lunedì 30 gennaio 2023

Il cuore sui capelli


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Dettaglio di una foto di Larissa Wolf da Pexels


Al salone Belli Capelli se ne vedevano di tutti i colori: non solo biondi, castani, neri, e grigio topo, ma anche blu, rosa, verdi, rossi, viola e arcobaleno. Nei miei ben trenta anni di attività, sotto le mie mani erano passate le chiome di spose e modelle, e di richieste o capigliature bizzarre ne avevo viste a bizzeffe. Ma nessun caso fu mai più strano o inspiegabile di quello di Miss Hearty.
Miss Hearty, al secolo Harriette Malone, almeno, così era prima di sposarsi, era una di quelle personalità di spicco nell'ambiente virtuale dei social media, la cui fama solitamente non raggiungeva le persone della mia età se non dopo che un telegiornale le aveva dedicato qualche secondo nelle notizie pubblicitarie di coda, quelle, per intenderci, che venivano dopo le tragedie importanti, i comizi dei politici e le cronache sportive.
Perciò, quando Miss Hearty entrò nel salone Belli Capelli con i suoi occhialoni a cuore, il vestitino da Lolita e la sua splendida chioma rosso fiammante, tanto intenso che doveva per forza essere frutto di una tinta, solo le colleghe più giovani si voltarono a guardarla trattenendo il fiato. Seguirono gridolini eccitati, sgomitate, e una corsa agli smartphone per potersi immortalare assieme alla sconosciuta celebrità.
Solo io e una collega restammo indifferenti al trambusto che coinvolse perfino le clienti, che si precipitarono a pretendere il loro scatto anche con la testa mezzo spettinata com'era, o avvolta negli asciugamani o nella stagnola, e i teli di spugna a far loro da scialle attorno al collo. La mia collega era già impegnata con una cliente, io invece stavo solo spazzando i resti dell'ultimo taglio, e probabilmente fu per quello che Miss Hearty puntò me e mi chiese, con la sua voce zuccherosa e autoritaria: – Tu. Sai chi sono?
– Non ne ho la più pallida idea signorina – replicai, dopo una breve occhiata. Poi, temendo di apparire scortese, mi girai verso di lei, mi appoggiai alla scopa, e le chiesi: – Dovrei?
Sotto gli occhiali a cuore le labbra carminio si allargarono in un sogghigno compiaciuto, poi la signorina si accomodò sulla poltrona più vicina. – Non ha idea di quanto sia piacevole non essere riconosciuta – disse lei, sbirciando da sopra il bordo degli occhiali le clienti e le mie colleghe che ancora parlottavano tra loro.
Mi venne da considerare che se la pensava così, aveva scelto il mestiere sbagliato.
Finii di ripulire il pavimento e poi tornai a prestare la mia attenzione alla signorina che, nel frattempo, aveva già declinato l'offerta di altre tre colleghe che la conoscevano per nome di occuparsi del suo caso.
– Dunque, vediamo un po' questa ricrescita... stessa tinta, o vuole cambiare?
– Non ho mai fatto la tinta – mi contraddisse lei. Era chiaro come il sole che mentiva, o almeno, questa era la mia opinione professionale. Quella sfumatura di rosso così acceso davvero non poteva essere naturale. E, inoltre, c'era un altro dettaglio. Quella che in un primo momento mi era sembrata una ricrescita di capelli bianchi sul lato sinistro della riga, guardando da dietro, era invece una scoloritura localizzata e dalla forma ben definita. La chiazza bianca suo suoi capelli aveva la forma di un cuore.
– Be', avevo sentito il detto inglese di indossare il cuore sulla propria manica, ma questo è nuovo – Commentai, adocchiando il suo volto nello specchio.
Miss Hearty mi rivolse un sorriso amaro e mi raccontò la sua storia.
Ci era nata, con quel cuore sui capelli. Una macchia bianca in una chioma impossibilmente rossa. Una macchia che, tra l'altro, non si era mai spostata di un millimetro, nonostante il ritmo di crescita normale dei suoi capelli. O meglio, doveva essersi spostata costantemente, per rimanere ferma lì dov'era.
Nessuno aveva mai capito come fosse possibile.
La sua particolarità, unita al fatto che fosse una bambina carina, aveva convinto sua madre ad avviarla presto alla carriera di modella. Già prima dei dieci anni, aveva molti più follower delle sue colleghe adulte, e si divertiva a posare per foto e video con il suo iconico cuore in bella mostra, perciò aveva proseguito nella carriera che sua madre e il destino avevano scelto per lei. Finché...
Finché non aveva incontrato qualcuno che le faceva battere il suo vero cuore, anziché quello che aveva sui capelli. E questo secondo cuore, a quel punto, era diventato troppo ingombrante.
– Voglio mollare tutto – concluse Miss Hearty. – Diventare invisibile quando cammino per la strada, non essere riconosciuta, avere una vita privata, finalmente. Il cuore deve sparire.
Pensavo che la soluzione fosse facile. Glielo dissi. Oltre a un cambio di guardaroba, s'intende, era sufficiente tingersi i capelli di un colore più scuro, magari una bella sfumatura color cioccolato, o visone, o dattero che andava tanto di moda quell'anno.
Lei non replicò ma mi rivolse un sorrisino di compatimento, come se già sapesse.
Passare il pennello su ogni ciocca era un gesto abituale. Lo avevo fatto centinaia di volte, migliaia di volte. Le lasciai una rivista mentre attendeva il tempo necessario, ma lei non l'aprì nemmeno, si limitò a rilassarsi a occhi chiusi, la testa all'indietro, ignorando come se dormisse ogni richiesta di foto o dediche dalle clienti che nel frattempo erano entrate.
Quando la sveglia trillò, l'accompagnai al lavateste, e risciacquai sotto il getto d'acqua la sua chioma. – È un colore splendido, le sta benissimo! – commentai, man mano che la tintura scivolava via rivelando la nuova sfumatura delle ciocche. Vidi una smorfia momentanea sulle sue labbra, ma non me ne preoccupai finché, dopo un massaggio di shampoo profumato al cuoio capelluto, risciacquai nuovamente, e tutto il castano se ne andò giù per lo scarico, lasciando intatto il suo rosso naturale con il cuore di capelli bianchi. Mi venne da imprecare.
Non era che la tinta avesse preso male. Non aveva proprio preso, nemmeno sulla macchia decolorata. In tanti anni di onorata carriera, non mi era mai successo.
Mi scusai con Miss Hearty, mortificata com'ero, ma lei mi rassicurò: – Ci avevo già provato. Tintura casalinga, stesso risultato.
– È ora di passare al piano B – dissi, sollevando un paio di forbici, che diedero un gradevole zac zac quando le chiusi un paio di volte in aria.
Non potevo cambiare il colore dei suoi capelli, ma potevo almeno eliminare quel cuore così caratteristico.
La macchia si trovava molto in alto sulla testa, perciò avrei dovuto tagliare le ciocche che lo contenevano quasi all'attaccatura dei capelli. Dopo i primi tagli, però, mi resi conto che il maledetto cuore non si trovava solo in superficie, e per eliminarlo sarebbe stato necessario uno di quei tagli estremi, asimmetrici, molto corti su un lato della testa e con ciuffi e frange lunghe dall'altro, che di recente erano stati resi celebri dalle star. Abbastanza celebri, ormai, da non suscitare più curiosità al vederli sfoggiare in giro. Dopo aver chiesto il suo permesso, mi accinsi a ridurre drasticamente la sua capigliatura.
– Non funzionerà – mi avvertì però Miss Hearty.
Mi venne da ridere. Come poteva non funzionare, se i capelli incriminati dalla macchia traditrice stavano cadendo a terra sotto la lama delle mie forbici? Alla fine, non scorgendo più traccia di bianco tra il rosso dei suoi capelli, gridai "vittoria" e accesi il phon per asciugarli e acconciarli.
Attorno a noi, tra colleghe e clienti, c'era chi mi adocchiava accigliato con sguardi accusatori come se fossi stata colpevole di chissà quale crimine, e chi si avvicinava di soppiatto per accaparrarsi qualcuna delle "magiche ciocche" della sua beniamina.
Le ignorai, grata che il rumore del phon impedisse ogni tentativo di conversazione, e ci schermasse dai commenti che venivano scambiati sulle altre poltroncine.
Eravamo come in un bozzolo, io e lei. Sole, nella nostra crociata per l'anonimato. Non capii di aver incassato un'altra sconfitta se non quando, pettinando i capelli, scorsi la caratteristica macchia a forma di cuore lì al suo posto, a sinistra della riga. Imprecai di nuovo.
I capelli erano ricresciuti quel tanto che bastava da contenere la macchia nella sua interezza.
Fu allora che le proposi una soluzione estrema. Le proposi il rasoio, e Miss Hearty accettò. Non potevano ricrescere "miracolosamente" se le lasciavo a malapena un centimetro su tutta la testa.
Nel salone Belli Capelli furono lacrime e suppliche disperate quando passai la macchinetta ronzante sul suo cranio. Lei invece sorrideva sotto gli occhiali a forma di cuore, e alla fine, io potei gridare "vittoria" per davvero.
– Tanto domani mattina mi sveglierò e quella cosa sarà di nuovo là – mi disse Miss Hearty, mentre saldava il conto. – Ma grazie per averci provato.
Io non lo credevo possibile. Però scrollai le spalle e le dissi: – Se succede, può sempre prendersi una di quelle macchinette, usarla a casa ogni mattina, e cambiare look ogni giorno con una parrucca diversa.
La signorina mugolò e mi disse: – Probabilmente farò così, grazie.
Non ho più saputo nulla di lei, se non quando, da una di quelle notizie pubblicitarie in coda al telegiornale, ritennero opportuno informare il grande pubblico che l'ex star dei social media, famosa per il suo cuore sui capelli, aveva trovato l'amore e si era sposata in gran segreto, senza clamori e senza party milionari.
Ma tanto, per la sua felicità, c'erano già altre dieci ragazze che sgomitavano per prendersi il posto che lei aveva lasciato vacante.

