lunedì 1 agosto 2022

Sara senza morte


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Foto di Marta Dzedyshko da Pexels


In principio fu una giornata di gioia. Gaudio e lietezza risuonarono in tutte le stanze della dimora natia, e un banchetto fu preparato, e doni vennero offerti, perché era il suo sedicesimo compleanno e Sara, l'adorata figlia, sorella, nipote, non sarebbe morta quel giorno com'era stato invece predetto. Non l'attendeva una bara e una tomba, né la putrefazione di un fiore ancora in boccio colto troppo presto.
Ma non l'attendeva nemmeno la vita, non quella vita che le giovani donne sognano, a cui le loro madri le hanno preparate. Sara la vedeva per tutte le altre, quella vita: la vedeva per la cugina Aurelia e il suo futuro sposo non troppo gentile da cui aveva cercato di metterla in guardia; la vedeva per sua sorella, già maritata come l'indovina aveva predetto, alla quale rivelò in che notte avrebbe dovuto giacere con il marito per generare un figlio; e la vedeva anche per Bettina, la terzogenita dei vicini di casa che la madre desiderava mandare in convento a farsi suora, e che invece di lì a pochi mesi sarebbe scappata con un giovanotto del paese. Tutte loro si sarebbero fatte donne, e avrebbero avuto una famiglia, e alla fine sarebbero morte. Sara vedeva così chiaramente le possibilità e le scelte che le avrebbero condotte incontro al loro destino, i mutamenti che il tempo avrebbe inevitabilmente prodotto, così come vedeva che per lei non ce ne sarebbero stati.
Era senza destino, un essere al di fuori del tempo, non morta, ma nemmeno più viva.
Se ne rallegrò, in principio. Le regole a cui gli altri dovevano sottostare per lei non valevano, niente e nessuno avrebbe più potuto nuocerle. Come se avesse avuto un ritratto in soffitta a patire al suo posto, Sara si tolse tutti gli sfizi in cui non aveva mai osato indulgere. Si accorse ben presto che quei piaceri non la soddisfacevano, e d'altra parte vedeva, interrogando la sorte chiusa nei suoi occhi, come avrebbero ridotto la gente comune.
Con l'andare del tempo, tutto si riduceva a putredine e marciume. Anche la sua famiglia. Anche la sua casa natia.
Sara se ne allontanò. Scelse di farlo prima che la sua innaturale, eterna giovinezza diventasse troppo evidente. Una mattina prese la via dei boschi e non tornò più indietro. Costruì una casupola lì, nel bosco, accanto al gorgoglio del torrente che scorreva in zampillanti cascatelle. Ma non lo fece da sola.
All'epoca, tra i suoi familiari, tra gli amici di famiglia e persino tra la servitù, già c'era chi non le rivolgeva più la parola, considerandola portatrice di sventura da quando aveva rivelato una sorte avversa; altri, invece, a cui aveva parlato di bei momenti, o che avevano saputo evitare i pericoli grazie alle sue parole, la cercavano con insistenza, dipendendo da lei come da un benevolo oracolo. Uno di costoro era Teodosio, il garzone, che la seguì nel bosco.
Sara sapeva che lo avrebbe fatto. Sapeva anche che l'avrebbe aiutata a costruire quella che sarebbe stata nei secoli a venire la sua dimora. E conosceva le parole che lo avrebbero indotto a non tornare, una volta finito il lavoro.
Così, quando lui le chiese che cosa le fosse accaduto da indurla a isolarsi a quel modo, lei gli spiegò con parole che poteva comprendere: – Ero come una mela che marciva sul ramo di un albero, non destinata ad essere colta, solo a cadere quando il mio tempo sarebbe giunto, e stava per giungere, quel tempo. Ora invece sono il dipinto di una mela ritratta nell'istante della pienezza, non avvizzirò mai, ma sarò d'ora in poi solo un'immagine, mai più una cosa vera. Per questo devo andare via, e tu non dovrai nutrire speranze, né dire ad altri dove mi trovo, né tornare quando la casa sarà finita. Perché là fuori c'è qualcuno che ti aspetta, e che ti renderà molto felice, ma non sono io.
Era la sola bugia che Sara dei Sortilegi avesse mai detto, o che avrebbe mai detto finché sarebbe esistita; ma erano anche le sole parole che avrebbero potuto allontanare per sempre da lei Teodosio.

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