì che, per quanto impossibile, Mod aveva ragione. Il mausoleo sormontato dalla cupola era divenuto l'unico edificio che sorgeva sul fondo della conca, eppure non avevano avvertito nessun terremoto, nessun fragore di crollo, e non c'erano a terra frammenti di pietra che indicassero che qualcosa di simile era avvenuto mentre si trovavano là dentro. E non era nemmeno plausibile pensare che l'avessero immaginata entrambi. Un ologramma infine avrebbe potuto ingannare occhi umani, ma non quelli di un Arturiano.
L'unica altra spiegazione era che la torre fosse viva, e che avesse infine rotto l'immobilità per strisciare chissà dove, come un enorme verme biancastro. Forse in quel momento si nascondeva dietro al mausoleo, in paziente attesa che le sue prede fossero lontane dalla porta che avrebbe potuto dar loro rifugio. Forse si aggirava furtivo tra i frammenti d'ossa sotto i loro piedi. Forse si era diretto verso Handel, rimasto da solo e per quanto ne sapeva quella creatura, indifeso. Be', pensò Cinde, in quel caso l'attendeva una brutta sorpresa. A meno che, bianco nel bianco, non fosse riuscito ad avvicinarsi abbastanza da sorprenderlo prima che Handel avesse il tempo di reagire.
– Questo non è un mausoleo – mormorò amaramente Cinde. – È una tana. E ora sappiamo chi è che scava, e da dove vengono tutte queste ossa.
Ma avere le risposte alle sue domande era una magra consolazione, pensò Cinde, considerato che il prossimo equipaggio a essere attirato in quella trappola avrebbe anche potuto porsele sopra il suo teschio.

lunedì 7 febbraio 2022

I fantasmi del Castello di Privskayac


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Foto di Charles Parker da Pexels


