lunedì 25 settembre 2023

Ritrovare sé stessi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di imustbedead da Pexels


Tirai un sospiro di sollievo quando in fondo alla strada sterrata che percorrevo già da un po' apparve la sagoma distante di un faro. Allora c'era davvero qualcosa alle coordinate che lui mi aveva dato. Meno male: quando Google Maps non mi era stato d'aiuto nello scoprire dove esattamente mi aveva invitato, a parte sapere che era un luogo sperduto sulla costa, avevo temuto che mi sarei trovato da solo nel bel mezzo del nulla, o che mi avrebbe trascinato in un magazzino abbandonato per darmi una botta in testa e rubarmi l'auto, non che valga granché la mia vecchia Yaris.
Lo ammetto: ero quasi stato sul punto di dargli buca.
Ma lui era continuamente nei miei pensieri come non era stato nessuno prima di allora, né uomo né donna, e aveva saputo cose di me che nessun altro sapeva, e la promessa che mi aveva fatto al nostro primo incontro continuava ad assillarmi.
Dovevo risolvere quel mistero una volta per tutte. Andare fino in fondo.
Questo mi ripetei una volta parcheggiata l'auto nello spiazzo antistante al faro, per darmi coraggio, perché dal finestrino lo vidi sulla soglia della porta aperta, sopra tre scalini, ad attendermi.
Indossava scarpe da ginnastica, jeans e una felpa nera, semplice, eppure addosso a lui sembravano un completo elegante. C'era qualcosa nel suo portamento, o forse nei suoi occhi neri, che mi metteva in soggezione.
Be', ero arrivato fin lì, tanto valeva che entrassi, anche perché il cielo si stava addensando di nubi grigie e il fragore delle onde contro la scogliera preannunciava il temporale imminente. Quindi presi il cellulare che mi aveva fatto da navigatore e smontai dall'auto, e fui subito investito dalla brezza salmastra, un po' troppo fresca per i miei gusti. Tirai su la zip della giacca, perché sotto avevo una t-shirt leggera dalle maniche corte, in previsione della calda giornata estiva che avrei dovuto trovare qui. Vatti a fidare del meteo.
Nel chiudere la portiera notai che non c'era una seconda auto, né una moto o una bicicletta. Com'era arrivato... possibile che lui vivesse lì?
– Vieni – mi disse soltanto, quando raggiunsi i tre scalini che conducevano all'ingresso del faro.
Nessun saluto, nessun convenevole. Anche in quello, era diverso da chiunque altro.
Attraversai la soglia e lo seguii all'interno del faro, senza sapere che quello era l'inizio della mia metamorfosi.
Anche se, in effetti, non è del tutto corretto dire che mi trasformai. Io non lo sapevo, ma ero sempre stato così. Come mi disse lui più tardi, quando misi le squame che erano la mia seconda pelle: io non stavo cambiando, stavo ritrovando me stesso. Ma non corriamo troppo.
La stanza al pian terreno era allo stesso tempo sala da pranzo, cucina e salotto. Era ammobiliata in maniera semplice, tavolo e sedie di legno, un divano retrò, tutti pezzi che si sarebbero potuti trovare in un mercatino dell'usato. In un angolo, una stufa riscaldava l'ambiente, rendendolo estremamente confortevole. Mi tolsi la giacca e la ripiegai sullo schienale di una sedia, per poi avviarmi da quella parte.
Alle mie spalle, il mio ospite si lasciò sfuggire una breve risata sommessa.
– Ho già messo a scaldare l'acqua per il tè. Ma prima, c'è molto di cui dobbiamo parlare. E io ho una promessa da mantenere.
Mi bloccai, rinunciando a raggiungere la fonte di calore. La promessa che mi aveva fatto, di spiegarmi perché sapeva così tanto su di me, di rivelarmi chi ero, e allo stesso tempo, chi era lui, era una prospettiva molto più allettante che crogiolarmi al caldo, mentre fuori soffiava il vento e le onde si abbattevano rabbiose contro gli scogli alla base del faro.
Mi sedetti al tavolo, e lui fece altrettanto. Eravamo l'uno di fronte all'altro, come al tavolino di quel bar, quando aveva indovinato tre cose di me che quasi nessuno sapeva, e poi mi aveva fatto quella promessa.
– Non so come dirtelo in modo che tu mi creda, – esordì lui, cavando di tasca un piccolo astuccio per lenti a contatto e posandolo sulla tavola. – Perciò prima togliamo quelle lenti e vediamo il colore dei tuoi veri occhi.
