giovedì 13 gennaio 2022

L'infanzia di Aembryl


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Misha Voguel da Pexels


Sua madre avrebbe preferito che Aembryl fosse esattamente come tutti gli altri ragazzi della sua età, e invece no: Aembryl era diversa.
Non era bastato portarla da bambina quasi ogni sera alla taverna, ad ascoltare i racconti degli avventurieri di professione, le epiche gesta di tesori ritrovati e mostri sconfitti e principi e principesse salvati che mandavano in visibilio ogni bimbetto del villaggio, tanto da far loro esclamare, già prima del quarto anno di vita: – Mamma, io da grande sarò come loro!
Quello avrebbe reso orgogliosa la madre di Aembryl. Quello sarebbe stato normale.
Poi, magari, non sarebbe diventata un'avventuriera di professione. E pure quello era normale: la madre di Aembryl lavorava come terapeuta al centro di riabilitazione per orchi, e suo padre era un inventore di attrezzature speciali per avventure particolarmente complicate, o ASPAPC, come le chiamava lui in breve, una sigla dal suono piuttosto grezzo che sua moglie non mancava mai di rammentargli quanto ricordasse una parola scurrile in lingua orchesca. Ma lasciando da parte le questioni linguistiche, entrambi avevano più volte raccontato ad Aembryl di come si fossero conosciuti durante la loro prima e unica avventura, per la quale erano partiti con due compagnie diverse, mandate per errore da due villaggi confinanti ad affrontare lo stesso labirinto. Inutile dire che c'era stata un po' di rivalità all'inizio, ma alla fine le due compagnie si erano unite e avevano collaborato, e Aembryl non era stata l'unica figlia di quella collaborazione.
Tutti i ragazzi partivano almeno per una singola avventura. Era un rito di passaggio indispensabile per formare il carattere dei giovani, era una tradizione irrinunciabile, ed era un divertimento a detta di tutti coloro che erano tornati. Da quando i Decisori si occupavano di smistare gli incarichi, inoltre, la percentuale di ferite gravi era ridotta al minimo, e la percentuale di caduti praticamente azzerata. Erano i professionisti quelli che affrontavano i rischi reali, mentre per formare i ragazzi era sufficiente l'impressione del rischio. Perciò la madre di Aembryl non aveva alcun motivo di temere il giorno in cui sua figlia sarebbe partita per l'avventura della sua vita. Se solo Aembryl avesse dimostrato altrettanto entusiasmo.
Aembryl aveva frequentato la Taverna degli Eroi fin da bambina. Prima in compagnia di sua madre, poi con i coetanei e con gli altri ragazzi del villaggio. Come tutti loro, la sua infanzia era trascorsa tra racconti epici, all'ombra di nerboruti guerrieri e delle procaci e scaltre avventuriere che li accompagnavano. Come i suoi compagni, Aembryl aveva ascoltato, osservato, domandato e assorbito ogni informazione. Ma mentre tutti gli altri, bambini o ragazzi di tutte le età, si identificavano in quegli eroi e pianificavano con ampio anticipo la propria avventura e chiedevano col fine di apprendere qualcosa di utile dall'esperienza altrui, Aembryl sospirava fissando la locandiera e le cameriere che servivano vivande e bevande ai suddetti eroi.
Lei desiderava con tutta sé stessa diventare come loro. Non voleva partire, non voleva girare il mondo e combattere i mostri come pareva dovesse essere normale per tutti. E se non aveva alcun desiderio di farlo, non era per paura, come sostenevano i più maligni tra i ragazzi che avevano scoperto questa sua inclinazione.
Quasi nessuno lo aveva notato, ma lei vedeva come la locandiera e le cameriere parlassero con tutti, dal novellino all'eroe affermato e rinomato, quello che attirava sempre un nutrito pubblico di ragazzi e adulti ad ascoltarlo. Gente come quella poteva parlare con enfasi e fervore persino della cattura di una talpa nell'orto dietro casa, e in ogni caso tutti pendevano dalle loro labbra, estasiati come se si fosse trattato della più ardua delle imprese. Magari non avevano nemmeno fatto tutto ciò che raccontavano, ma a Aembryl non interessava. Quello che contava era che avevano il loro pubblico, le loro storie sarebbero state ricordate, tramandate, e divenute con il tempo leggende.
Invece il ragazzone schivo e intabarrato che sedeva sempre in un angolo del bancone, o la giovanetta bruttina che nascondeva l'arco sotto al mantello, quelli che venivano sopraffatti dal vociare ciarliero degli eroi più famosi non appena aprivano bocca, quelli che magari non sapevano raccontare le loro avventure in maniera così altisonante, ma le avevano vissute davvero, e avevano sul serio affrontato pericoli mortali e visto meraviglie inenarrabili... quelli interessavano ad Aembryl. Lei sapeva, perché lo aveva osservato accadere più e più volte, che solo la locandiera e le cameriere si davano la pena di domandare loro come stavano, e si attardavano ad ascoltare quello che avevano da dire. Per quello lei aspirava più di ogni altra cosa a una vita tranquilla tra le mura della taverna: per raccogliere le loro storie dimenticate.
Perché ogni eroe aveva diritto a un pubblico, e ogni storia meritava di essere tramandata.

Nessun commento:

Posta un commento