lunedì 11 aprile 2022

La donna nello specchio


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di cottonbro da Pexels


– No, no, non ero io, ti dico che era un'altra donna, nello specchio c'era un'altra donna!
L'archeologa Linnea di Timing si lasciò cadere sulla sedia di fronte all'ottuso burocrate. Lui la fissò con sguardo bovino, senza dire nulla. Sbirciò brevemente i reperti che Linnea gli aveva portato, quindi scosse la testa.
– Senta, senza una richiesta diretta del consiglio, io non posso fare nulla. Non decido io cosa mettere in un museo e cosa invece far studiare ai maghi.
– Allora vorrà dire che mi rivolgerò al consiglio – disse Linnea, sporgendosi in avanti. La sua voleva essere una minaccia, ma non suonò affatto tale.
– Bene – replicò infatti il burocrate, per nulla intimorito. Scribacchiò qualcosa sul registro, porse il cesto al suo assistente e annunciò: – Numero sei specchi esagonali opachi, destinazione museo delle civiltà antiche, area restauro. Il prossimo!
Quella stagione, per gli archeologi della città oasi di Timing, era stata eccezionale. Le tempeste di vento che avevano imperversato nei mesi precedenti avevano spazzato via la sabbia dalla piana a ovest, rivelando l'ingresso di una caverna sotterranea che era rimasta sepolta per chissà quanti anni. Secoli, probabilmente, o forse millenni. Dopo aver liberato l'antro che fungeva da ingresso da una quantità imprecisata di sabbia, gli archeologi si erano trovati di fronte a un'enorme sorpresa: le rovine di un'antica città incastonate tra pareti di pietra. Alti colonnati, mura sgretolate, torri mezzo in frantumi, statue, e arcate incomplete di ponti che sormontavano quelli che un tempo dovevano essere stati canali, residuo di un'epoca in cui quelle terre erano floride e fertili. La scoperta di una vita.
Un paio tra gli archeologi più anziani avevano fatto un mezzo collasso dalla gioia.
Linnea era solo uno dei tanti scavasabbia, il grado più infimo della scala gerarchica. Come gli altri, il suo compito era di setacciare la sabbia che ancora restava a coprire il selciato e i pavimenti di mosaico, alla ricerca di frammenti di vasellame che poi i restauratori avrebbero rimesso insieme come tessere di un puzzle, o di rari e più fortunati ritrovamenti come un amuleto, un pettinino, una punta di freccia. Mentre faceva il suo lavoro a testa china, Linnea invidiava profondamente i disegnatori, che sui loro quaderni tracciavano schizzi di ogni angolo delle rovine, e perfino i decifratori, che cercavano di capire il senso di ogni minuscola traccia che somigliasse a una forma di scrittura sui bassorilievi, o in mancanza, di attribuire un significato alle figure.
E fu allora, in preda al malumore più cupo, che Linnea fece la scoperta. Una forma geometrica, piatta e poco più grande della sua mano, emerse dalla sabbia che scivolava tra le maglie del setaccio con un lieve fruscio. Linnea fece per chiamare il suo supervisore, poi serrò le labbra e sollevò tra le dita l'esagono opaco. In un primo momento le parve una piastrella. D'istinto infilò l'altra mano nella sabbia e a tentoni rinvenne e liberò altre cinque forme identiche. Poi nient'altro, in qualunque direzione provasse a setacciare la sabbia con le dita.
Linnea studiò il primo esagono che le era capitato di trovare, davanti e dietro. Era liscio, color sabbia. Nessun disegno, nessun decoro in rilievo, nulla che potesse definirlo come un pezzo pregiato. E poi era successo.
Tra il sibilo del vento che soffiava fuori dalla caverna e l'acciottolio di un crollo accidentale causato da uno studioso troppo zelante, alle orecchie di Linnea giunse una melodia flebile, esotica. Appena qualche nota di flauto proveniente da chissà dove. Nemmeno si era accorta, lì per lì, che i cinque esagoni che non teneva in mano le stavano fluttuando attorno.