– Cosa? No, mai portato lenti a contatto, io.
Avevo una vista perfetta. Non avevo motivo di usarle.
Lui scosse la testa, poi ribadì, con l'incrollabile sicurezza e lo stesso sguardo profondo di quando aveva indovinato tre cose su di me che non avrebbe dovuto sapere. – Le hai da sempre, invece.
Sospirò, si alzò e aggirò il tavolo. – Facciamo così. Lasciami provare a toglierle, così vedremo chi è in errore.
Riluttante, piegai all'indietro la testa e lasciai che lui trafficasse con le dita attorno ai miei occhi per qualche istante, tenendomi aperta la palpebra prima di uno, poi dell'altro.
– Fatto – disse, e mi indicò l'astuccio. Era vuoto quando lo aveva aperto, ma ora in ogni scomparto era custodita una lente colorata, dello stesso nocciola-bruno dei miei occhi. Ma ancora non ero disposto a credergli, poteva averle tirate fuori da chissà dove con un trucco da prestigiatore.
– Lo specchio è da quella parte – mi disse lui, indicando la zona del salotto. Aveva detto di non poter leggere la mia mente, ma sembrava che lo facesse in continuazione.
Mi affrettai a raggiungere lo specchio, ansioso di sapere, di vedere. Quasi non mi riconobbi quando vidi nel mio riflesso quello sguardo estraneo, e mi prese un colpo e imprecai. Poi mi avvicinai lentamente, protendendo in avanti la testa, e spalancai di più le palpebre con le dita. Pupille verticali, da gatto o da serpente, e l'iride di una sfumatura metallica, a metà tra il bruno e il rossiccio.
Sembrava che lui mi avesse messo delle lenti colorate, invece di toglierle. Ma non avvertivo nessun corpo estraneo negli occhi, nessun fastidio.
Non deponeva a mio favore che non lo avessi sentito nemmeno prima, se era vero quello che lui affermava, che quelle lenti le avevo sempre avute.
Dopo avermi lasciato tutto il tempo di studiare i miei nuovi occhi, lui mi si affiancò, mi cinse la schiena con un braccio e posò l'altra mano sulla mia spalla che sfiorava la sua. Guardando il mio riflesso nello specchio, inclinò la testa e mormorò suadente: – Earanphies. Magnifico.
– C-cosa? – riuscii soltanto a balbettare.
Non avevo mai definito nessuno "sexy". Nessuno, prima di lui, e quella vicinanza mi provocava reazioni difficili da ignorare. Come se lo avesse capito, lui abbassò le braccia e si scostò da me, voltandosi a fronteggiarmi.
– Earanphies. Il rame dei tuoi occhi – mi spiegò lui. – Il colore varia a seconda del tuo Shanekth, così come i tuoi doni, ma di quelli parleremo dopo. I miei occhi invece sono nero Plutikarn. Una fortuna: la forma delle mie pupille nemmeno si nota, così non devo nasconderle con le lenti.
Mi sforzai di vedere se le sue pupille fossero tonde o un ovale molto stretto e verticale com'erano le mie, ma aveva ragione, era difficile scorgerle in tutto quel nero, anche se per un istante mi parve di distinguerle. – Ooook. E il motivo per cui abbiamo questi occhi è...?
– Geni alieni – ribatté lui, inespressivo.
Era serio. Totalmente e assolutamente serio.
– Per almeno un quarto, se non di più – proseguì lui, di fronte al mio silenzio incredulo.
– Cioè, vuoi dire che ho avuto una nonna o un nonno che erano... ET telefono casa? – ribattei, mimando con un dito il gesto dell'alieno del film.
Gli sarebbe stato facile prendermi in giro. Lui sapeva che venivo da una lunga sfilza di affidi e case famiglia, e che dunque non avevo la più pallida idea della mia ascendenza. Era una delle cose che aveva indovinato.
– Telefono casa? – ripeté lui, perplesso. – Vorrei tanto capire che cosa ti passa per la mente, certe volte, e questo ci porta al secondo punto, oltre che al motivo per cui ti ho chiesto di vederci qui, lontano da tutti. – Allargò una mano in un gesto verso il tavolo, e io accolsi il suo invito a sedermi, anche se di tanto in tanto tornavo a guardare lo specchio dall'altro lato della stanza.
Lui restò in silenzio mentre serviva il tè, e solo quando fummo di nuovo uno di fronte all'altro con il piacevole calore della tazza tra le dita, riprese a parlare. – L'altra volta ti ho detto che non posso leggerti la mente. È vero, ma solo perché ti sei costruito una barriera impenetrabile. È normale, quando un telepate cresce in mezzo agli umani...