sabato 28 gennaio 2023

Soverchio

Soverchio [so-vèr-chio] agg., s. (pl.m. -chi) lett. 1. agg. Eccessivo, esagerato. 2. s.m. Eccesso, sovrabbondanza. 3. s.m. Sopraffazione, sopruso.

Etimologia: dal basso latino latino superculus, derivato da super, "sopra".



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Foto di Pixabay da Pexels


Al mio risveglio le immagini del sogno mi colpirono con forza soverchia, e così rimasi seduto nella luce dell'alba che filtrava in strie sottili tra le pietre, immobile, mentre lacrime silenziose mi rigavano le guance. Non avrebbe dovuto sconvolgermi, in fondo era soltanto un sogno, sebbene lo avessi fatto nel tempio di Dorania, dove la gente andava per sognare il vero e risolvere i propri problemi con l'Oniromanzia. Ma per me era diverso, perché non avevo mai dormito da quando mi ero svegliato nella Valle, non avevo mai sognato, e questo mio primo e unico sogno non aveva bisogno di essere interpretato da un sacerdote.
Non doveva essere interpretato, perché quelli erano i miei ricordi perduti.
Liri aveva ragione: avrei fatto meglio a rinunciare alla mia ricerca e accontentarmi della vita che avevo.
Trasalii quando il saggio bendato mi posò una mano sulla spalla, richiamandomi fuori dal recinto sacro dove i dormienti ricevevano l'illuminazione, dentro la luce del tempio dove le immagini notturne venivano decifrate. Lo seguii, anche se non volevo parlargli, e non ne avevo bisogno.
Non c'era nulla da interpretare nella vita di latrocini e soverchi che era appena stata restituita alla mia memoria. Avevo causato dolore e ne avevo riso, avevo accumulato ricchezze che non mi appartenevano, avevo agito spinto solo dall'egoismo e dalla cupidigia, indifferente al resto del genere umano, indifferente persino agli stessi scagnozzi su cui esercitavo il mio dominio. Ero stata una persona abietta prima di dimenticare chi ero.
E il timore di riportare quella persona con me nella Valle, ora che lo sapevo, mi lacerava.

giovedì 26 gennaio 2023

Audioracconto - Ritratto di donna


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Immagine: "Georgia O'Keeffe on Bed, Abiquiu, 1967", foto di John Loengard


Ritratto di donna
(racconto breve di narrativa non di genere)

La sfida maggiore per una lettrice è risultare credibile nei panni di un narratore maschile, e quindi mi chiedo se in questo brano ci sono riuscita! L'idea è quella di un giornalista che mentre si prepara a intervistare l'artista della foto, riflette sulle impressioni che il suo ritratto gli suscita.
Ogni commento o critica costruttiva è bene accetto, d'altra parte sto ancora imparando. E se vuoi darmi fiducia e incoraggiarmi a pubblicare altre letture, iscriviti al canale YouTube https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma, metti un mi piace al racconto e condividilo con un amante dell'arte! O della lettura, come preferisci.


Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/)
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2017/05/ritratto-di-donna.html


Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria)

Musica: Gymnopedie No. 3 composta da Erik Satie ed eseguita da Wahneta Meixsell, dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=SU6Z2E-ZiSg).

Immagine: "Georgia O'Keeffe on Bed, Abiquiu, 1967", foto di John Loengard. Io non ho diritti sull'immagine. Fair use. I diritti vanno ai legittimi proprietari.

