giovedì 25 ottobre 2018

Il portadisperazione

(racconto ispirato alla Sfida numero 8. Questa volta l'idea mi è arrivata da una conversazione con un'amica, un gioco di parole su un cofanetto portagioie/portatristezze. Ho deciso di scrivere il racconto come avevo suggerito, con la musica potente di Una notte sul Monte Calvo di Musorgskij, da sola nella mia stanza, a oscurità calata.)


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
 
 
Quando aprii la porta della cucina, non potevo crederci: la scatola era là, sul tavolo.
– No... non è vero. Non può essere... – balbettai, la voce debole quanto le mie gambe. Mi aggrappai alla maniglia mentre la disperazione calava cupa come un'ombra nel mio cuore.
Me n'ero liberata sette anni prima, nell'unico modo possibile: regalando il cofanetto e la sua maledizione a qualcun altro.
Mia madre aveva tentato per tutto il tempo della mia infanzia, inutilmente, di disfarsi del nefasto dono che avevo ricevuto per il mio battesimo. Io non mi ricordo quante volte lo ha buttato nell'immondizia, o gettato a bruciare nella stufa, solo per ritrovarlo intatto, poche ore dopo, nella mia stanza. Io non me lo ricordo, perché tutto ciò che rammento dei miei primi anni era il dolore. Non era un dolore fisico, non avevo male allo stomaco, o alle braccia, o alla testa. E nemmeno al cuore, non quello dei libri di anatomia, almeno. Ma, nel mio limitato vocabolario dell'epoca, non avevo altra parola per descrivere come mi sentivo ogni minuto di ogni ora di ogni giorno.
Male da morire. Male da voler morire.
La colpa del mio malessere era tutta di quel dannato portagioie... anzi, no: portadisperazione. Così lo aveva chiamato la sensitiva che mia madre aveva invitato in casa nostra, su consiglio di una zia mezza matta. Era stata la sensitiva a suggerire la soluzione, a dirci che non poteva essere distrutto, che era mio per tutta la vita, o finché non lo avessi regalato a qualcun altro.
E così facemmo. Impacchettato e infiocchettato, il portadisperazione si allontanò da me con uno sconosciuto incontrato per strada.
E io cominciai finalmente a vivere.
Questo fino al giorno in cui non aprii la porta e non lo trovai sul tavolo della cucina. Le gambe mi cedettero e scivolai a terra, mi rannicchiai sul pavimento freddo e mi coprii il volto con le mani. Erano passati anni, ma mi sentivo di nuovo come allora: impotente, angosciata, inutile, vuota. L'unica differenza era che avevo imparato le parole per descriverlo. Avvertii a malapena le lacrime che mi bagnavano le guance, i singhiozzi che mi scuotevano. Tra le dita, la mia vista appannata era fissa sul cassetto dei coltelli. Lunghi, seghettati coltelli.
No, le differenze erano due. La me stessa bambina non aveva avuto la forza di mettere in pratica tutte le brutte idee che le passavano per la testa. Io, al mio diciottesimo compleanno, ero grande abbastanza per sapere che lo volevo.
Non ero niente, se non dolore. E allora, avrei preferito non esistere.
Aprii il cassetto dei coltelli. Scelsi il più grande, il più affilato. Mi sedetti a tavola, di fronte al cofanetto, e appoggiai il braccio sinistro col polso rivolto in alto.
– Siamo solo tu e io, com'era una volta – bisbigliai alla scatola. – È questo che vuoi, vero? Mi lascerai in pace... mi lascerai in pace, dopo?
Sollevai il coltello. Ero pronta a farlo.
– Cristina! No! – La voce di mia madre giunse ovattata alle mie orecchie. La sentii abbracciarmi, e la sua mano che forzava il mio braccio di lato, mentre calavo la lama verso il polso.
Il coltello si piantò sul cofanetto e lo spaccò a metà.
Nel giorno del mio diciottesimo compleanno, mia madre mi aiutò a fare a pezzi il portadisperazione e a spargere al vento le sue schegge maledette. Ma io sapevo che non sarebbe servito a niente.
– Tornerà – le sussurrai. – Sono condannata. È mio, ormai, per tutta la vita. Qualunque cosa io faccia, tornerà sempre da me.
Mia madre mi guardò con l'espressione caparbia che aveva sempre avuto, ogni volta che lo gettava tra le fiamme e lo guardava bruciare, e disse quattro parole che scacciarono il vuoto da me. – E noi saremo pronte.

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