lunedì 9 agosto 2021

Una strada di luci nell'oscurità


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La soffitta aveva le sue regole. Ignorarle significava perdersi, o peggio.
In famiglia tutto l'intricato sistema di regole con cui approcciarsi alla soffitta, e come leggerne i segnali, ci veniva insegnato fin da bambini sotto forma di favola; quando giungevamo all'età in cui ci era permesso di salire le scale, ormai conoscevamo a memoria tutto ciò che avevamo bisogno di sapere, ed era come se quelle nozioni facessero parte di noi né più né meno del sapere come piegare un ginocchio alla volta e sollevare e poi appoggiare il piede più avanti per camminare.
Marta invece no, lei non sapeva come comportarsi. Avrei dovuto guidarla, e fare attenzione, perché ero responsabile anche per lei. Papà non mi avrebbe mai perdonato se avessi perso un estraneo nella soffitta. A dire il vero, in teoria non avrei nemmeno dovuto portarci un estraneo, ma... ormai era fatta, la porta era aperta. Sollevai il braccio alla ricerca del cordino della luce, lo tirai e la lampadina a incandescenza diffuse un bagliore caldo nel raggio di qualche metro, rivelando scatoloni e mobilia accatastati alla rinfusa, che delimitavano cinque sentieri che partivano a raggiera da uno spazio libero attorno alla porta. Marta non lo poteva sapere, ma ogni volta che la porta si apriva, la soffitta era diversa. Al di là del cerchio di luce, un buio così fitto da non lasciare intravedere nulla.
Bisbigliai a Marta di entrare e richiusi la porta dietro di lei.
– Wow. Questo posto è enorme! – esclamò Marta, guardandosi attorno e poi verso l'alto, dove l'oscurità ingoiava ogni cosa al di fuori del nostro rifugio di luce. Sapevo che intendeva: in condizioni normali, una singola lampadina sarebbe stata sufficiente per illuminare, anche se in modo scarso, i muri di mattoni e le travi del tetto.
– Lo è – risposi in tono blando, mentre scrutavo le cinque vie che potevamo imboccare. – Che io sappia, nessuno è mai arrivato a toccare una delle pareti esterne.
Marta mi rivolse un'occhiata scettica. – Mi prendi in giro?
Scossi la testa. Nessun segno di strade da non imboccare o di vie più favorevoli di altre, perciò chiesi a Marta: – Da che parte?
Lei si strinse nelle spalle, poi indicò la quarta stradina. – Di là? Insomma, non lo so, dimmelo tu! Questo posto è tuo.
Mi avviai tra le due cataste di sedie di legno e raccomandai a Marta: – Stammi vicina. Andiamo.
Al limite del cerchio di luce, sollevai la mano per accendere la lampadina successiva. – Resta dove c'è luce. Non andare al buio.
Camminammo così per qualche minuto, io davanti, ad accendere lampadine e bisbigliarle raccomandazioni, e lei dietro, che si guardava attorno con meraviglia, finché non cacciò un grido che mi fece voltare. La trovai inginocchiata, con la vecchia scatola di un puzzle tra le mani.
– Incredibile, ce l'hai anche tu! Io ce l'avevo, proprio questo, e quanto mi piaceva! Poi l'ho perso e...
Marta zittì di colpo. Voltata la scatola, in un angolo, c'era il suo nome scritto a pennarello, con lettere storte e infantili. Mi rivolse un'occhiata di fuoco. – Me lo hai rubato!
Semplice farle notare come allora nemmeno ci conoscevamo, ma lei non voleva sentire ragioni.
– Come hai potuto! Ci tenevo così tanto, non sai quanto l'ho cercato, era il mio preferito!
– Marta, non te l'ho rubato – cercai di spiegarle con tutta la pazienza di cui disponevo. Litigare nella soffitta non era una buona idea: non sapevo come avrebbe potuto reagire. – Quel puzzle è qui perché...
...perché tutte le cose perdute prima o poi finiscono nella nostra soffitta.