lunedì 23 gennaio 2023

Chiavi e serrature


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Foto di Pixabay da Pexels


Per un mese e mezzo ero rimasto sotto chiave nelle sere in cui il circo e l'area circostante erano aperti al pubblico, chiuso assieme a lei nel caravan della guaritrice in catene, a respirare il fumo aromatico dei suoi incensi e a stringere convulsamente il bordo del tavolo quando sentivo l'agitazione montarmi dentro al ritmo delle musichette ritmate e del vociare confuso che mi giungeva attutito e lontano. Su quel tavolo, ricordavo con sgomento ogni volta, lei mi aveva operato appena mi avevano trascinato qui, e certo da allora stavo molto meglio, ma non era riuscita del tutto a separare il mostro da me. Era quiescente, mi aveva detto, e da quel momento in poi spettava a me imparare a conviverci.
Mi avevano tenuto sotto chiave, nelle prime fasi di quell'apprendimento, per la mia sicurezza e per quella degli ospiti paganti, perciò mi ero perso tutto il divertimento nelle prime quattro tappe del nostro viaggio da quando mi ero unito al circo.
Poi, Antares aveva stabilito che ero pronto per il primo passo fuori dal mio rifugio, e allora mi avevano piazzato in uno dei baracchini più periferici, sotto la sorveglianza di Amaltea, la zingara con gli zoccoli caprini al posto dei piedi. Quello era il suo tratto più notevole, che lei celava accuratamente con una gonna lunga e un paio di stivali senza suola a coprili, ma avevo scoperto con il tempo che Amaltea aveva anche altre qualità, ed era il motivo per cui avevano messo lei, e non altri, al mio fianco.
– Non è strano che abbia parlato almeno due volte con Antares, e non saprei riconoscerlo se mi passasse davanti? – chiesi ad Amaltea, adocchiando il flauto di Pan che portava appeso alla cintura, e che era la mia ancora di salvezza in caso le cose si fossero messe male. – Non so nemmeno se è un uomo o una donna, com'è possibile?
Amaltea sogghignò, appoggiata con le braccia sul bancone. – Tesoro, Antares è Antares, Non c'è bisogno di sapere altro, solo che quando ti serve una mano, lui... o lei... lo sa.
Inspirai l'odore dolciastro delle mele caramellate e della macchinetta dello zucchero filato usata neanche cinque minuti prima per la seconda volta quella sera, dopo che Amaltea mi aveva fatto vedere come fare. Ci stavo prendendo la mano.
Amaltea si raddrizzò di scatto quando una figura ci raggiunse tagliando attraverso lo spiazzo dei tendoni, ma non era una cliente quella che si stava avvicinando. Era Demi.
– Amaltea! – la chiamò Demi già da lontano, alzando la voce per farsi sentire tra le note allegre della musichetta che veniva dal nostro baracchino, illuminato a giorno dalle insegne che pubblicizzavano tutte le leccornie che vendevamo. Ci raggiunse di corsa, poi disse. – Talìa ha bisogno di te nella zona delle gabbie, Sally ha di nuovo fiutato un cane e ha perso la testa!
Amaltea mise mano al suo flauto di Pan, poi mi rivolse un'occhiata dubbiosa.
– Vai, resto io con lui! – la esortò Demi.
E così, la zingara dai piedi caprini se ne andò a placare la donna gatto con la sua melodia incantata, mentre Demi, che in apparenza era l'unica persona normale di quel circo, si piazzava dietro al bancone al mio fianco.
La sbirciai, mentre mi affaccendavo attorno alla macchina dei popcorn, programmandola per produrne un'altra infornata, come se ce ne fosse stato bisogno. Demi mi metteva un po' a disagio, perché io sapevo chi era, e da quando lo avevo scoperto preferivo di gran lunga parlare con la vera lei, che con una proiezione della sua mente.
– Tutto a posto? – mi chiese Demi, scrutandomi attentamente.
– Oh? Sì, certo, tutto a posto. Non ho ancora squartato nessuno, se è quello che intendi. – Tentai di fare una battuta, che mi riuscì più lugubre e cupa di quanto volessi. – Cioè, sai... sto bene.
Trasalii allo scoppio dei primi popcorn nella macchinetta, che mi girai a fissare per non vedere più la sua fronte aggrottata.
Demi ignorò il mio nervosismo e parlò schiettamente, come aveva sempre fatto. – Tutti noi abbiamo qualcosa che ci fa scattare, come la chiave della nostra serratura. Per Sally sono i cani, i cani portano a galla la sua natura ferina. Tom... beh, già sai che cosa è meglio non fare quando c'è in giro lui. – Mi girai in tempo per vederla fare un occhiolino. Scossi la testa.
– Per te... – continuò Demi. – La tua chiave è la folla, la confusione. Troppe persone attorno risvegliano l'interesse del mostro. Ma dato che non puoi vivere in una torre, Antares mi ha incaricato di abituarti per gradi.
Sospirai, concentrandomi per la prima volta sul vociare della folla in lontananza, le risate dei bambini, le grida di eccitazione, le conversazioni confuse a voce alte. Un palpito si agiò dentro di me, ma fui svelto a calmarlo con respiri profondi, e immaginando al posto dell'aroma zuccheroso dei lecca lecca e delle frittelle il sentore di incenso che anche Demi conosceva bene.
Perché era stata lei, l'altra lei, che mi aveva fatto compagnia mentre me ne stavo isolato dentro il suo caravan.
– E per quanto riguarda te? Qual è la tua chiave, che cosa ti fa scattare?
Demi non mi rispose. Una famiglia si stava avvicinando al nostro baracchino, e la madre si protese a ordinare una frittella, un bicchierone di granita e un sacchetto di popcorn per i tre ragazzini vocianti che aveva al seguito. Mentre io ritiravo i soldi e porgevo una frittella già pronta, vidi Demi spostarsi dietro le macchine del popcorn e delle granite.
– Tranquilla, faccio io! – mi affrettai ad assicurarle, dal momento che sapevo che, sebbene sembrasse perfettamente normale e solida, Demi non era altro che un'immagine intangibile, un fantasma.
Fui piuttosto sorpreso quando, nell'affiancarmi a lei, scorsi la leva della granita tirata, con la sua mano chiusa attorno, e poi la vidi muovere le dita per aprire lo sportellino che faceva scivolare i popcorn nel sacchetto. Eppure io avevo tentato di toccarla e la mia mano le era passata attraverso.
Offrì infine entrambe le cose, sacchetto di popcorn e bicchiere di granita completo di cannuccia, su di un vassoio che tese sopra al bancone verso la famigliola, sorretto solo in apparenza dalla sua mano posata sotto. Attese che se ne fossero andati, prima di dirmi: – Con gli oggetti è facile. Le cose non sentono, non fa differenza se il tuo tocco è reale o se è un campo telecinetico. Ma tu sentiresti la differenza. Posso darti l'illusione di toccarmi, ma poi, dopo il primo istante, ti chiederesti perché la mia pelle non è calda, o non è morbida, o non è... niente, se non una barriera solida. E quel che è peggio, è che io non sentirei nulla, perciò, perché darsi la pena?
Demi sospirò, girò la schiena al bancone e vi si appoggiò, o almeno diede l'impressione di appoggiarsi al bancone con la schiena e con i gomiti. – Mi hai chiesto qual è la mia chiave, che cosa mi fa scattare. Volevo dirti il sole, perché non posso uscire alla luce senza rischiare di ustionarmi, ma non è quella la mia chiave. Non mi sarei incatenata nel mio rifugio, se avessi potuto andarmene liberamente in giro durante la notte. Ma non posso.
Demi tacque, quel tanto da lasciarmi capire all'improvviso, come in una sorta di rivelazione, che non avevo più distolto gli occhi da lei, che non mi metteva più a disagio parlare con quella forma di lei.
– E allora...? – la spronai, senza commentare quello che in fondo avevo già pensato, che di notte sarebbe stato sicuro per lei uscire dal caravan, se avesse voluto.
– La mia chiave è la tentazione di una vita normale. So che impazzirei nel tentativo di averla, se solo ci provassi. Ma allo stesso tempo, non posso sopportare il modo in cui mi hai trattato quando sono qua fuori, così, da quando lo sai. Per questo non volevo che lo sapessi.
Abbassai gli occhi. Quelle parole, come una chiave girata in un lucchetto, aprirono qualcosa tra noi. Una nuova fase, che fino ad allora non avevo considerato.
Mi rammaricai quando Amaltea tornò vittoriosa dalla sua missione e riprese il suo posto di guardiano del mostro.

sabato 21 gennaio 2023

Ecchimosi

Ecchimosi [ec-chì-mo-si o ec-chi-mò-si] s.f.inv. med. Emorragia a livello dei tessuti sottocutanei, dovuta a contusioni.

Etimologia: dal latino ecchimosis,a sua volta derivato dal greco ekchýmōsis, composto da ek, "fuori da", e da chymós, "umore, succo".