Linnea era attirata solo da quello che reggeva, che al pari degli altri si era fatto traslucido, riflettente come uno specchio. Come aveva detto al burocrate, quella che vide però non fu la sua immagine riflessa, anche se quella donna le assomigliava molto. Aveva i capelli più lunghi, e un'espressione determinata sul volto stanco, e una stria rossa le segnava la guancia sinistra... quella che in uno specchio, Linnea avrebbe identificato come sinistra. La donna mosse le labbra, in fretta, come se la disperazione la spingesse a trasmettere un messaggio, ma nessuna voce attraversò la superficie dello specchio. Poi, com'era comparsa, l'immagine svanì, gli specchi tornarono opachi, e quelli che fluttuavano piombarono sulla sabbia.
Per quel motivo, proprio perché aveva visto il miracolo avvenire con i suoi occhi, Linnea era certa di aver trovato un artefatto magico, un reperto davvero prezioso; uno di quelli che la città di Timing ogni anno metteva in palio per la sfida tra i maghi. Loro avrebbero cercato di capire che cosa facevano e come funzionavano simili oggetti, e l'archeologo che li aveva trovati avrebbe ricevuto grande gloria, grande onore, e di sicuro anche una promozione. Ma il burocrate non le aveva creduto.
Da quando li aveva consegnati, Linnea pensò giorno e notte agli specchi magici. Ne era ossessionata. Non tanto perché erano la sua occasione di smettere di essere una scavasabbia, quanto per il mistero della donna che non era lei, che Linnea desiderava risolvere più di ogni altra cosa. Chi era... da dove veniva, o forse, da quando veniva... che cosa aveva cercato di dirle?
Come aveva annunciato al burocrate, Linnea si rivolse al consiglio, spiegò che cosa era accaduto, enunciò le sue ipotesi di fronte a loro; ma dato che nessuno, lei compresa, riuscì a replicare il fenomeno, tutto ciò che ottenne fu di spostare i suoi adorati reperti dalla categoria di "nessun segno particolare" a quella di "possibile oggetto da sfida - necessarie ulteriori indagini".
Il che rese tutto più difficile quando Linnea decise che non c'era altro modo di risolvere la questione se non con un furto.
La sorveglianza era molto più stretta sugli oggetti candidati a essere promossi ad artefatti, rispetto al banale vasellame. Perciò Linnea si ritrovò braccata, a correre sulla distesa di sabbia illuminata dal fulgore di stelle notturne e di una mezzaluna bassa sull'orizzonte in direzione dell'ingresso alla caverna di cui ormai conosceva ogni anfratto e ogni angolo. Avrebbe potuto nascondersi, sfuggire alle guardie che la inseguivano, e che a giudicare dal bruciore che arse improvviso sulla sua guancia destra, le stavano sparando con dardi roventi dalle cerbottane. Ma nascondersi non era quello che Linnea voleva.
Secondo una delle sue teorie, gli specchi funzionavano solo nella città antica, e per maggiore sicurezza Linnea aveva in programma di usarli proprio nel punto in cui li aveva trovati. Quando lo raggiunse si inginocchiò sulla sabbia, accese una lampada e dispose i sei esagoni attorno a sé. Ne prese uno con le dita. Lo sollevò.
All'inizio non accadde nulla. Poi, alle sue orecchie, risuonò la stessa soave melodia che aveva già udito, e i cinque specchi fluttuarono in aria.
Linnea scrutò al loro interno e vide una donna, ma non era la stessa che aveva già visto. Le somigliava, ma aveva i capelli più corti, l'aspetto fresco e uno stupore quasi comico sul volto.
Le guardie si stavano avvicinando, sentiva le loro grida tra le colonne e le mura diroccate dell'antica città. Gridavano di sparare per uccidere, la punizione prescritta per un ladro di reperti.
La donna nello specchio non era un'altra donna, era lei, in un altro tempo. Linnea capì di avere una sola possibilità di uscire viva da quel pasticcio.
– Non parlare con il consiglio! – urlò la vecchia Linnea alla giovane. – Non rubare gli specchi! Non farlo! Morirai!
Un proiettile rovente le trapassò il cuore. Gli specchi divennero opachi e caddero a terra prima che il suo corpo rovinasse sulla sabbia.
In un altro tempo, l'ossessione per il mistero degli specchi magici che le avevano mostrato una donna che non era lei, con un messaggio che non aveva compreso, si insinuò come un tarlo nella mente dell'archeologa Linnea.

Nessun commento:

Posta un commento