Se lo aveste chiesto alla signora Nora Pickett, la custode, lei avrebbe risposto che "assolutamente no, non ci sono fantasmi al Castello di Privskayac, ve lo posso confermare nella maniera più assoluta che qui di fantasmi non c'è nemmeno l'ombra!". Eppure, tra la gente del circondario prima e in seguito, tramite passaparola e i commenti da parte dei turisti condivisi sui social network, perfino oltre i confini nazionali, il maniero che dominava con la sua imponente sagoma la pianura nebbiosa aveva assunto la fama d'essere infestato. Non si potevano spiegare altrimenti, dicevano coloro che vi avevano soggiornato da quando l'antica dimora aveva smesso di essere la residenza di una nobile dinastia ed era stata trasformata in un pittoresco albergo a quattro stelle, i lugubri lamenti che si potevano udire di notte lungo i corridoi, il cigolio di porte che si aprivano a notte fonda, mentre tutti gli ospiti e il personale dormivano nei loro letti, e i sussurri portati da spifferi gelidi, talmente vicini alle orecchie nell'oscurità da mettere i brividi.
Più di qualcuno, al suo risveglio al mattino, aveva trovato un oggetto spostato dal luogo dove lo aveva messo la sera prima, o perfino l'intera stanza sottosopra. Ma, al contrario delle lamentele che avrebbero assillato il personale in qualunque altro albergo del mondo, lì la gente pareva felice di pagare un sovrapprezzo per quell'inconveniente, e coloro che invece non subivano lo strano fenomeno almeno una volta nel corso del loro soggiorno si lamentavano di non aver visto o udito nulla di strano, e che i fantasmi di cui avevano tanto sentito parlare non erano altro che una truffa per attirare i turisti.
Nora Pickett, che insisteva a dire che i fantasmi non c'erano, era così costretta a scusarsi con gli ospiti delusi per qualcosa di cui lei stessa li aveva avvertiti al loro arrivo, e a sopportare le recensioni negative da coloro che avevano usufruito del più ineccepibile ed eccellente dei servizi. Come se la poveretta non fosse già esausta per l'ingrato compito di accompagnare, di tanto in tanto, sedicenti acchiappafantasmi venuti apposta per esplorare e documentare le loro scoperte nell'ala inutilizzata del castello, quella dove a loro dire si concentravano le apparizioni ectoplasmatiche e i fenomeni soprannaturali, quella stessa zona dove i loro strumenti, di qualunque tipo e fattura fossero, rilevavano i livelli più elevati di qualunque cosa fossero in grado di misurare. Costoro tornavano generalmente a casa soddisfatti, con parecchie ore di video girato da montare in un documentario che confermava immancabilmente la fama del Castello di Privskayac, con la più profonda costernazione della signora Nora Pickett. Come se già non fossero abbastanza gli sguardi indagatori che i clienti dell'albergo rivolgevano al personale che puliva le camere, o ai camerieri che servivano la cena nel vasto salone al primo piano, in cerca senza dubbio di segnali di una qualche possessione spiritica in un loro gesto scoordinato, o in un loro sguardo assente, o in qualunque altra incongruenza nel loro comportamento.
Nora Pickett disapprovava la diffusione di quelle credenze assurde da parte del personale dell'albergo, e talvolta si chiedeva se fosse l'unica in quella enorme dimora a saper mantenere un segreto. Per quello, la sera dopo che l'ennesimo gruppo di cercatori di fantasmi amatoriali se n'era finalmente andato, si recò da sola nell'ala inutilizzata del castello e si aggirò per i corridoi deserti finché, dal nulla, si materializzò di fronte ai suoi occhi un gruppo di esserini grigi dalle enormi teste e dagli arti lunghi e sottili. Nora Pickett strinse le labbra e scosse la testa.
– Nostromo Xyghjw – appellò uno di loro in tono di comando, in una lingua che non apparteneva ad alcuna nazione della Terra. – Lo ripeterò per l'ultima volta: dobbiamo smettere di attirare l'attenzione degli indigeni. Quando vengono qui a ficcare il naso nei nostri affari, l'ordine è quello di spegnere ogni attrezzatura tecnologica di origine non terrestre, sì, compreso il campo di invisibilità mimetica.
– Ma, capitano... come faremo a non essere scoperti, allora? – protestò l'essere grigio.
– Come faccio io. Come facciamo tutti, nel nostro turno di lavoro a contatto con gli indigeni: indosserai una maschera. Tutti voi, nessuno escluso.
La signora Nora Pickett, o per meglio dire, il capitano di quella ciurma aliena con indosso la maschera della signora Nora Pickett, gettò un lungo sguardo su tutti i presenti. Qualcuno osò lamentarsi sottovoce che le maschere da umani prudevano, qualcun altro sbuffò soltanto, ma fu il Nostromo Xyghjw a sollevare la replica più convincente.
– Capitano, con tutto il rispetto, se questo fosse solo un castello qualunque, non saremmo in grado di accumulare sufficiente valuta locale per sopravvivere in questo mondo. I fantasmi ci servono. Inoltre, finché gli indigeni vanno in cerca dei fantasmi, chi mai penserebbe di attribuire qualunque cosa insolita possa capitare loro di notare a un gruppo di Teegardeniani?
Tutti gli altri squittirono la loro approvazione a quelle rimostranze perfettamente sensate, e a Nora Pickett non restò altra opzione che accettare che l'infestazione di presunti fantasmi sarebbe continuata ancora a lungo.
– Spero almeno che tu sappia tenere un segreto altrettanto bene di quanto faccio io, Nostromo Xyghjw, e di non doverti mai dire "te l'avevo detto".
Comunque, com'era accaduto già tante volte prima di allora e come sarebbe accaduto tante volte in seguito, a chiunque glielo avesse chiesto la signora Nora Pickett, la custode, avrebbe detto che "assolutamente no, non ci sono fantasmi al Castello di Privskayac, ve lo posso confermare nella maniera più assoluta che qui di fantasmi non c'è nemmeno l'ombra!".
E avrebbe avuto ragione.

sabato 5 febbraio 2022

Surrettizio

Surrettizio [sur-ret-tì-zio] agg. (pl.m. -zi) 1. dir. Di atto in cui viene taciuta intenzionalmente qualche circostanza fondamentale. 2. estens. Di azione operata in maniera ambigua, di nascosto.

Etimologia: dal latino surreptitius, derivato dal participio passato di surripere, "togliere di narcosto", composto da sub, "sotto", e ripere, "rapire, strappare".



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Foto di Dayvison Tadeu da Pexels


A volte penso che sarebbe divertente provare a spiegare a qualcuno il casino in cui mi sono cacciato. M'immagino la loro faccia, l'espressione di assoluta incredulità e lo scherno, il tentativo di farmi ragionare e di convincermi che quanto vado dicendo è impossibile, di più, ridicolo. Una teoria del complotto condita da una vena di fantascienza da film di serie B.
È proprio perché è impensabile, che la cosa funziona così bene.
– Cioè, mi stai dicendo che non solo esiste un governo surrettizio di alieni che ogni tot anni decide se l'umanità è innocua o una minaccia da annientare, ma che addirittura questi... governatori dell'universo sono del tutto ignari che ce ne sono degli altri, una specie di società segreta che agisce alle loro spalle per sistemare qua e là le cose in giro per lo spaziotempo?
Assurdo, vero? Incredibile.
Quando Vindica finalmente si è decisa a parlarmene, invece di andare e venire semplicemente dalla mia vita con la scusa di un "lavoro molto impegnativo per una grande multinazionale", nemmeno io ci ho creduto. O meglio, dimostrarmi che non era umana è stato piuttosto semplice, ma per dirmi il resto ha dovuto aspettare che io smettessi di dare di matto. La nostra storia era già troppo avanti per una rivelazione del genere, e la sua vita fatta di sotterfugi e di missioni surrettizie mi è stata gettata addosso tutta in una volta. Avrei potuto lasciarla per avermi taciuto una cosa simile, ma ci ho riflettuto, ho messo da parte il risentimento e gli ovvi timori che lei fosse dalla parte sbagliata della zona grigia, e mi sono lanciato in questa avventura. Volevo capire, vedere con i miei occhi quello che faceva, e decidere per conto mio se volevo farne parte.
Solo parecchio tempo dopo ho scoperto che lei non mi avrebbe detto niente se non avesse saputo in anticipo che avrei reagito così bene.

