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Acqua. Tanta acqua. Un'intera, immensa, pozzanghera d'acqua, racchiusa tra pinnacoli di roccia color sabbia.
E non c'importava che quell'acqua fosse tiepida, torbida, o leccata da chissà quante lingue animali. Per le nostre gole assetate la sola vista di quell'acqua era più inebriante di un buon calice di vino. Eppure ancora non osavamo avvicinarci: nascosti dietro un grosso masso, il calore del sole del deserto sulle nostre schiene, osservavamo l'invitante oasi che ci attendeva, e le ombre sinuose che la sorvolavano, vagando da un pinnacolo all'altro. Di tanto in tanto una di quelle creature planava sull'acqua, rivelando un corpo da serpente, grandi ali dalle penne nere, e una testa che sembrava fatta di ossa sbiancate, incassata in un cappuccio da cobra. Inquietante era dire poco. Anche perché, tra l'acqua e il nostro nascondiglio, la sabbia era costellata di scheletri spolpati.
Mi ritirai al riparo del masso. – Qui ci vuole un piano – mormorai a Robert. – Che cosa fanno di solito i protagonisti in queste situazioni?
Lui mi fissò meditabondo, ignorando la nostra guida, un ometto tremante in mezzo a noi che continuava a ripetere: – Povero me, povero me, il luogo di cova dei mortali Cobra-Teschio volanti, chi lo vede non ne esce vivo, mai successo, povero me!
– Dunque... ancora non abbiamo trovato un potente oggetto misterioso o un'arma magica – mi ricordò Robert. – Un attacco frontale è fuori discussione.
– Potrei sfidarli a una gara di indovinelli – gli proposi, sbirciando un gruppetto di dromedari che si avvicinava per abbeverarsi. – Se mi va bene, magari ci guadagno pure un anello che rende invisibili.
Robert colse subito l'occasione per imitare il fastidioso ronzio che nei vecchi quiz a premi accompagnava le risposte errate. – Baaaaaazzz! Storia sbagliata, mi dispiace.
Sospirai, e mi accorsi in quel momento che non sentivo più quegli strani versi mugghianti che facevano i camelidi appena passati. Mi sporsi, e non li vidi. – Ehi, dove sono finiti i dromedari?
– Credo che siano... proprio lì – rispose Robert, accennando a un gruppetto di scheletri sulla sponda dell'oasi. Riconobbi che fino a poco prima quelli non c'erano.
– I mortali Cobra-Teschio volanti... sono stati i mortali Cobra-Teschio volanti! – sbottò la nostra guida in preda al panico.
– Sì, ho capito, funzione informativa svolta – replicai esasperata. Fu solo allora che mi accorsi di un'anomalia che prima non avevo notato, o più probabilmente, nel libro in cui eravamo finiti era stata sapientemente omessa dalla descrizione fino a che non era diventata rilevante. L'oasi era popolata di numerosi pappagalli di grandi dimensioni, alti quasi quanto un uomo, sotto il cui peso le palme si curvavano dolcemente sull'acqua. I pennuti variopinti e ciarlieri si sistemavano le penne e si pulivano le zampe con i becchi, incuranti dei mortali Cobra-Teschio volanti che, dal canto loro, non parevano degnarsi di includerli nella dieta. Io e Robert ci guardammo ed esclamammo all'unisono – Travestimento?
Ci chinammo e sollevammo entrambi da terra una lunga piuma, io rossa e lui verde, che fissammo incantati. Poi sulla sabbia comparve la scritta "Qualche tempo dopo...", e tutti e tre, guida compresa, ci trovammo impiumati da capo a piedi, e con un rudimentale finto becco di legno a coprirci la bocca.
– Sono lieta che questo libro salti le parti noiose – ammisi, rimirando il mio quasi perfetto travestimento da pappagallo. – Non avrei saputo come farlo, altrimenti.
– Non perdiamo tempo. Andiamo, riempiamo le ghirbe, e ce la filiamo – Robert mi precedette fuori dal nascondiglio, sfuggendo alle grinfie della nostra guida.
– No, no, no, non è un buon piano, è un pessimo piano, povero me, questi sono pazzi, ci rimetterò le penne... – continuò a blaterare la guida. Lo ignorai e seguii Robert, quatti quatti verso l'acqua. Le ombre inquietanti e sinuose dei serpenti alati continuavano a planare al centro della pozza, ma nessuna di quelle creature parve intenzionata a piombare su di noi per spolparci vivi. In compenso uno dei pappagalli, un'enorme Ara di colore blu, si alzò in volo dalla sua palma e atterrò tra noi e l'oasi.
Ci fissò con un grande occhio pallido, inclinando la testa da un lato e dall'altro; poi aprì il becco e pronunciò, in tono rauco e gracchiante, appunto, da pappagallo: – Mi stai sfidando?
Io ero rattrappita dietro Robert, in fondo, si trattava pur sempre di un pappagallo grande quanto un uomo e con il becco proporzionato alle sue dimensioni. – Digli qualcosa – bisbigliai all'uomo che fronteggiava il pennuto.
– Eeeeemh... no? – mormorò Robert, in falsetto.
A quel punto, da dietro il masso spuntò la testa e un braccio tremante della nostra guida, che indicando il pappagallo annunciò: – Quello... quello è un mortale Cobra-Teschio volante! Fuggite, sciocchi!
Fu in questo modo che scoprimmo che gli inquietanti serpenti alati non erano altro che innocue creaturine erbivore, e che a disseminare la sabbia di scheletri erano stati i potenti becchi di quella specie di pappagalli giganti.
E la cosa peggiore era che, essendo pappagalli, gli piaceva ripetere le parole e i versi altrui, ma non amavano affatto chi tentava di imitare loro.
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