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Foto di Gustavo Fring da Pexels


Il mondo era alla rovescia. Non era mai successo, e non credevo che sarebbe mai potuto succedere.
Per una sera, Sharona era quella sdraiata sul divano, a mugolare per il bruciore dei lividi, mentre io ero quella che le portava la borsa del ghiaccio e si prendeva cura del suo corpo e del suo orgoglio ferito.
– Sul serio, spiegami come fai – brontolò Sharona. Emise un suono sibilante quando le posai, con tutta la delicatezza possibile, la borsa del ghiaccio su un'ecchimosi che si intravedeva nello scollo della camicetta sbottonata. – Lì per lì, sul momento, fa così male che mi stupisce che tu non abbia ancora smesso.
– Morire fa male. Che sorpresa, eh? – commentai in tono sarcastico. Lei mi guardò storto, tanto che mi rammaricai immediatamente della battuta.
– Suppongo che lo abbiano reso il più realistico possibile per far sì che i giocatori si impegnino – ipotizzai in un mormorio di scusa.
– E i ricordini post duello sono per lo stesso motivo, o sono solo un effetto collaterale? – sbottò Sharona adocchiando l'ecchimosi circolare che le fasciava il braccio destro. Ero abbastanza esperta da capire, dalla posizione e dalla forma dei lividi, che il suo avversario lo aveva tranciato prima di colpirla al cuore.
Mi strinsi nelle spalle: non conoscevo la risposta a quella domanda.
– Perdere fa schifo – brontolò Sharona. Quella, di solito, era la mia battuta.
– Già. Perdere fa schifo – concordai, poi aggiunsi: – Però, vincere è eccitante.
Mi protesi sulle sue labbra e la baciai. Un bacio casto, breve, e mi allontanai quel tanto che bastava per soffiarle sulla bocca in tono languido: – Sai, quando tornavo a casa, dopo una vittoria... avevo sempre voglia.
Lei sgranò gli occhi. Probabilmente aveva fatto un rapido calcolo. – Sei davvero così brava a Duel?
Annuii, e mi venne da ridere per la sua espressione di comico stupore.
I lividi e la sconfitta erano ancora troppo freschi per permetterle di fare altro, perciò restai lì, sul divano, a prendermi cura di lei e a coccolarla.

giovedì 19 gennaio 2023

Audioracconto - Errabondo


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Photo by Astro Wizard da Pexels



Errabondo
(racconto breve di narrativa non di genere)

Terzo "esperimento", ogni volta alzo un po' l'asticella, e stavolta ho aggiunto dei semplici effetti sonori al racconto. Ogni commento o critica costruttiva è bene accetto, d'altra parte sto ancora imparando. E se vuoi darmi fiducia e incoraggiarmi a pubblicare altre letture, iscriviti al canale YouTube https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma, metti un mi piace al racconto e condividilo con un amante delle passeggiate! O della lettura, come preferisci.


Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/)
Il testo del racconto è leggibile qui: https://lapiumatramante.blogspot.com/2017/09/errabondo.html


Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria)

Musica: Precious Life, di Savfk (https://soundcloud.com/savfk),  dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=UonWgjB_1m8).

Immagine di: Astro Wizard, da Pexel (https://www.pexels.com/photo/person-walking-in-foggy-forest-3354172/) distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/).

Effetti sonori da FreeSounds (https://freesound.org/) sotto licenza Creative Commons 0 (https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/).

lunedì 16 gennaio 2023

La creatrice di stelle


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Dettaglio da una foto di Victoria Akvarel da Pexels


– Entra e chiudi la porta, e già che ci sei, cerca di non far scappare la Sfolgorante Lucentezza che danza sul soffitto.
Nebulea non aveva ancora bussato alla porta, che quel sussurro brusco le giunse attraverso il legno. Non era un buon inizio, no, niente affatto.
Tra gli aspiranti maghi all'ultimo anno di accademia si raccontavano storie su Galada, e nessuna era lusinghiera o rassicurante. Si diceva che fosse tanto scorbutica da aver fatto scappare ogni apprendista che si fosse presentato alla sua porta, e che la sua disciplina fosse tra le più difficili da padroneggiare. Quelle storie, che mettevano i brividi ai suoi compagni di studio, non potevano spaventare lei. Nebulea ne era certa: voleva diventare una creatrice di stelle, e non si sarebbe fermata di fronte a niente e a nessuno. Che ci provasse pure la magistra Galada a scoraggiarla.
Galada non si voltò neppure quando Nebulea scivolò dentro dalla porta socchiusa. Stava bisbigliando qualcosa china su un crogiolo luminoso, e la sua voce si perdeva in echi indistinti nella stanza ottagonale, assieme al gorgoglio della pozione e al crepitio delle fiamme nel braciere. Una nebbiolina d'incenso aromatico con tracce di mirra e di folgore solida aleggiava tra le pareti di legno e si aggrappava agli scaffali colmi di libri e alle mappe stellari appese ovunque, in alcuni punti tanto fitte da essere sovrapposte. Sul soffitto, attorno al lampadario dalle candele spente, si aggirava una creatura d'ombra e di scintille luminose che spargeva bagliori d'oro e d'argento sulle pareti e sul banco di lavoro della maga.
La Sfolgorante, decise Nebulea. Ne aveva sentito parlare, e nelle storie all'accademia si accennava alla creatura selvaggia che Galada aveva addomesticato come famiglio, ma non ne aveva mai vista una dal vivo. Le immagini nel bestiario scolastico non le rendevano giustizia.
– Un'altra apprendista, perfetto – brontolò Galada, mentre sfogliava un grimorio fitto di rune che galleggiava pigro tra le boccette e i cristalli alla sua sinistra. – Avevo detto all'accademia che la smettessero di mandarmi ragazzine incompetenti. Almeno vedi non startene lì a fissare imbambolata il soffitto, per tutte le stelle comete!
Nebulea trasalì e distolse gli occhi dalla Sfolgorante. Avanzò di qualche passo e si fermò poco distante da Galada, alla sua destra, in modo da non perdersi ogni mossa della maga. La osservò mescolare il fluido bollente nel crogiolo con una bacchetta, quindi, al comando della sua voce sempre pacata, una bolla scintillante si sollevò nell'aria, fluttuò fino alle sue mani e roteò mentre Galada la plasmava con il moto circolare dei palmi, e infine la spediva dolcemente a prendere il suo posto nella sfera oscura in cui le sue compagne già sfavillavano in un arabesco di brillanti capocchie di spillo.
– Il cielo di questa notte – spiegò Galada, nell'aggiungere un frammento di asteria nel crogiolo. – Sai già, a meno che tu non sia completamente ignorante, che i cieli di Aeyoen non si ripetono mai uguali, mai, da quando ebbe inizio il mondo.
Nebulea annuì, un po' seccata di venire trattata dalla magistra come una bambina. Era un fatto risaputo, e non c'era alcun bisogno di spiegarlo, a meno che Galada non avesse l'intenzione di offenderla o di annoiarla.
– Non esistono due notti uguali lassù – recitò Nebulea. – Così come non esistono due giorni uguali quaggiù.
– È essenziale dare agli astrologi qualcosa di diverso da leggere, o finiranno col credere che gli eventi del passato stiano per ripetersi – bisbigliò Galada. – Guai se si verificasse di nuovo l'errore che commise il primo apprendista del dodicesimo creatore di stelle, che scambiò una vecchia mappa per un nuovo progetto.
Sopra le loro teste lo Sfolgorante si mosse, variando il tessuto di luce ed ombra nella stanza, ed emise un verso simile allo sfrigolio di un metallo rovente immerso nell'acqua. Nebulea conosceva quella storia, gli insegnanti dell'accademia la raccontavano sempre come monito per coloro che avevano in mente di intraprendere quella difficile carriera. Quasi tutti cambiavano idea nel sentirla, ma non lei.
Galada si chinò, e vicinissima al crogiolo bisbigliò altre parole alla mistura. Questa volta, Nebulea riconobbe la dolce melodia della Lingua Celeste, in cui tutti gli incantesimi astrali venivano pronunciati. – L'incanto offuscante – affermò nel riconoscere le parole che precedevano la preparazione di un corpo celeste meno luminoso, come una luna, un asteroide o un pianeta.
– Ma guarda, conosci le tue lezioni a memoria, e solo per questo pensi di avere quello che serve per diventare la prossima creatrice di stelle? – Galada frugò rumorosamente tra i ninnoli, le pietre, le scatoline contenenti misture di erbe e le boccette di pozioni sparse sul banco, fino a sollevarne una e lasciar cadere una goccia di liquido cremisi nel crogiolo, sprigionandone un fumo odoroso di terra e di pioggia. Fuori dalla stanza, il rombo cupo di un tuono turbò la quiete del laboratorio della creatrice di stelle. – La mia arte, ragazzina, non è fatta di semplici frivolezze come quella di un mago elementale, cosa ci vuole per dominare l'acqua e il fuoco, è magia elementare quella, e nemmeno è sufficiente saper mescolare una pozione come un alchimista. Per ideare un cielo diverso ogni singola notte occorre una notevole fantasia, un'inventiva impareggiabile, e una memoria sconfinata e senza fallo. Pensi di esserne in grado? E soprattutto, sei certa, davvero certa di voler prendere il mio posto?
Galada le si avvicinò e l'afferrò per un gomito. Tenendola stretta, la condusse a osservare da vicino il globo stellato che stava preparando.
Nebulea trasalì a quel contatto ma non emise un fiato. Era certa che la maga lo avesse fatto apposta per metterla a disagio e costringerla a rinunciare, poiché non poteva essere sfuggita a Galada la sua natura di Auria. Il solo contatto con un altro essere vivente era sufficiente per lasciare dei lividi sulla sua pelle color del cielo.
La magistra non la mollò nemmeno quando furono di fronte al globo stellato, e fu con l'altra mano che le indicò uno spazio tra un agglomerato di stelle. – Il mio lavoro di questa notte è quasi pronto, manca solo una luna in quel punto, e una cometa parallela a quella scia di astri, appena al di sotto. Allora, ragazzina, approvi il mio lavoro o pensi di poter fare di meglio?
Nebulea contrasse le labbra in un sogghigno. La morale in tutte le storie sul suo conto che aveva sentito all'accademia era che era meglio non contraddire Galada, ma lei, almeno in quel caso, non poteva esimersi dal farlo.
– Dico che sarebbe una pessima idea, a meno che non si voglia far sbadigliare di noia gli astronomi al pensiero di un altro giorno privo di eventi quanto il quattordicesimo del mese terzo dell'anno 331. Piuttosto, io allargherei quel gruppo di stelle in alto e piazzerei lì una coppia di lune, una più grande e una più piccola, e niente comete o si rischia di ripetere un altro cielo, di un giorno altrettanto banale di ottocento anni dopo.
Galada le mollò il braccio e la fissò negli occhi per la prima volta. Erano capaci tutti di ricordare la posizione delle stelle che precedevano un'incoronazione o un cataclisma, ed era per questo, pensò Nebulea, che l'aveva messa alla prova con il cielo stellato a cui era seguito un giorno come tanti. Non si era aspettata che l'aspirante apprendista la contraddicesse o se ne ricordasse.
Aveva sottovalutato la sua memoria di Auria, e la sua determinazione nell'ottenere quel posto.
Galada mugolò e sollevò un braccio per far sì che la Sfolgorante vi scendesse e si raggomitolasse in un caleidoscopio d'ombra e di luce, difficile da fissare direttamente, attorno al suo collo. – Da questa parte, saputella – l'apostrofò la maga, tornando ad affaccendarsi attorno al crogiolo sul banco di lavoro. – Forse non sei così inutile come sembri.
E fu così che Nebulea iniziò il suo apprendistato da creatrice di stelle.