giovedì 3 febbraio 2022

Pensieri profondi


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Foto di Patti Spissoto da Pexels


– Attento! – lo avvertii, tirandolo indietro. Lì, dove il mio amico sostava fino a qualche istante prima, una gragnuola di sassolini cadde a terra dalla rupe ricoperta di un'intricata trama di liane e di altri rampicanti. La luce era quasi del tutto azzerata da una penombra verde densa di aromi vegetali, tra i quali ogni tanto s'insinuava un lezzo acre e strisciante che mi faceva tornare alla mente il puzzo di un rettilario claustrofobico che avevo visitato nel retro di un circo, accompagnata da uno zingaro.
Era così che avevo raccolto notizie sulla mia meta. Parlando con i pochi che ancora tramandavano le leggende, e pagando ogni briciola di verità con il denaro o con il mio tempo.
Al mio amico, chiamiamolo Adam, perché preferisco non rivelarti il suo vero nome... a lui di tempo non ne rimaneva molto. Per il momento però, era ancora vivo.
– Grazie – mormorò lui, puntando il fascio di luce della torcia verso l'alto. – Credi...
– No – tagliai corto, lo sguardo spinto in avanti, a fendere il labirinto verde. – Andiamo.
Lui fece per aggiungere qualcosa, ma un sibilo basso e prolungato alle nostre spalle lo indusse a desistere e ad affiancarmi, svelto.
Non era la prima volta che udivamo gemiti inumani, sospiri, ruggiti e grugniti. Difficile immaginare che potessero essere opera di animali: da quando ci eravamo inoltrati nel cuore profondo della giungla, non ne avevamo più visto nessuno. Non c'erano scimmie a saltare tra i rami, né serpenti in agguato nel groviglio di rampicanti, ed erano spariti persino gli insetti, le formiche e le mosche e le zanzare che tanto ci avevano infastidito nella prima parte del nostro viaggio a piedi, dal punto in cui avevamo abbandonato le canoe. Quello era il regno degli alberi, e sembrava che nessuna creatura animale fosse la benvenuta. E il respiro, la voce che si dispiegava in versi spaventosi, pareva levarsi dagli stessi alberi.
Era la giungla che non ci voleva lì. Questo io pensavo, ma non potevo arrendermi, sarei andata fino in fondo, anche se la giungla ci colpiva con le sue sassaiole quando cercavamo di aprirci la strada tra la fitta vegetazione.
Adam, però, aveva una spiegazione diversa. Lui era convinto che la cosa lo stesse ancora seguendo. Persino lì, in quel luogo bizzarro, in quelle terre inesplorate così lontane da quelle che erano state la fonte dei suoi guai.
Un sibilo minaccioso proveniente dall'alto, da destra e da sinistra, ci fece accapponare la pelle. Sembrava che qualunque cosa lo avesse emesso, si fosse fatta dannatamente vicina. Le nostre torce non rivelarono niente, perciò ripresi a tranciare le liane, quando un urlo belluino rimbombò in echi tremendi. L'origine di quell'orribile verso pareva essere stata di fronte a noi. Adam si ritrovò a tremare. Gli afferrai una mano.
– Siamo vicini, per questo la giungla vuole spaventarci. È come un cane che abbaia.
– N-non parlarmi di c-cani – balbettò Adam.
Colpa mia, avrei dovuto usare un'altra metafora. Gli sorrisi, e con un ultimo taglio ben assestato di machete aprii una via verso la nostra meta.
Eccolo, finalmente. Le leggende non gli rendevano onore, e nessuna parola avrebbe mai potuto prepararmi a quella visione. Rimasi a bocca aperta a osservare l'immensità della costruzione di pietra, quasi interamente fusa con i tronchi e con il fogliame. Ma qua e là, come reliquie intrappolate nel tempo, sporgeva l'enorme muso di una statua, antiche rappresentazioni di dei zoomorfi i cui nomi erano ormai dimenticati. Artigli di alligatori, corna di tori, enormi bocche di serpenti con le lingue sporgenti nell'aria umida. Non so dire quanto restammo a guardare quella meraviglia, su cui sguardo umano non si posava da secoli, tergendoci il sudore dalla fronte. Avrei voluto farne un disegno, tracciare su un foglio le mie impressioni, ma non avevo nulla con me per fissare il ricordo di quel momento solenne.
