giovedì 11 agosto 2022

Sotto sotto


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Deepak Rawat da Pexels


Regola numero uno del trovarsi sotto il diluvio durante uno spaventoso temporale: se vedete un'enorme dimora fatiscente lungo il vostro cammino, per quanto sia allettante ripararsi all'asciutto e cercare aiuto dai proprietari, non entrate. Non avvicinatevi nemmeno. I castelli, le ville, le antiche residenze nobiliari dall'aspetto imponente e lugubre durante una tempesta sono ancora più pericolose del rifugiarsi sotto un albero. I fulmini, almeno, non cercano consapevolmente di spaventarti, né ti rincorrono o provano a mutilarti prima di ammazzarti.
Glielo avevo detto a Robert, ma lui no, non l'aveva voluto capire. E poi, aveva detto quello che non si dovrebbe mai dire in situazioni simili.
– È solo una casa, che vuoi che succeda?
"Che vuoi che succeda".
Certo, fossimo stati nella vita reale, pronunciare o meno quella frase non avrebbe fatto alcuna differenza, quel che doveva succedere sarebbe accaduto comunque. Ma eravamo dentro un cavolo di libro, e qui ogni parola contava, e poteva modificare nel bene e nel male la nostra condizione.
– Sto cercando di mantenerci in vita, ma sembra proprio che a te non importi – gli bisbigliai sottovoce, mentre ci intrufolavamo di soppiatto, dalla porta socchiusa e cigolante, nel salone principale. I nostri passi cauti rimbombarono fino al soffitto, nonostante l'occasionale crepitio di tuono e gli scrosci di pioggia che venivano dall'esterno. Se c'era qualcuno, vivo o morto, di sicuro doveva averci già sentito.
I nostri abiti e i nostri capelli madidi gocciolavano sul pavimento, lasciando una scia facilissima da seguire. Robert illuminò con la fiammella di una candela la penombra dell'atrio.
– Dov'è che l'hai trovata? – gli chiesi.
Strano. Non avevamo una candela con noi, non avevamo niente per accenderle, e anche se avessimo avuto l'una e l'altro, lo stoppino sarebbe stato così fradicio da rendere impossibile appiccarvi una fiammella.
Robert fece spallucce. – Non lo so. Me la sono ritrovata in mano così, all'improvviso. Ringrazia che almeno abbiamo un po' di luce.
– I miei alluci ringraziano – borbottai, restando dietro di lui. C'era un che di sospetto in quella casa, e non pensavo fosse solo la mia immaginazione. Nell'aria un suono costante, lieve, come un sospiro cupo, e talvolta un leggero squittio che mi metteva i brividi. Ma prima che potessi chiedere a Robert se lo sentiva anche lui, lui mi indicò le scalinate in fondo all'atrio.
– Sopra o sotto? – mi chiese.
– Preferirei restare su questo piano, se non ti dispiace.
Avevamo già abbastanza guai a orientarci quasi del tutto al buio senza dover prevedere, in caso di pericolo, una fuga precipitosa rotolando giù dalle scale, o la difficile ascesa di gradini scivolosi mentre il maniaco che sicuramente ci aspettava in cantina ci tallonava con una risata gracchiante.
Robert aprì una porta laterale e si affacciò su un corridoio. Si spostò per lasciarmi guardare.
– Visto? Non c'è nulla di spaventoso. È solo una casa abbandonata...
In quell'istante un lampo illuminò le finestre del corridoio, rivelando sulle pareti una fitta trama di scritte di varie dimensioni e grafie, che circondavano una serie di parole più grandi, tutte identiche, ripetute in più punti con diverse inclinazioni.
SOTTO.
Urlai e mi tirai indietro.
– ...di uno scrittore che ha finito la carta? – concluse Robert, imperturbabile.
Come faceva a restare così calmo in una situazione del genere proprio non lo capivo. C'erano tutti i segnali che eravamo capitati in una storia truculenta, di quelle che andavano sempre a finire male. Mi allungai per tirarlo indietro dalla porta e chiuderla, e fu allora che lo vidi. Proprio in fondo al corridoio.
Una figura luminosa, incappucciata. Un sinistro bagliore cremisi nell'oscurità. E il suo braccio che indicava verso il basso.
– No, grazie. Di qualunque cosa si tratti, passo! – sbottai e chiusi la porta. Mi rivolsi a Robert: – Restiamo il più vicino possibile all'ingresso, niente esplorazioni, niente...
Qualcosa nello sguardo di Robert mi indusse a pensare che le cose si stavano già mettendo male. Aveva la stessa espressione stordita di quando parlavamo di questioni importanti e dopo due minuti lui aveva già dimenticato tutto quello che gli avevo detto nel corso dell'ultima ora di conversazione. Era snervante, perché io ricordavo parola per parola quello che aveva detto lui. Entrambe le parole che lui di solito riusciva a pronunciare. Non era difficile.
– Ma... come...? – mormorò Robert, e seguendo il suo sguardo io mi girai e vidi quello che lui già stava osservando. Ovvero, che non ci trovavamo più nell'atrio, bensì in una stanza più piccola, arredata in modo antiquato, con una serie di candelabri che emanavano un lieve pallore azzurrognolo in fila su una lunga tavola apparecchiata, e più lontano un set di poltroncine e un divanetto su cui stava spaparanzata in modo scomposto la figura incappucciata, traslucida, che risplendeva rossastra nell'oscurità. Sulle pareti, sul soffitto e sul pavimento, la scrittura nervosa, talmente fitta da essere in più punti illeggibile, se non per la parola "sotto" scritta più in grande e ripetuta qui e là, baluginava di una sfumatura rosso sangue tra le ragnatele.
Dal basso venne una voce lugubre, che fu impossibile non attribuire alla figura incappucciata che si girò a fissarci con orbite vuote. – Miei ospiti. Sotto sotto, voi volete restare...
Alle nostre spalle, una porta cigolò e si chiuse con un tonfo.

Nessun commento:

Posta un commento