giovedì 26 agosto 2021

Innocenza perduta


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Photo by Artem Podrez from Pexels


Alice sedeva sui gradini della casa di Miraela. La trovammo così una sera, scarmigliata e con gli occhi spalancati e fissi, incurante della pioggia che le imperlava le ciocche bionde. Accarezzava le ginocchia coperte dalla gonna, come se stesse coccolando un gatto che non c'era. Era la prima volta, anzi, che la vedevamo priva della compagnia di uno dei suoi tanti felini.
– Ho mandato via il gatto – ci disse, non appena si accorse della nostra presenza. La sua voce aveva un timbro stridente, insolito, come se non fosse del tutto lì con noi. – È stato un gatto cattivo, molto cattivo. Perciò ho dovuto cacciarlo.
Sospirai e strinsi a me mio figlio, al riparo dell'ombrello di Clara. Sapevamo che ultimamente il suo angelo era più duro del solito con lei, ma Alice era sempre stata tra le più forti del nostro gruppo.
– Dimmi dove ti fa male, tesoro. Preparo una pozione curativa – si offrì Clara, in tono carezzevole.
Alice però scosse la testa e si voltò verso la porta alle sue spalle. – No. Non il mio gatto. Un altro è stato cattivo.
Ingrid fu la prima tra noi a scattare. Salì i gradini nel poco spazio accanto ad Alice, spalancò la porta ed entrò. Altre la seguirono, ma quando fu il turno di Rosaura, Alice si alzò in piedi e l'afferrò per un braccio, urlando: – No!
Sapevamo tutte quanto Rosaura e Miraela fossero vicine l'una all'altra. Più che migliori amiche, quasi inseparabili sorelle. Era comprensibile che Alice non voleva che vedesse che cosa lui le aveva fatto.
Un grido inarticolato esplose dentro la casa. Rosaura si liberò dalle mani di Alice e corse dentro.
Io, Clara e mio figlio Ethan entrammo per ultime, dietro una stralunata Alice, che vagava precedendosi senza equilibrio, come una sonnambula.
La casa di Miraela era particolare. Lei era stata la più giovane tra le donne rapite da un angelo caduto e riunite su questa sperduta collina. La più timida, la più innocente. Pur essendo una donna, il suo era ancora un animo da bambina, perciò la sua casa era arredata con la stessa meticolosa perfezione di una casa delle bambole. Carta da parati in ogni stanza, tappeti, poltroncine, abat-jour dai ricami floreali, e scaffali a vista all'interno di vetrinette retrò. In più, in ogni stanza erano sistemate bambole sedute sulle poltrone, appollaiate su uno scaffale o al riparo di cupole di vetro, con i loro vestitini vezzosi, i capelli acconciati sotto le cuffiette, le scarpine coordinate e l'espressione per sempre fissata nei volti di ceramica.
Seguimmo Alice, che entrava in cucina. Le altre erano radunate lì, attorno al tavolo, in silenzio. Rosaura piangeva inginocchiata accanto a una sedia. Mi sporsi a guardare oltre le spalle delle altre.
La tavola era preparata in modo impeccabile, sulla tovaglia stoviglie di porcellana riposavano di fronte a ogni sedia, circondate dalle posate allineate secondo la migliore tradizione del galateo di un pasto formale. Le fiamme di un candelabro a centrotavola, sopra la cera era ormai ridotta a moccoli, risplendevano su un liquido pastoso e scuro che riempiva i piatti da zuppa e alcuni dei calici da vino. Mi portai una mano alle narici, mentre con l'altra trattenevo contro di me il bambino che portavo in braccio, per impedirgli di guardare. Quell'odore metallico era inconfondibile.
Seduta a capotavola, come si conveniva a una padrona di casa, Miraela se ne stava immobile, in un vestito elegante con pizzi e merletti, scarpette lucide, e un paio di trecce che spuntavano da una cuffietta, a incorniciarle gli occhi fissi e spalancati sopra un sorriso congelato per sempre nel tempo.
Sembrava una delle sue bambole, altrettanto pallida e rigida, ma lei era una persona, lei avrebbe dovuto respirare.
L'aveva uccisa. Il suo angelo caduto l'aveva uccisa.
Vedere Miraela, quella notte, fu come togliersi un velo dagli occhi. Eravamo state come bambine, tutte noi, prima di allora. Affascinate dalla bellezza dei nostri angeli, attratte dal potere che loro avevano condiviso con noi insegnandoci le basi della magia, le parole di potere e di conoscenza, avevamo minimizzato ogni loro atto di crudeltà, ogni ferita inflitta, ogni volta in cui ci ricordavano quanto a differenza loro noi fossimo deboli, stupide, umane.
Avevamo recitato un gioco d'ombre alla luce di una candela, illudendoci che quella fosse la realtà, l'unica realtà possibile dipinta sulla parete di una prigione. Per Miraela ormai era troppo tardi, ma non lo era per il resto di noi. Era tempo di reagire.
Di riconoscere che quelli non erano angeli, ma demoni.
– Alice – chiamai, rivolta alla donna bionda. – Hai detto che lo hai cacciato. Come hai fatto?
Lei si strinse nelle braccia e mi rivolse un sorriso sghembo. – Il mio, di gatto, mi ha insegnato un rituale. Come fare per bandirlo.
Come me, evitò di pronunciare uno dei loro nomi. Chiamarli per nome significava attirare la loro attenzione. Evocarli, talvolta. Era strano che uno di loro ci avesse fornito un mezzo per mandarli via, ma Alice continuò: – Al mio gatto piace fare un gioco. Gli piace vedere se riesce a prendermi prima che io sia in grado di mandarlo via. Di solito vince lui, ma qualche volta, qualche volta io ho vinto. – Alice sorrise, quindi fece spallucce e concluse: – Però non funziona per sempre. Potete mandare via un gatto, o anche tutti, per un po'. Ma alla fine i gatti tornano sempre a casa.
Annuii. Era un inizio. – Andiamo via di qui. Andiamo a casa di Clara. – Era quella più fornita di erbe e di altri strumenti. Inoltre, era la casa maggiormente difendibile, se si fossero presentati per impedirci di completare il rito. – Alice ci dirà come fare per cacciare i gatti, e tra quello che sappiamo noialtre, vedremo se c'è un modo per renderlo permanente, magari estenderlo all'intera collina.
Ingrid mi si avvicinò furente e indicò il bambino tra le mie braccia. – Dovrai mandare via anche quello, però. È come loro, Maria. Non possiamo fidarci.
Rosaura, al suo fianco, annuiva e tirava su col naso.
Indietreggiai e lo protessi con entrambe le braccia. – No! – sbottai, scuotendo la testa. – No. Ethan è anche umano. Non diventerà come loro, non lo sarà mai.
Clara si fece avanti. – Ingrid, lasciala stare!
Sospirai, grata del suo intervento. Ma Clara continuò in tono duro, rivolgendosi a me: – Può restare, se le altre sono d'accordo. Almeno finché è un bimbo innocente e innocuo. Ma se si azzarda a fare del male a una di noi... allora dovrà andarsene, è chiaro?
Annuii. Mi sembrava ragionevole, allora.
Un semplice rituale, uno soltanto, per liberare per sempre La Tana del Diavolo dal male. Ancora non sapevamo quanto sarebbe stata lunga quella notte.

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