giovedì 4 agosto 2022

Come fiori recisi


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Eva Bronzini da Pexels


All'inizio eravamo in tre. Vivevamo in una grande casa scura, con pesanti tende di velluto alle finestre, così il sole non ci avrebbe scottato. I pavimenti di marmo, i quadri antichi, la scalinata di mogano, i saloni, i tappeti, gli arazzi alle pareti... quello era tutto il mio mondo.
E io ero felice.
Papà era nella mia testa sempre, e io nella sua. Pensavamo le stesse cose. Volevamo le stesse cose. Non c'era nemmeno bisogno di parlare, tra noi. Eravamo uguali.
La mamma era diversa. Lei sapeva di cose buone da mangiare, ma non le avrei mai fatto del male. Quand'ero troppo piccola per uscire a caccia con mio padre, ricordo che si tagliava un dito di proposito e me lo offriva. Io leccavo il sangue dal suo polpastrello, ma non prendevo mai più di quanto lei potesse dare. Nessun altro lo avrebbe fatto per me, lo sapevo già allora.
Tutti gli altri erano solo prede, questo mi diceva papà, e per avere il gustoso liquido rosso da loro avrei dovuto tagliare io, con il coltello dalla gemma di rubino che lui mi avrebbe regalato, come promesso.
Alla mamma piacevano i fiori. Li andava a prendere fuori, di nascosto, e li metteva in un vaso nel salone; ma forse perché li aveva tagliati, forse perché non amano il buio, i fiori morivano presto. Impallidivano, appassivano, morivano. E lei ci restava male ogni volta.
Il sole non scottava la sua pelle, ma da quando viveva con noi, nella casa scura, anche mamma era diventata pallida come noi. A me non dispiaceva se ci somigliavamo un po' di più, ma una sera sentii lei e papà discutere. Mamma era appena tornata dal mercato, dove prendeva cose buone da mangiare per lei che non cacciava come me e papà. La gente del paese diceva delle cose su di noi, che eravamo strani, che eravamo pericolosi. E avevano iniziato a pensare che lo fosse anche lei.
Papà diceva che era arrivato il momento di andare via, ma lei non lo voleva.
Pioveva, la notte in cui cambiò tutto.
Mamma e io stavamo sistemando dei nuovi fiori nel vaso in salotto. Avevamo aperto le tende, perché era buio e mi piaceva vedere la pioggia battere sui vetri nel bagliore delle candele, e i lampi di luce improvvisi che non mi scottavano la pelle, né mi ferivano gli occhi. Contavo fin quando non ne udivo il fragore.
Prima che finissi di contare, però, qualcuno bussò alla porta.
Era strano, non veniva mai nessuno da noi.
Mamma mi disse di chiudermi in camera mia, ma io feci solo finta di andare, e mi fermai in cima alle scale. Non avevo mai visto un estraneo. Volevo vedere com'erano.
Mamma aveva ancora un mazzo di fiori sottobraccio, avvolto nella carta marrone. Quando gli estranei entrarono e lei cadde all'indietro, la carta si aprì, i fiori si sparpagliarono sul pavimento e le corolle si tinsero di rosso.
C'era un così buon odore lì nell'ingresso, che mi alzai e scesi qualche scalino senza nemmeno pensarci.
Uno degli estranei si accorse di me, mi indicò e gridò: – Mostro!
Sentii la rabbia di mio padre, la sua furia mentre si precipitava su di loro e squarciava le gole con il suo pugnale. Caddero a terra come tanti fiori recisi, e poi fui tra di loro anch'io, e bevvi, e mi saziai come non avevo mai fatto nella mia vita. Il sangue degli estranei, il sangue di mia madre, non c'era più alcuna differenza, era solo il liquido rosso così tanto buono da bere.
Sentii l'urgenza nella mente di mio padre, dovevamo andarcene, casa nostra non era più sicura.
Un'altra casa ci attendeva altrove, altre pesanti tende di velluto, altri pavimenti di marmo, altri quadri alle pareti; ma non saremmo più stati in tre, mai più.
O almeno, questo era ciò che credevo allora.

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