giovedì 10 febbraio 2022

La torre nel deserto d'ossa


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Emre Can Acer da Pexels


Quando Mod rivelò loro quel dettaglio, il deserto assunse d'un tratto connotazioni assai più sinistre.
– Ne sei certo? – Handel sbirciò l'orbita vuota dell'enorme teschio sepolto nella sabbia bianca, in cui il suo piede era incappato. – Tutta la sabbia? Non si tratta solo di uno o due scheletri?
Gli occhi di Mod si strinsero in due fessure astiose, amplificando l'impressione di trovarsi di fronte a un rettile pronto a colpire.
– Handel, non è molto saggio accusare un Arturiano di non saper usare un analizzatore – si intromise Cinde, la tuta bianca e argento abbacinante alla luce del sole a picco. – Sul suo pianeta quasi ci nascono con quei cosi in mano.
– Grazie, capitano – replicò Mod in tono cortese, riprendendo la suo consueta impassibilità.
Cinde immaginò che quello fosse il suo modo di gongolare, ma non aveva tempo per i battibecchi tra i due. – Hai detto che c'è un mausoleo?
– Esatto capitano. A una distanza di due punto sette rish in quella direzione.
Cinde si grattò la tempia, guardando nella direzione indicata da Mod. Trovava irritante che l'Arturiano usasse ancora le unità di misura del suo pianeta, invece dello standard galattico: a quel punto, avrebbe benissimo potuto restare sul vago, tipo "da qualche parte per di là", per quanto ne capiva lei.
– D'accordo. Andiamo, vediamo se possiamo ricavarne qualcosa di utile – propose Cinde, prima di girarsi verso l'uomo massiccio che le si era affiancato, e che spiccava come un'ombra nera in quella distesa candida: – No, Handel, tu resta qui con l'astronave. E se il nostro contatto si fa vivo, cosa di cui ormai dubito...
– Lo strapazzerò un po' prima di strappargli un prezzo da miseria per tutto il carburante che può offrirci. – Handel ghignò nella sua migliore espressione sadica e sistemò la cinghia del fucile a impulsi a tracolla.
– Ci conto – gli fece Cinde, poi si voltò e si allontanò dietro all'Arturiano.

