lunedì 22 agosto 2022

Una sgradevole verità


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Anna Shvets da Pexels


Non la conoscevo. Probabilmente apparteneva a un altro battaglione. Ma questo non m'impediva di provare pietà per quello che le stavano facendo.
Anna se ne stava rannicchiata in un angolo a piangere in silenzio, dopo che i suoi aguzzini l'avevano riportata nella cella in seguito alla seconda sessione di tortura. Io cercavo di non guardarla, per non metterla a disagio, mentre esploravo ancora una volta le pareti della cella fetida in cui ci avevano messi assieme. Eravamo entrambi dell'idea che il nemico lo avesse fatto per ascoltarci parlare tra noi di piani e dettagli strategici, perciò avevamo convenuto di non dirci nulla che esulasse dalla situazione presente, a parte i nostri nomi.
La stazione spaziale aliena era in apparenza molto più organica, eppure molto più avanzata della nostra tecnologia. Avevano la gravità artificiale, tanto per cominciare. Ed era ragionevole supporre che possedessero un qualche sistema di tecnologia stealth, perché da quanto mi avevano fatto camminare prima di sbattermi qui, questo posto doveva essere dannatamente grosso, e noi non lo avevamo ancora trovato. Da una vetrata lungo i corridoi mi era parso di vedere Giove, quindi, se mai ne fossi uscito, forse potevo dare una mano ai ricognitori.
– Smettila, Walden, mi fai girare la testa – mormorò Anna in tono stanco, la destra premuta contro la fronte. Il braccio sinistro pendeva inerte al suo fianco, straziato dalla prima tortura, la pelle irriconoscibile avvolta nelle bende che avevamo ricavato dalle nostre camicie. Anna si rifiutava di usare quella mano, sebbene la pelle lì fosse intatta, solo un po' rovinata sul palmo. Sosteneva che quel braccio era disgustoso, e non riusciva a riconoscerlo come il suo. Non potevo che darle ragione.
Raggiunsi la presa d'aria e tentai ancora una volta di strappare la griglia dai suoi supporti. Non c'erano viti o bulloni che la tenessero al suo posto, eppure allentare le sbarre pareva impresa impossibile. Ero certo che dall'altro lato ci fosse un tunnel largo abbastanza da consentirci la fuga, se solo fossi riuscito ad accedervi. Da quella grata proveniva un ronzio continuo, e talvolta una serie di scatti e colpi metallici, o le fredde voci degli alieni che ci avevano catturato, la loro lingua contorta e oscura.
Da quella grata, avevo udito le urla strazianti di Anna. Entrambe le volte.
La cosa strana era che non le avevano mai chiesto nulla, si divertivano a torturarla sadicamente e basta.
Anna me lo aveva raccontato. La legavano su di un lettino, esponevano la pelle del braccio, e le versavano sopra un denso liquido giallastro, simile per consistenza a quello che colava in alcuni punti della nostra cella, che però era grigio. Ce ne eravamo tenuti lontano, tanto per sicurezza.
Anna non aveva sentito niente, all'inizio. Poi, freddo. Infine era giunto il calore, un tepore gradevole in principio, che si era fatto sempre più intenso fino a darle la straziante impressione di bruciare la carne fino all'osso. Era a quel punto che Anna urlava, urlava loro di smetterla, tentava di torcersi e di strappare gli arti dalle catene invisibili che la immobilizzavano. Ma ogni suo sforzo era vano e loro non avevano alcuna pietà.
Erano lucertole, dopotutto. Rettili a sangue freddo. Un nemico che non conosceva empatia.
Dopo quel trattamento la pelle pareva gomma raggrumata, e quegli esseri la strappavano via a brandelli filamentosi dal suo braccio. Anna diceva che a quel punto, la cosa più spaventosa era che non faceva nemmeno più male. Sentiva solo un po' di resistenza, come se fosse stata incollata a quel che c'era sotto, che non era un muscolo sanguinolento, bensì una nuova pelle, anzi, squame, repellenti, lucide squame.
Mentre rabbrividivo al pensiero e mi chinavo per esaminare meglio la grata, sentii da oltre la porta la voce aliena e metallica che sciorinava ordini che non potevo comprendere. Io e Anna ci guardammo spaventati. No. Non poteva essere vero. Non così presto.
Avevamo calcolato che tra la prima e la seconda volta in cui l'avevano rapita dalla nostra cella erano passate diverse ore, l'equivalente di mezza giornata, se non avevamo perso del tutto il senso del tempo. Anna non si era ancora ripresa, non potevo permettergli di portarla via di nuovo.
– Che cosa vogliono? – bisbigliai nell'intervallo tra la voce incomprensibile e la complessa operazione di apertura della porta. Anna scosse la testa, nascosta dal braccio destro, e non rispose.
Insistetti, ma tutto quello che riuscii a cavarle di bocca, dalla sua voce scossa, fu un: – Non ci stanno torturando.
Mi sembrava impossibile che lei li difendesse. Non dopo quello che le avevano fatto.
Quando i clangori all'esterno terminarono e la porta si aprì, mi alzai in piedi e mi frapposi tra gli alieni dalle sembianze di rettili e lei.
Non avevo armi per difenderci, ma sentenziai: – Adesso basta. Non la prenderete stavolta.
Impassibile, la lucertola verde con le ali, che doveva essere il loro capo, indicò me. Gli altri due, uno rosso e uno azzurro, senza ali ma con il muso allungato, mi afferrarono per le braccia. Mi divincolai, strattonandoli, e mi voltai indietro, verso Anna.
– Scappa! – urlai. La porta era aperta e forse, mentre gli alieni erano impegnati con me, lei avrebbe avuto una possibilità.
Anna era in piedi, e la sua voce era fredda, nell'abbassare il braccio destro e rivelare la pelle contorta e raggrumata come una maschera su metà del suo volto: – Ti consiglio di non agitarti. Io l'ho fatto, e una parte dell'acido mi è schizzata sul viso.
Con entrambe le mani, Anna graffiò la fronte, e la guancia, e strappò via la pelle a brandelli, e sotto, il suo viso era ripugnante, squamoso, i tratti spigolosi e inumani come quelli dei nostri nemici. E allora compresi.
Non ci stavano torturando. Ci stavano trasformando.
Ed era giunto il mio turno.

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