sabato 14 gennaio 2023

Plaga

Plaga [plà-ga] s.f. (pl. -ghe) 1. lett. Regione, territorio. 2. geol. Porzione di roccia con cristalli grandi e di specie diverse.

Etimologia: dal latino plaga, "piano, superficie, estensione di terra", derivato forse dal greco pelagos, "la pianura del mare", o secondo altri dal greco plax, "ogni corpo piano, pianura, estensione piana".



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Tàlyos non sapeva in quale remota plaga il Professore, lo aveva sempre chiamato così perché il suo vero nome era difficile da pronunciare persino per la sua lingua di mezzelfo, avesse scovato la drusa di cristallo azzurro su cui loro due avevano lavorato negli ultimi anni. Non glielo aveva voluto dire nemmeno in punto di morte.
Purtroppo i Kohold avevano una durata anche inferiore a quella umana, e il Professore non era riuscito a vedere realizzato il condensatore che avrebbe provato al mondo che la sua teoria era corretta. Il prototipo che gli aveva lasciato era troppo instabile per rivelarsi di qualche utilità, ed era solo dopo la sua morte che Tàlyos era riuscito a correggerne i difetti e a costruire un modello di condensatore che estraesse dai frammenti della drusa un'energia stabile e utilizzabile dalla rete cittadina già esistente. Il rettore dell'Imperiale Accademia di Calidona di quegli anni, il quarto o quinto che Tàlyos avesse conosciuto, era soddisfatto. In questo modo era stato eliminato dagli annali di storia un esserino orribile che nulla aveva di umano, e tutto il merito della sorprendente scoperta era stato accreditato a lui, Tàlyos, la somma del meglio che la razza elfica e quella umana potevano offrire.
Ma Tàlyos non era tranquillo. Sapeva che sarebbe vissuto abbastanza per vedere il momento in cui anche gli esseri umani avrebbero capito ciò che lui già sapeva.
Il processo consumava il cristallo. La drusa non sarebbe durata per sempre, come aveva ipotizzato il Professore. Tàlyos doveva trovare altri frammenti del minerale azzurro, se non voleva che anche il suo nome fosse cancellato dalla storia. Fu per questo che dopo la sua scoperta, il mezzelfo iniziò a vagare di landa in landa alla ricerca di un indizio sull'origine del cristallo azzurro. Il primo che trovò fu una plaga proveniente dai monti della Catena Lunga, in cui l'agognato cristallo era misto a banali frammenti di pietre preziose, puramente ornamentali, a pirite e a quarzi di vari colori.

giovedì 12 gennaio 2023

Audioracconto - Le nuvole di Luke


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Le nuvole di Luke
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Secondo "esperimento" di lettura di un racconto scritto da me. Ogni commento o critica costruttiva è bene accetto, d'altra parte sto ancora imparando. E se vuoi darmi fiducia e incoraggiarmi a pubblicare altre letture, iscriviti al canale YouTube https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma, metti un mi piace al racconto e condividilo con un amante delle nuvole! O della lettura, come preferisci.


Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/)
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2018/08/le-nuvole-di-luke.html

L'idea per questo racconto mi è venuta guardando un video del canale TED-Ed, "How did clouds get their names? - Richard Hamblyn". Per approfondire l'argomento puoi trovarlo qui: https://www.youtube.com/watch?v=UuW1jhxCgx0.


Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria)

Musica: Concierge, di ALBIS, (http://incompetech.com) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=5KUDVR4hxWw).

