giovedì 3 febbraio 2022

Pensieri profondi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Patti Spissoto da Pexels


– Attento! – lo avvertii, tirandolo indietro. Lì, dove il mio amico sostava fino a qualche istante prima, una gragnuola di sassolini cadde a terra dalla rupe ricoperta di un'intricata trama di liane e di altri rampicanti. La luce era quasi del tutto azzerata da una penombra verde densa di aromi vegetali, tra i quali ogni tanto s'insinuava un lezzo acre e strisciante che mi faceva tornare alla mente il puzzo di un rettilario claustrofobico che avevo visitato nel retro di un circo, accompagnata da uno zingaro.
Era così che avevo raccolto notizie sulla mia meta. Parlando con i pochi che ancora tramandavano le leggende, e pagando ogni briciola di verità con il denaro o con il mio tempo.
Al mio amico, chiamiamolo Adam, perché preferisco non rivelarti il suo vero nome... a lui di tempo non ne rimaneva molto. Per il momento però, era ancora vivo.
– Grazie – mormorò lui, puntando il fascio di luce della torcia verso l'alto. – Credi...
– No – tagliai corto, lo sguardo spinto in avanti, a fendere il labirinto verde. – Andiamo.
Lui fece per aggiungere qualcosa, ma un sibilo basso e prolungato alle nostre spalle lo indusse a desistere e ad affiancarmi, svelto.
Non era la prima volta che udivamo gemiti inumani, sospiri, ruggiti e grugniti. Difficile immaginare che potessero essere opera di animali: da quando ci eravamo inoltrati nel cuore profondo della giungla, non ne avevamo più visto nessuno. Non c'erano scimmie a saltare tra i rami, né serpenti in agguato nel groviglio di rampicanti, ed erano spariti persino gli insetti, le formiche e le mosche e le zanzare che tanto ci avevano infastidito nella prima parte del nostro viaggio a piedi, dal punto in cui avevamo abbandonato le canoe. Quello era il regno degli alberi, e sembrava che nessuna creatura animale fosse la benvenuta. E il respiro, la voce che si dispiegava in versi spaventosi, pareva levarsi dagli stessi alberi.
Era la giungla che non ci voleva lì. Questo io pensavo, ma non potevo arrendermi, sarei andata fino in fondo, anche se la giungla ci colpiva con le sue sassaiole quando cercavamo di aprirci la strada tra la fitta vegetazione.
Adam, però, aveva una spiegazione diversa. Lui era convinto che la cosa lo stesse ancora seguendo. Persino lì, in quel luogo bizzarro, in quelle terre inesplorate così lontane da quelle che erano state la fonte dei suoi guai.
Un sibilo minaccioso proveniente dall'alto, da destra e da sinistra, ci fece accapponare la pelle. Sembrava che qualunque cosa lo avesse emesso, si fosse fatta dannatamente vicina. Le nostre torce non rivelarono niente, perciò ripresi a tranciare le liane, quando un urlo belluino rimbombò in echi tremendi. L'origine di quell'orribile verso pareva essere stata di fronte a noi. Adam si ritrovò a tremare. Gli afferrai una mano.
– Siamo vicini, per questo la giungla vuole spaventarci. È come un cane che abbaia.
– N-non parlarmi di c-cani – balbettò Adam.
Colpa mia, avrei dovuto usare un'altra metafora. Gli sorrisi, e con un ultimo taglio ben assestato di machete aprii una via verso la nostra meta.
Eccolo, finalmente. Le leggende non gli rendevano onore, e nessuna parola avrebbe mai potuto prepararmi a quella visione. Rimasi a bocca aperta a osservare l'immensità della costruzione di pietra, quasi interamente fusa con i tronchi e con il fogliame. Ma qua e là, come reliquie intrappolate nel tempo, sporgeva l'enorme muso di una statua, antiche rappresentazioni di dei zoomorfi i cui nomi erano ormai dimenticati. Artigli di alligatori, corna di tori, enormi bocche di serpenti con le lingue sporgenti nell'aria umida. Non so dire quanto restammo a guardare quella meraviglia, su cui sguardo umano non si posava da secoli, tergendoci il sudore dalla fronte. Avrei voluto farne un disegno, tracciare su un foglio le mie impressioni, ma non avevo nulla con me per fissare il ricordo di quel momento solenne.