Anche con una buona andatura, per quanto consentito dalla finissima sabbia pallida che inghiottiva le suole a ogni passo, la scarpinata le parve interminabile. Cinde ancora non vedeva alcun edificio nella piatta distesa bianca, rotta di tanto in tanto da quelli che aveva scambiato per tronchi d'albero spezzati e che invece ormai riconosceva come enormi ossa, quando Mod le disse: – Ci siamo.
L'Arturiano si fermò e guardò verso il basso. Cinde gli si affiancò.
Si trovavano sull'orlo di una voragine dai pendii che digradavano morbidi verso una massa che spiccava solo per le ombre che gettava sulla sabbia del suo stesso candore. Cinde si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa. Da quel che poteva indovinare da lassù, la struttura era imponente, quadrangolare, sormontata da archi e da una cupola e affiancata da una torre ancora più alta, sottile ma ingrossata in più punti da quelle che a Cinde parvero le giunture di un dito. Un dito scheletrico puntato verso il cielo.
– È... alta – mormorò Cinde. Talmente alta, che se non si fosse trovata in quella depressione, l'avrebbero vista da dove erano atterrati, e perfino da più lontano.
– Posso solo ipotizzare che il mausoleo sia stato costruito molto tempo prima che la polvere d'ossa si accumulasse strato su strato fino a formare il deserto in cui ci troviamo – spiegò Mod. – Oppure, che il terreno sottostante abbia ceduto e il mausoleo sia sprofondato. In entrambi i casi, emerge chiara una domanda...
– Chi è che scava per continuare a mantenerlo libero dalla sabbia? – domandò Cinde con un brivido.
Nel deserto d'ossa non avevano incontrato anima viva. Cinde preferì non pensarci.
– Come sai che si tratta di un mausoleo? Potrebbe essere benissimo un tempio qualunque, o un'abitazione privata, per quel che ne sappiamo della civiltà che lo ha costruito...
– Semplice: sono entrato.
Mod non aggiunse altro e con passo esperto iniziò la discesa della scarpata. Non si muoveva un sassolino sotto le sue suole, non un pezzetto d'osso veniva smosso dai suoi stivali. In compenso, quando Cinde gli si mise alle calcagna, dai suoi passi piovve una grandinata di sabbia e frammenti levigati che colpirono le caviglie dell'Arturiano.
– ...scusa. – mormorò Cinde, con sguardo colpevole rivolto all'Arturiano che si era girato a fissarla. Era rischioso avventurarsi sul terreno ghiaioso al di fuori del percorso già testato dall'Arturiano: poteva franarle sotto i piedi e farla scivolare giù fino in fondo al pendio. Perciò, a Mod toccò sopportare l'occasionale grandinata di detriti, e a Cinde parve di sentirlo sospirare di sollievo quando giunsero in fondo. Non molto da Arturiano, ma Cinde non lo disse.
Non scambiarono una parola mentre si avviarono alle enormi porte del tempio. L'atmosfera era irreale, l'afa del deserto resa ancora più pesante dai declivi della voragine che incombevano su di loro. Si aveva l'impressione di un vago pericolo, come di una bestia in agguato che li osservasse da ogni dove mentre si muovevano furtivi nel fondo della conca. Quando entrò, Cinde rimase senza fiato.
Un'antica scrittura indecifrabile ricopriva le pareti del mausoleo, illuminata da fasci di luce paralleli che piovevano dall'alto, dalle finestre sotto la cupola. Era un luogo grandioso, solenne, e i suoi guardiani non erano da meno. Svariate file di enormi teschi incassati in nicchie lungo le pareti li fissavano con orbite vuote. Al centro del pavimento intarsiato di un mosaico di madreperla, sorgeva una cassa di pietra ricoperta dei medesimi glifi incomprendibili che adornavano le pareti. Senza alcun dubbio, quello era un sarcofago.
– È un mausoleo – concesse Cinde, sottovoce. Accennò alla tomba ricoperta da una lastra di pietra. – Si direbbe che sia stato una persona di alto rango. Vediamo se il suo occupante si è portato nell'aldilà qualcosa di valore.
Non era la prima volta che Cinde e il suo equipaggio si trovavano a depredare una tomba. Viaggiare per lo spazio in un'astronave comportava necessità costose, e i proprietari di quelle cose ormai non ne avevano più bisogno.
Cinde e Mod spinsero un angolo della lastra, che cedette a poco a poco, con scricchiolii rimbombanti d'echi nell'alta cupola, faticando per ogni spanna guadagnata. Prima di aprire uno spazio sufficiente per guardare dentro, Cinde si pentì almeno venti volte di non aver portato Handel e le sue braccia muscolose con sé.
– Fatica sprecata – esalò Cinde, crollando a sedersi con la schiena addossata a una parete del sarcofago, dopo aver dato una sola occhiata all'interno. Oltre a un gigantesco scheletro alto quanto due uomini, nel sarcofago non c'era nulla. Nemmeno un brandello di carne, o un pezzetto di veste o di sudario era rimasto a ricoprire le ossa.
Cinde riprese fiato per qualche respiro, poi alzò la testa: – Che cosa è stato?
Dapprima lieve, poi sempre più forte, un canto mesto iniziò a risuonare tra le pareti del mausoleo. Nessuna parola, ma solo un lamento lugubre, che rimbalzava tra le pareti, accarezzando i teschi e le pietre.
– Il vento – rispose imperturbabile Mod. Nemmeno si accorse dell'umana paura che aveva invaso Cinde all'udire quel che pareva la voce di antichi fantasmi.
La donna in bianco, pallida come un cencio, si alzò in piedi, e levò la voce al di sopra del bisbiglio per la prima volta da quando era entrata nel mausoleo, per farsi udire a dispetto del coro funereo: – Handel aveva ragione: questo è un luogo di morte. Andiamo via.
Uscirono assieme dal mausoleo e furono investiti da refoli bollenti. Il sole bianco nel cielo terso si era fatto ancora più impietoso. Cinde si schermò gli occhi e guardò sconsolata la salita che l'attendeva. Ma mentre lei guardava avanti, Mod guardava indietro.
– La torre – disse l'Arturiano.
Cinde sbuffò. – Inutile esplorarla, non troveremo niente là dentro.
– No, capitano – la contraddisse Mod. – Intendo: la torre è sparita.
Cinde si voltò a guardare, e scoprì che, per quanto impossibile, Mod aveva ragione. Il mausoleo sormontato dalla cupola era divenuto l'unico edificio che sorgeva sul fondo della conca, eppure non avevano avvertito nessun terremoto, nessun fragore di crollo, e non c'erano a terra frammenti di pietra che indicassero che qualcosa di simile era avvenuto mentre si trovavano là dentro. E non era nemmeno plausibile pensare che l'avessero immaginata entrambi. Un ologramma infine avrebbe potuto ingannare occhi umani, ma non quelli di un Arturiano.
L'unica altra spiegazione era che la torre fosse viva, e che avesse infine rotto l'immobilità per strisciare chissà dove, come un enorme verme biancastro. Forse in quel momento si nascondeva dietro al mausoleo, in paziente attesa che le sue prede fossero lontane dalla porta che avrebbe potuto dar loro rifugio. Forse si aggirava furtivo tra i frammenti d'ossa sotto i loro piedi. Forse si era diretto verso Handel, rimasto da solo e per quanto ne sapeva quella creatura, indifeso. Be', pensò Cinde, in quel caso l'attendeva una brutta sorpresa. A meno che, bianco nel bianco, non fosse riuscito ad avvicinarsi abbastanza da sorprenderlo prima che Handel avesse il tempo di reagire.
– Questo non è un mausoleo – mormorò amaramente Cinde. – È una tana. E ora sappiamo chi è che scava, e da dove vengono tutte queste ossa.
Ma avere le risposte alle sue domande era una magra consolazione, pensò Cinde, considerato che il prossimo equipaggio a essere attirato in quella trappola avrebbe anche potuto porsele sopra il suo teschio.

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