– ...mia madre lo ha acquistato al mercatino – mentii. Marta ci aveva già scoperti a fare acquisti al mercatino per nutrire la soffitta, anche se non le avevo spiegato il vero motivo per cui prendevamo tutta la paccottiglia più a buon mercato. Marta mi credette, o almeno smise di scrutarmi con sospetto e di accusarmi.
Mi guardai attorno, era tutto tranquillo. – Senti qualcosa? – le chiesi.
Lei aggrottò la fronte. – Strano che me lo domandi, è da quando ho trovato il mio puzzle che ci sono come... delle campane a vento, o qualcosa del genere. Un tintinnio. Pensavo di essermelo immaginato, ma se lo senti anche tu...
Io non lo sentivo. Ma quello era un segno semplice da interpretare. – Puoi tenerlo, se lo vuoi. In fondo era tuo.
– Scherzi? – Marta scrollò le spalle. – Mi piaceva quando avevo otto anni. Adesso non saprei che farmene.
Con noncuranza lo ributtò nel mucchio e proseguimmo. Superammo qualche diramazione: la soffitta era un labirinto, e se non ci fosse stata la nostra strada di lampadine accese, non saremmo state in grado di ritornare alla porta. Quando tirai l'ennesima cordicella per illuminare il nostro percorso, contemporaneamente un'altra luce si accese, isolata, nel mare di oscurità che si stendeva davanti a noi. Mi fermai, e bloccai Marta con un braccio. Una cosa del genere non era mai successa, perciò non sapevo come comportarmi.
Restammo a fissarla per qualche istante, io in silenzio e lei a farmi domande insistenti. Poi si accese una seconda luce, più vicina.
– C'è qualcun altro in soffitta? – mi chiese Marta.
Una terza luce, davanti alle altre. In effetti, era come se qualcun altro stesse costruendo una strada luminosa come la nostra, solo che partiva dal bel mezzo del nulla. E veniva verso di noi.
Non avevo regole che mi dicevano cosa fare in casi come questi. Mentre riflettevo, si accese una quarta luce, e poi una quinta, con un ritmo sempre crescente. Mi voltai. – Via di qui, presto!
La mia voce incrinata dal panico fu sufficiente a spronare Marta. Spensi l'ultima lampadina che avevo acceso e le corsi dietro, tirando ogni cordino man mano che ci passavo sotto. Mi voltai: chiunque stesse procedendo nella nostra direzione non aveva smesso di accendere una luce dopo l'altra, sempre più vicino. Concentrata nel valutare quanto vantaggio avessimo su chi, ormai era chiaro, ci stava inseguendo, mancai uno dei cordini che pendevano dalle lampade accese.
Mi bloccai e tornai indietro. La regola era chiara: mai lasciare una luce accesa.
– Amelia! – mi chiamò Marta, con disperazione, contagiata dalla mia paura. Si era fermata ad aspettarmi, e scrutava con apprensione l'altra fila di luci. – Dove vai, dobbiamo restare insieme!
Spensi la luce e la raggiunsi. Arrivammo alla porta col fiatone, e con il nostro inseguitore a solo qualche lampadina di distanza. Aprii, spinsi Marta oltre la soglia, spensi la luce e mi tirai dietro la porta nell'uscire sul pianerottolo. L'avevo chiusa da qualche istante soltanto quando avvertimmo un forte colpo che la scosse tutta, seguito da uno scricchiolio sinistro. Strinsi forte la maniglia, trattenendo la porta per sicurezza. Marta mugolò nel silenzio pesante che seguì.
Non so dire quanto attesi, ma alla fine lasciai la maniglia e con la gola secca mormorai: – Non dirlo a mio padre. Che ti ho portato qui sopra.
Lei fece un cenno d'assenso, ancora senza parole. Sapevo che entro domani avrebbe razionalizzato quell'esperienza, magari classificandola come un elaborato scherzo da parte mia, ma per il momento era ancora troppo turbata. Le indicai le scale, che scendemmo in fila indiana per tornare nella mia stanza, ma nessuna di noi riuscì più a studiare.

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