Adam si mosse per primo. Lo raggiunsi sugli scalini che salivano verso la soglia scura sotto il pesante architrave di granito. Sei metri stimai in altezza, almeno tre in larghezza. Un lungo corridoio oscuro, che poi si aprì in una sala enorme. Il tetto, e le colonne di quel tempio, erano rami densi di foglie e tronchi secolari le cui radici avevano stritolato le pietre del pavimento, insinuandosi nelle crepe.
Al centro di quel palcoscenico si ergeva una figura minuta, che di primo acchito scambiai per una statua tanto era immobile.
– Ma... è viva? – bisbigliò Adam, quasi avesse avuto paura di disturbarla. Gli assestai una gomitata.
La "statua" di forma umana aveva le sembianze di una donna che se ne stava in piedi tra gli alberi, vestita di foglie e di fiori e della lunga chioma, rossa e spettinata, intrecciata coi rampicanti. La pelle era dello stesso bruno delle cortecce, e appariva altrettanto dura, sebbene molto più levigata, come se fosse stata intagliata nel legno. Gli occhi aperti, rivolti verso di noi, scrutavano oltre, perduti in chissà quale dimensione.
Ci ignorò a lungo, forse troppo immersa nella profondità dei suoi pensieri per notarci, finché non mi schiarii la voce e non esordii: – Mia signora...
Perfino gli zingari non avevano saputo dirmi il suo nome, tanto antica era la sua storia. Una dea ancestrale, venerata da un popolo da lungo tempo ormai scomparso, e infine abbandonata.
La trattai con tutto il rispetto possibile, cercando di blandirla mentre le raccontavo ciò che turbava il sonno del mio amico, e lei alla fine ci vide.
– I pensieri sono vivi – mormorò la sua voce echeggiante, meravigliosa come un canto di sirena. – Mettono radici, e crescono, e solidificano nella forma che noi abbiamo dato loro.
La donna, o la dea, avanzò di un passo. Io non potevo muovermi, atterrita quasi più da lei che dalla cosa che minacciava la vita di Adam. Si avvertiva nitida tra quelle sacre pareti l'aura del suo potere, una forza ancestrale alla quale alberi e rocce si piegavano. Lo spazio stesso sembrava curvarsi al suo passaggio mentre avanzava lenta verso di noi.
– Io ho pensato la mia solitudine, creato il mio isolamento – proseguì, con un lento gesto delle braccia a scostare cortine di liane. – Tutto ciò che vedete proviene dalla mia mente. Ostacoli per chiunque cercasse risposte che io non possiedo. Non sono un'erba miracolosa che voi potete cogliere. Non troverete rimedi semplici nella mia dimora. Solo il mio disappunto.
Adam non riuscì a proferire parola. Io cominciavo a pensare che forse non era stata un'idea così grandiosa chiedere aiuto a un mito per scacciare un altro mito. Chiamai a raccolta tutto il mio coraggio, mentre i sibili e i versi animaleschi soffiavano su di noi l'ira della loro padrona dalle pareti del tempio.
– Ma tu hai sconfitto i mostri. Hai battuto la morte stessa – protestai, nel rinfacciarle le sue imprese.
– Ho sconfitto i miei mostri – ribatté quella creatura ancestrale, ritta in piedi di fronte a noi. – Ho annientato la mia morte. È così che sono diventata ciò che sono, da mera mortale qual ero. Voi, invece. Siete pronti ad affrontare le conseguenze della vostra arroganza?
I suoi occhi verdi si fissarono in quelli del mio amico. La sua paura fece di lui un guscio vuoto quando la dea gli disse: – È il tuo mostro, dai tuoi pensieri generato. Tua è la battaglia, la vittoria, o la sconfitta.
Con un crepitio di rocce che sfregavano tra loro, le pietre del pavimento su cui sostavamo compirono un giro di 180 gradi e ci ritrovammo di fronte alla porta da cui eravamo entrati. E là, nell'oscurità della soglia, le fiamme infernali baluginavano da tre fauci gemelle, irte di zanne, e sei occhi di braci ci fissarono famelici. Il Cerbero che da mesi perseguitava il mio amico ci aveva raggiunti, e noi non potevamo più fuggire, perché i nostri piedi come gli alberi della giungla avevano messo radici in quel tempio dimenticato da tutti tranne che da una dea solitaria e dagli zingari con le loro leggende.

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