– Aspetta, hai detto telepate? – lo interruppi. – Alieno, e pure telepate?
– Esatto.
Contemplai in silenzio quella seconda rivelazione, avvolto dal vapore aromatico del tè su cui ero chino. Non me n'ero accorto, ma fuori, chissà da quanto, aveva iniziato a piovere. In lontananza si udiva il brontolio cupo dei tuoni.
Lui mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno, e solo quando alzai la testa, fissandolo con quello che probabilmente era uno sguardo smarrito, riprese a parlare.
– Non te ne sei accorto perché ti sei chiuso in una fortezza. Una barriera attraverso cui nulla entra e nulla esce. Per non impazzire, hai dovuto difenderti dai pensieri della gente, e lo hai fatto in maniera molto efficace. – Lui mi rivolse un sorriso. – È così che mi sono accorto che non sei del tutto umano.
– Quelli del tutto umani non possono farsi una barriera? – gli chiesi e lo incalzai con un'altra domanda: – Tu senti tutto quello che pensano?
– Volendo, posso – rispose, scegliendo per prima di soddisfare la mia seconda curiosità. Assaporò un sorso di tè, quindi aggiunse: – Sì e no. Quelli del tutto umani possono essere istruiti su come proteggere la loro mente, ma le loro difese non saranno mai paragonabili alla tua. Tuttavia, se vuoi sviluppare il tuo potenziale da telepate, devo prima spezzare questa barriera, e poi insegnarti a difenderti dalle intrusioni in modo più flessibile.
Da come lo descriveva, non ero certo di volerlo fare. Ma c'era almeno un vantaggio a seguire quel piano. – Senza la barriera, sentirò quello che pensi tu?
– Se te lo permetterò, sì.
Trangugiai il mio tè tutto d'un fiato e mi protesi sul tavolo.
– D'accordo, facciamolo.
Volevo sapere se anche lui sentiva quello che sentivo io. Quell'assurdo desiderio di restargli accanto, più vicino, di scaldarmi al suo calore come di fronte al cuore di fuoco della stufa. Dovevo sapere se ricambiava quell'ardore che mi bruciava fin dal nostro primo sguardo scambiato da lontano, separati dalla lunga fila della comitiva in visita al canyon.
Un colpo di fulmine, mi venne in mente nell'udire lo scoppio di un tuono all'esterno. Non ci avevo mai creduto, ai colpi di fulmine. A me, almeno, non era mai capitato, nemmeno da adolescente.
Lui si limitò a fissarmi con quegli occhi scuri, profondi e seri, e non capii che lo stava già facendo. Non capii cosa stesse facendo, finché non avvertii dapprima una leggera pressione sulla fronte e sulle tempie, che si trasformò in breve tempo in un cerchio alla testa, e mentre mi massaggiavo la testa nel tentativo di scacciare l'imminente emicrania e stavo quasi per chiedergli di smetterla, il dolore cessò all'improvviso.
Non avvertii la sensazione di qualcosa che si spezza, come mi ero aspettato dalle sue parole, sentii solo la sua voce, ma le sue labbra non si muovevano.
Tutto bene? Puoi sentirmi? Sto cercando di trattenere i miei pensieri di fondo, per non disturbarti.
Rimasi a bocca aperta, incapace di parlare, mentre la mia mente correva a mille. Pensieri sconnessi come è tutto vero, sta succedendo, ma allora sono sul serio un alieno, quasi, un quarto, giusto, assurdo, no, dev'essere lui quello strano, non c'è altra spiegazione, è per forza lui l'alieno e non io...
La sua risata sommessa deviò bruscamente il corso dei miei pensieri. Cazzo, lui può sentirmi, sente quello che penso, anche adesso, tu... tu senti quello che penso?
E poi, più flebile, più vaga, palpitò un'altra idea, come un'eco: ...quello che provo?
Non sono un Earanphies, ma sì, non ne fai mistero, ribatté il suo pensiero. Tranquillo, la cosa è reciproca. Dopotutto, sei il mio fuoco gemello.
Quello che mi spiegò poi mi diede una sicurezza e una tranquillità che non avevo mai conosciuto. Alla fine non è stato scoprire di avere occhi da rettile, o squame, o una coda - sì, ho anche quella - la vera trasformazione. È stato scoprire che anche io ero in grado di amare, stavo solo aspettando lui.
Chiusi in quel faro, in una notte di tempesta, ritrovammo entrambi noi stessi in un altro.

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