Immagine di: Pixabay, da Pexel (https://www.pexels.com/it-it/foto/cieli-blu-53594/) distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/)

lunedì 9 gennaio 2023

La sposa dubbiosa


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Che cosa ci faceva una principessa in abito da sposa in un fast food in stile retrò è presto detto: aveva dato buca al suo matrimonio.
La sposa, seduta al tavolo in fondo, piluccava svogliatamente le untuose patatine fritte che il locale serviva in un cartoccio beige con il suo logo sopra, e intanto cercava di farsi piccola nel suo ingombrante abito bianco. Era impresa tutt'altro che semplice evitare le occhiate curiose provenienti dagli altri tavoli, quando si spicca come un razzo spaziale in un campo di cavoli.
Lei, che in quella vita e in quel mondo rispondeva al nome di Lisa Segni, sospirò e si puntellò il mento sul palmo della sinistra, mentre con la destra mosse la cannuccia nel bicchiere di coca-cola ghiacciato, traendone un sonoro tintinnio. Fuori dalla finestra le cicale si stavano svegliando sotto il cielo indaco dell'imbrunire, mentre sul bancone una vecchia radiolina funzionava soltanto per un minuto su dieci, quando una delle ragazze col grembiule e la cuffietta in testa, affaccendate a raccogliere, preparare e distribuire le ordinazioni, nel passarle accanto dava una manata alla radio, o cercava per un attimo di regolare la frequenza con le due manopole tonde, risvegliandola temporaneamente dal suo torpore fatto di scariche statiche. La musica comunque non durava mai abbastanza per coprire le chiacchiere e le risate dagli altri tavoli, e Lisa non faticava a immaginare che stessero ridendo di lei.
"Di sicuro si immaginano che me ne sto qui mogia mogia perché sono stata mollata" pensava Lisa, mentre era vero l'esatto contrario.
La porta si aprì e nel rettangolo di strada comparve una ragazza di sedici o diciassette anni fradicia da capo a piedi, i lunghi capelli scuri e gocciolanti, la pelle madida, l'abito azzurro col corpetto decorato da un disegno simile a iridescenti squame di pesce appiccicato addosso e le balze della gonna bordate d'argento che pendevano flosce e grondanti. Aveva occhi dal taglio leggermente allungato che davano un tocco d'esotico al suo volto e che avrebbero potuto suggerire un'ascendenza dall'estremo oriente, Cina o Giappone o paesi limitrofi, a chiunque non fosse stato al corrente che sua madre era una Naiade, una ninfa delle fonti.
La ragazza avanzò incurante lungo il bancone che occupava quasi per intero il lato sinistro del locale, lasciandosi dietro una scia di gocce e impronte umide, e a un'occhiataccia di una delle cameriere sbottò: – Be', che c'è? Mai capitata nel bel mezzo di una ice bucket challenge a sorpresa?
La cameriera brontolò, ma la ragazza proseguì fino al tavolo della sposa e si sedette di fronte a lei. Erano una strana accoppiata, la sposa, una donna sui trent'anni o poco più, e l'adolescente in abito da damigella, che a dispetto dell'apparenza aveva vissuto almeno un decennio più dell'altra.
– Emma – sussurrò la sposa, e bevve un sorso di coca-cola. Emma non era il vero nome dell'altra, ma era il nome con cui Lisa l'aveva conosciuta, e si sentiva più a suo agio a chiamarla così – Mi chiedevo chi avrebbero mandato a riprendermi.
– Non che ci fosse molta scelta – borbottò la ragazza, scrollando le spalle imperlate di goccioline. – Avresti potuto ignorare chiunque altro si fosse presentato qui, trattando tutti, perfino il tuo carissimo guardiano mezzelfo, come nulla più che un'allucinazione. Quanto a Julian... se aspettiamo che intervenga lei, fai in tempo a morire.
Quella frase strappò alla sposa un sorrisino. Emma aveva ragione: erano poche le persone che potevano attraversare il confine tra i mondi, e tra di loro meno ancora erano quelle a cui importava davvero che lei fosse scappata.
Una delle cameriere, probabilmente, data l'espressione schifata, quella che aveva perso quando avevano tirato a sorte, si piazzò a lato del tavolo e chiese alla ragazza fradicia se intendeva ordinare qualcosa.
– Fish&chips e una bottiglia da un litro di acqua naturale... due da mezzo, se non ne avete – rispose Emma, e attese paziente che la cameriera si fosse allontanata.
Lisa nel frattempo sbirciava gli altri tavoli, e le parve che le occhiatine, i bisbigli e le risate si fossero moltiplicati. Con l'arrivo di Emma era stato come se un sottomarino si fosse arenato sul campo di cavoli, proprio di fianco al missile spaziale, rendendo la loro presenza lì, assieme, ancora più degna di nota. Si agitò sul divanetto di pelle, a disagio.
– È per via di quello che ti ho detto quando eravamo a scuola? – le chiese a bruciapelo la ragazza. Erano state compagne di banco, ma nessuno nel fast food avrebbe potuto immaginarlo. – Perché se è per quello non mi devi dar retta, che ne sapevo io, ripeterti come vere le chiacchiere tramandate dai miei antenati di più di mille anni fa, quando dall'altra parte non c'ero mai stata se non una o due volte per poche ore, e cercando sempre di non incrociare nessuno che non fosse mia madre perché non si sa mai...
Lisa scoppiò a ridere, poi posò una mano su quelle umide dell'amica. Ricordava bene quello che Emma le aveva detto, commentando uno dei romanzi fantasy che piacevano tanto a lei, e che Emma deprecava. "Un elfo non può innamorarsi di un essere umano, sarebbe come se un uomo provasse un interesse romantico per una scimmia!"
– No, no – la rassicurò la sposa, scuotendo la testa. – Non è per quello. Non dubito che lui mi ami davvero, a suo modo. Anche se mi sopravvivrà.
La damigella in azzurro alzò gli occhi all'avvicinarsi della cameriera, le prese il vassoio di mano con un ringraziamento, e solo dopo aver bevuto un sorso da una delle due bottigliette, quando l'estranea si era ormai allontanata, chiese alla sposa: – E allora perché?
Lisa chinò il capo. Sbocconcellò qualche pezzetto di pane dalla calotta del suo hamburger.
– Sai quello che si dice della città di Laeverth, vero? – mormorò infine la sposa. Di fronte all'espressione perplessa dell'altra, soggiunse: – Laeverth non cadrà finché esisterà una figlia di Lae.
Emma fece una smorfia. Ma certo, era ovvio. Tutti sapevano che c'era un'alta probabilità che i figli ibridi fossero sterili, ed era questo il motivo per cui Sara, che in un'altra vita era stata la madre di Lisa, non aveva sposato Jossintaur il mezzelfo, e allo stesso tempo era il motivo che aveva indotto lo spaventoso drago che era l'antenato di Emma a inviare la Naiade a sedurre suo padre dopo che lui, ultimo dei discendenti del drago, contrariamente al resto della famiglia era sopravvissuto a ogni sicario che era stato inviato sulle sue tracce.
Morta Emma, la vergognosa discendenza ibrida del drago sarebbe stata cancellata.
– Laeverth è già caduta – le ricordò Emma, tra un boccone e l'altro. – E tecnicamente, da un punto di vista puramente biologico, la stirpe di Lae si è interrotta quando tu e Sara siete morte.
Dalla radio esplose qualche secondo di note ritmate, sufficienti a far trasalire Lisa, prima di ritornare al consueto brusio letargico.
– E adesso state ricostruendo la città e tu sei viva! – constatò Emma, fingendo un'espressione sorpresa nel puntarle contro una patatina. – Anche se non sei più la figlia di Sara di Laeverth ma di due a cui probabilmente prenderebbe un colpo se sapessero tutta la storia, e che darebbero di matto nello scoprire che non li hai nemmeno invitati al tuo matrimonio, e no, non dire che lo hai fatto perché non potrebbero venirci perché io potrei portarceli se non hanno paura di un po' di umidità, e c'è un elfo meraviglioso che non ti considera una scimmia e che ti aspetta ad appena un mondo di distanza. E tu te ne stai qui a mangiare un hamburger e a bere coca-cola? Per me sei matta!
Lisa si lasciò sfuggire un risolino al rimprovero della ragazzina dai capelli gocciolanti, poi si accorse che più di qualcuno si era girato a sbirciarle dai tavoli vicini, e sbiancò al pensiero che i loro vicini, che si erano fatti silenziosi, avessero ascoltato le parole che Emma aveva sbottato a voce un po' più alta. Si nascose il volto tra le mani, ma l'amica si girò a fissare i curiosi e li apostrofò con un risoluto: – Embé? Mai giocato al GDR "la principessa in fuga"? L'altra damigella è una fata, e allora?
– Emma! – sibilò Lisa, il cui volto stava in quel momento passando ai toni del rosso.
Almeno, dopo quell'uscita, non c'era più nessuno che le guardasse.
Emma riprese tranquillamente a mangiare quel che aveva nel piatto, quindi le disse: – Dovresti prendere esempio da me. Ho avuto paura di un drago per tutta la vita, ma adesso ho smesso di nascondermi.
La sposa si strinse nelle spalle. Emma non le aveva mai dato l'impressione di avere paura di qualcosa o di nascondersi da chicchessia.
– Insomma – continuò l'amica. – Hai affrontato un esercito di demoni per ben due volte, e hai paura che questi ti sentano fare discorsi strani, o... di sposarti?
– Non devo ricordarti che sono morta, la prima volta – mormorò Lisa, portando una mano sul ventre al ricordo della ferita che le avevano inflitto nell'altra sua breve e sventurata vita. – E ci avrei lasciato le penne anche la seconda, non fosse stato per il Prisma.
Emma sogghignò, si strofinò le mani e finì la prima bottiglietta. – Arashi è una forza della natura. Peccato che non l'hai potuta invitare, lei sarebbe venuta qui e ti avrebbe trascinato dall'altra parte di peso. Ma capisco che sarebbe stato di pessimo gusto invitare al tuo matrimonio la nuova regina dei demoni, dopo tutto quello che hanno combinato.
– Ad Achara non sarebbe importato – considerò Lisa, meditabonda. – E nemmeno a Jossintaur, o a Besta Rei, o a Will e a tutti gli altri di Belwil. A parte Nehert, forse. – Soffocò una risata. – E magari, se Arashi fosse venuta, sarei riuscita a vedere Julian sorridere.
– Già, magari. – Emma sbirciò il piatto dell'amica. Non aveva finito l'hamburger, ma non sembrava intenzionata a mangiarne ancora. 
– Senti, ma non eri tu quella che voleva portare un po' di modernità nell'Oltreconfine e trasformare il tuo bel regno in una repubblica? – chiese d'un tratto Emma. – Ora, capisco che dopo la guerra con i demoni e la distruzione della città i tuoi concittadini siano un po' restii ad abbandonare l'idea che la presenza di una figlia di Lae sul trono li possa magicamente proteggere da ogni male, ma se anche le tue piccole mezzelfe non potessero dare al regno altre figlie di Lae, a quel punto fra qualche centinaio d'anni forse e dico forse gli uomini e le donne di Laeverth si sentirebbero finalmente pronti a governarsi da soli senza più bisogno di stampelle, non credi?
Lisa rimuginò per un istante sulle parole dell'amica. Era in momenti come quello che Emma dimostrava quanto in realtà avesse vissuto più di lei, sebbene la sua esistenza finora si fosse trascinata nella noiosa ripetizione di anni scolastici in diverse città, dopo aver aggiornato la sua data di nascita e cambiato nome ogni volta che la sua età apparente non sembrava più corrispondere a quella anagrafica.
– In effetti... – mormorò Lisa. In effetti, il problema che le era parso insormontabile in quel matrimonio misto non era nemmeno un problema. Laeverth avrebbe benissimo potuto continuare a esistere anche senza una principessa.
Ma Lisa aveva bisogno di Emma per un'altra questione, perciò non poteva dargliela vinta così facilmente. Come aveva detto la mezza Naiade, era giunto il tempo di diventare coraggiosa, e affrontare qualcuno che le faceva più paura di un intero esercito di demoni.
La radio sul bancone trasmise mezzo ritornello di una canzone d'amore, e una ragazza nella sala continuò a canticchiarla anche dopo che la radiolina si ridusse al consueto crepitio di scariche statiche.
– Se io adesso torno a Laeverth e mi sposo... – propose Lisa, mentre già cercava nella borsetta il portafoglio con la valuta corrente in quel mondo e in quella nazione. – ...e do a te tutto il merito di avermi scovata e convinta, tu saresti disposta a fare qualcosa per me?
– Dipende... – mormorò la ragazza, tra un sorso e l'altro della seconda bottiglietta.
– Ho bisogno di te come prova vivente di tutte le stranezze dell'altro mondo quando ne parlerò ai miei – sciorinò Lisa tutto d'un fiato.
– Andata – accettò la damigella, i cui capelli e vestito erano ancora leggermente umidi, sebbene la ragazza si fosse un poco asciugata nella calda atmosfera dal sentore di fritto del fast food. Sollevò una mano e Lisa le batté il cinque.
– Sì, però a Oltreconfine ci torno a modo mio – l'avvertì Lisa una volta fuori dal locale, nell'aria fresca della sera brulicante dei canti di cicale. – Ora come ora, vestita a questo modo, nemmeno la regina dei demoni potrebbe convincermi a tuffarmi in un lago assieme a te, e guai se ti azzardi a dire "sposa bagnata, sposa fortunata"!