Adam si mosse per primo. Lo raggiunsi sugli scalini che salivano verso la soglia scura sotto il pesante architrave di granito. Sei metri stimai in altezza, almeno tre in larghezza. Un lungo corridoio oscuro, che poi si aprì in una sala enorme. Il tetto, e le colonne di quel tempio, erano rami densi di foglie e tronchi secolari le cui radici avevano stritolato le pietre del pavimento, insinuandosi nelle crepe.
Al centro di quel palcoscenico si ergeva una figura minuta, che di primo acchito scambiai per una statua tanto era immobile.
– Ma... è viva? – bisbigliò Adam, quasi avesse avuto paura di disturbarla. Gli assestai una gomitata.
La "statua" di forma umana aveva le sembianze di una donna che se ne stava in piedi tra gli alberi, vestita di foglie e di fiori e della lunga chioma, rossa e spettinata, intrecciata coi rampicanti. La pelle era dello stesso bruno delle cortecce, e appariva altrettanto dura, sebbene molto più levigata, come se fosse stata intagliata nel legno. Gli occhi aperti, rivolti verso di noi, scrutavano oltre, perduti in chissà quale dimensione.
Ci ignorò a lungo, forse troppo immersa nella profondità dei suoi pensieri per notarci, finché non mi schiarii la voce e non esordii: – Mia signora...
Perfino gli zingari non avevano saputo dirmi il suo nome, tanto antica era la sua storia. Una dea ancestrale, venerata da un popolo da lungo tempo ormai scomparso, e infine abbandonata.
La trattai con tutto il rispetto possibile, cercando di blandirla mentre le raccontavo ciò che turbava il sonno del mio amico, e lei alla fine ci vide.
– I pensieri sono vivi – mormorò la sua voce echeggiante, meravigliosa come un canto di sirena. – Mettono radici, e crescono, e solidificano nella forma che noi abbiamo dato loro.
La donna, o la dea, avanzò di un passo. Io non potevo muovermi, atterrita quasi più da lei che dalla cosa che minacciava la vita di Adam. Si avvertiva nitida tra quelle sacre pareti l'aura del suo potere, una forza ancestrale alla quale alberi e rocce si piegavano. Lo spazio stesso sembrava curvarsi al suo passaggio mentre avanzava lenta verso di noi.
– Io ho pensato la mia solitudine, creato il mio isolamento – proseguì, con un lento gesto delle braccia a scostare cortine di liane. – Tutto ciò che vedete proviene dalla mia mente. Ostacoli per chiunque cercasse risposte che io non possiedo. Non sono un'erba miracolosa che voi potete cogliere. Non troverete rimedi semplici nella mia dimora. Solo il mio disappunto.
Adam non riuscì a proferire parola. Io cominciavo a pensare che forse non era stata un'idea così grandiosa chiedere aiuto a un mito per scacciare un altro mito. Chiamai a raccolta tutto il mio coraggio, mentre i sibili e i versi animaleschi soffiavano su di noi l'ira della loro padrona dalle pareti del tempio.
– Ma tu hai sconfitto i mostri. Hai battuto la morte stessa – protestai, nel rinfacciarle le sue imprese.
– Ho sconfitto i miei mostri – ribatté quella creatura ancestrale, ritta in piedi di fronte a noi. – Ho annientato la mia morte. È così che sono diventata ciò che sono, da mera mortale qual ero. Voi, invece. Siete pronti ad affrontare le conseguenze della vostra arroganza?
I suoi occhi verdi si fissarono in quelli del mio amico. La sua paura fece di lui un guscio vuoto quando la dea gli disse: – È il tuo mostro, dai tuoi pensieri generato. Tua è la battaglia, la vittoria, o la sconfitta.
Con un crepitio di rocce che sfregavano tra loro, le pietre del pavimento su cui sostavamo compirono un giro di 180 gradi e ci ritrovammo di fronte alla porta da cui eravamo entrati. E là, nell'oscurità della soglia, le fiamme infernali baluginavano da tre fauci gemelle, irte di zanne, e sei occhi di braci ci fissarono famelici. Il Cerbero che da mesi perseguitava il mio amico ci aveva raggiunti, e noi non potevamo più fuggire, perché i nostri piedi come gli alberi della giungla avevano messo radici in quel tempio dimenticato da tutti tranne che da una dea solitaria e dagli zingari con le loro leggende.