sabato 7 gennaio 2023

Ruzzare

Ruzzare [ruz-zà-re] v.intr. (aus. avere) [sogg-v] Riferito a persone o animali, correre e saltare per divertimento.

Etimologia: etimo incerto, probabilmente di origine onomatopeica, oppure derivato da roteare mediante una forma dialettale rotjare, nel senso di "far capriole, giravolte", oppure "far girare per gioco un disco o una palla". Per alcuni sarebbe trasposto da zurrare, "essere esaltato di animo", mentre per altri potrebbe essere derivato dall'antico tedesco ruozzan, "muovere, sollevare".



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Sapevo sempre quando il mio cane aveva voglia di andarsene al parco a ruzzare, perché era lui che me lo diceva. E no, non intendo che afferrava il guinzaglio con i denti, o raspava contro la porta, o mi si sedeva accanto con quello sguardo supplichevole da cane bastonato che hanno certi quadrupedi da compagnia, la tipica "occhiata che parla da sola". No, Benny proprio me lo diceva chiaro e tondo.
– Andiamo al parco? – mi chiedeva di punto in bianco, soprattutto quand'ero impegnatissimo a fare tutt'altro. – Voglio correre un po', ci andiamo? Adesso? Ora? Su?
Quando poi mi arrendevo e prendevo il guinzaglio, pur di sentirlo stare un po' zitto - non era mai capitato che Benny parlasse di fronte a qualcun altro, tanto che a volte mi chiedevo se non fossi io a essere impazzito a furia di vivere da solo come un cane, assieme a un cane - spesso Benny aveva anche mille pretese. Cose come: – Ricordati la palla!
Oppure: – Portati qualcuno di quei bocconcini che mi piacciono tanto, che poi a correre mi viene fame!
Riuscivo a stare un po' in pace solo quando lo mollavo a scorrazzare avanti e indietro per il prato, o quando lanciavo la palla abbastanza lontano da dover attendere per un po' il suo ritorno, o quando c'erano altri cani, e allora Benny si dimenticava completamente di me e finalmente ruzzava e giocava con i suoi simili come un cane normale.
In una di quelle occasioni mi si avvicinò una ragazza, padrona di un bastardino.
– Sono come dei bambini, vero? – mi chiese, con un sorriso raggiante da "mammina di quadrupede domestico", e io annuii, le mani ficcate nelle tasche del cappotto.– Gli manca solo la parola – aggiunse lei.
– Magari! – mi venne da sbottare, esasperato dalla loquacità del mio coinquilino peloso. Lei mi guardò storto, e io mi salvai in corner spiegando: – Dico, magari avessero la parola, chissà che cosa ci direbbero!
Risi con lei, sebbene io, di cosa avrebbe parlato il mio cane, lo sapevo fin troppo bene.

giovedì 5 gennaio 2023

Audioracconto - La gattina bianca


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Foto di Em Hopper da Pexels



La gattina bianca
(racconto breve adatto ai bambini e perché no, anche agli adulti!)

Benvenuto nel mio nuovissimo spazio audioracconti!
Questo è il mio primo "esperimento" di lettura di un racconto scritto da me. Ogni commento o critica costruttiva è bene accetto, d'altra parte sto ancora imparando. E se vuoi darmi fiducia e incoraggiarmi a pubblicare altre letture, iscriviti al canale YouTube https://www.youtube.com/@lavocedellapiuma, metti un mi piace al racconto e condividilo con un amante dei gatti! O della lettura, come preferisci.


Tratto dal blog: La Piuma Tramante (http://lapiumatramante.blogspot.com/)
Il testo del racconto è leggibile qui: http://lapiumatramante.blogspot.com/2017/04/la-gattina-bianca.html

Testo, lettura ed editing video di: La Piuma Tramante (Elisa Zaccaria)

Musica: Pooka, di Kevin MacLeod (http://incompetech.com) dal canale Audio Library (https://www.youtube.com/watch?v=4iBkof-Bx4c) sotto licenza Creative Commons (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/)

Immagine di: Em Hopper, da Pexel (https://www.pexels.com/it-it/foto/gatto-bianco-a-pelo-lungo-1084425/) distribuita ad uso gratuito (https://www.pexels.com/it-IT/license/)

lunedì 2 gennaio 2023

Volo fantastico


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Con le braccia appoggiate al bordo morbido della cesta guardai giù, verso le onde di un oceano infinito in cui baluginava il riflesso della nostra mongolfiera risplendente di luci. Pareva di fluttuare sotto a un albero di Natale. Mi venne da ridere.
Potevo quasi dimenticare che eravamo in due in quella stretta cesta scricchiolante e lasciarmi cullare dal dondolio della cesta, se non si fossero ripetute con fin troppa frequenza le vampate di fiamma dal bruciatore, che mi assordavano con il loro soffio di drago. Sospirai quando il mio compagno di viaggio mi richiamò al suo fianco affinché lo aiutassi.
– Non capisco proprio perché dobbiamo farlo – gli rivelai, mentre azionavo il bruciatore come lui mi aveva insegnato, trasalendo ogni volta che la vampata esplodeva rovente e vicinissima a me. E prima che lui ribadisse l'ovvio, "per mantenere l'altitudine costante", precisai meglio che cosa intendevo: – Insomma, non possiamo limitarci a pensare che questa cosa proceda dritta per la sua strada... e accelerare un po' il passo, già che ci siamo?
Avrei voluto godermi quel volo fantastico in tutta la sua meraviglia, ma questo era già il nostro quarto o quinto tentativo e il mio stato d'animo ormai oscillava, come la cesta, tra l'eccitazione di una nuova avventura e la frustrazione per non riuscire mai a raggiungere il nostro obiettivo.
Il mio amico dagli occhi arcobaleno smise di scrutare l'orizzonte e mi spiegò: – Ogni universo bolla ha le sue regole, e se non sei stato tu a crearlo, non le puoi cambiare.
– Capito – risposi laconica, tirando un'altra volta, a lungo, la leva del bruciatore.
Avevamo già provato a farlo tornare a casa partendo da un universo bolla di nostra creazione, uno temporaneo, e finché era durato era stata un'esperienza incredibile. Avevo fatto ogni genere di cose impossibili da sveglia, volare e camminare sull'acqua e creare un intero edificio soltanto con la mia immaginazione, e per quello dover sottostare almeno in parte alle leggi della fisica mi sembrava un inconveniente terribilmente sgradevole in un sogno.
– Non siamo molto lontani dalla porta – mi disse lui, tornando al suo posto e liberandomi dall'incombenza di dover controllare quell'infernale fiammata.
Mi rimisi con gioia sul lato frontale della cesta, e guardando giù, verso il riflesso della nostra scintillante mongolfiera tra le onde, provai a immaginare che bizzarra visione saremmo stati al di sopra di un vero oceano, nel cielo notturno della realtà. Ci avrebbero visto da miglia di distanza con quello scintillio di luci arcobaleno, assurde come i suoi occhi. Qualcuno forse avrebbe pensato a una trovata pubblicitaria, qualcun altro lo avrebbe accomunato a un ufo, e forse non sarebbe andato tanto lontano dal vero, visto che uno dei suoi occupanti veniva da un mondo diverso. Non un altro pianeta, no, ma una terra del sogno.
E quella mongolfiera leggiadra e luminosa come una stella era proprio il mezzo di trasporto più adatto a lui.
Ma, in un certo senso, era anche adatto al mondo che stavamo attraversando. Me ne accorsi quando vidi per la prima volta tracce di vita in quel buio oceano, scintillii e guizzi multicolori di banchi di pesciolini che salivano a dare un'occhiata alle nostre luci, e poi una balena dalle strisce fluorescenti sulla schiena, e quando soffiò uno spruzzo in aria con un rumore tanto simile alle vampe del nostro bruciatore, mi ritrassi ridendo.
– Chi ha creato tutto questo? – gli chiesi, ma lui si strinse nelle spalle.
– Chiunque sia, prega che non si accorga che ci sono intrusi nel suo mondo – mi consigliò lui in tono cupo. – O che non gli importi che siamo qui, perché... suo il mondo, sue le regole. Qui dentro, lui o lei è come un dio.
Rabbrividii, mentre uno stormo di gabbiani dalle ali sfavillanti di mille puntini luminosi calava in picchiata sui pesciolini in superficie.
– Ma... siamo pur sempre in un sogno, no? – chiesi, battendo più volte le palpebre un po' per liberarmi dai timori suscitati dalle sue parole, un po' per proteggere gli occhi da tutto quel baluginio che si era moltiplicato nel buio. – I nostri corpi sono altrove, almeno per adesso, no?
Mi riferivo al fatto che se lui intendeva tornare definitivamente nell'universo bolla a cui apparteneva, io ero e rimanevo al sicuro.
Ma lui mi rammentò: – Al circo del Ghiottone paghi l'ingresso con un tuo ricordo. Ti sorprenderebbe la quantità di cose che si possono fare con la mente di una persona addormentata.
Fu allora che mi venne in mente una domanda che non mi ero mai posta.
– Chi ha creato l'universo bolla in cui vivi?
Non ci fu il tempo di sentire la sua risposta, perché un vento forte iniziò a soffiare all'improvviso, afferrando in un turbine la nostra piccola mongolfiera e sbatacchiandoci in giro per quel cielo notturno.
Mi aggrappai alle corde che legavano il pallone alla cesta e urlai.
L'urlo mi risuonò nelle orecchie al risveglio. Fissai il corpo addormentato del mio compagno di sogni.
Sospirai. Era ancora qui, nel mio letto.
Un altro tentativo a vuoto.