giovedì 30 settembre 2021

Alla fine dell'arcobaleno


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Živa Trajbarič da Pexels


Quando Neve mi aveva spiegato il suo piano, aveva omesso di precisare un piccolo dettaglio. Il leprecauno non era, come avevo immaginato e come pareva dalla statuina di ghiaccio che Neve aveva creato per il suo diorama, un folletto basso e grassoccio, con una lunga barba e un cappello ridicolo. Ciò che apparve nel cerchio quando lo evocammo era una donna dal fascino ultraterreno, grandi occhi da cerbiatta e lineamenti delicati, le forme sinuose avvolte in un abito corto e sfilacciato, verde smeraldo e scintillante, che lasciava scoperte le gambe e le braccia. Sul suo volto danzava un arcobaleno, che a volte passava da una guancia all'altra attraverso il naso, e altre saliva a formare un arco sulla sua fronte. Quasi mi sfuggì il quadrifoglio con cui l'avevo evocata per la sorpresa di trovarmi di fronte una figura così diversa dall'immagine classica con cui vengono ritratte queste creature. Lei se ne accorse e tese una mano con gesto fulmineo, e nel farlo l'arcobaleno scese dal suo volto e corse alle sue dita, mentre esclamava: – È mio! Ridammelo!
Non mi scomposi. Come previsto, la sua mano sbatté contro il perimetro del cerchio di sale che la intrappolava, o meglio, contro la barriera che dal sale si elevava a formare un invisibile cilindro. Il leprecauno digrignò i denti.
Neve, che fino ad allora era rimasta alle sue spalle, si mosse per affiancarmi, e dalle sue labbra dischiuse provenne una risata che somigliava in modo inquietante allo scrocchiare del ghiaccio che si spezza.
– Avrei dovuto immaginare che c'eri di mezzo tu – sibilò il leprecauno, fissando la yuki-onna. L'arcobaleno vagava sulla sua pelle senza meta, talvolta attorcigliandosi o strisciando in cerchi e spirali ipnotiche.
Neve allargò le braccia candide. – Io ho solo fornito l'idea, amica mia.
Nonostante l'avesse chiamata in quel modo, nella sua voce stridente non c'era nulla che somigliasse all'affetto.
Il leprecauno tornò a rivolgersi a me. – Dimmi, Infero.
Carezzevole e sensuale, l'intonazione con cui pronunciò quella parola era tutto l'opposto del modo sprezzante, quasi di scherno con cui mi appellava Neve. Eppure, il solo fatto che come la yuki-onna avesse capito cos'ero con una singola occhiata, mi mise in allarme.
– Che cosa ti ha promesso la fredda con cui ti accompagni? – domandò il leprecauno. Poi, dopo una breve risata tintinnante come una cascata di monete d'oro, proseguì: – Non importa. Lei non possiede un tesoro. Lei non ha niente di quello che ho io.
Come fosse stata una top model su una passerella, il leprecauno si girò, raccolse con una mano i capelli bruni e li spostò davanti alla spalla, rivelando una scollatura vertiginosa che le lasciava in vista tutta la schiena. – Segui l'arcobaleno – mi disse, la sua voce calda divertita e sensuale.
Non serviva che lo dicesse, però, perché io non riuscii a staccare gli occhi dall'arcobaleno che le percorreva il centro della schiena, accarezzandole la nuca e la curva delle spalle fino a seguire lento la discesa che portava alla vita sottile, per infilarsi infine sotto al tessuto lucente che le copriva a malapena le natiche, tanto attillato da sottolineare invece di celare le sue forme.
Fossi stato un adolescente in preda agli ormoni, quella palese provocazione avrebbe forse potuto indurmi a correre da lei, e magari con un passo incauto aprire un varco nel cerchio che la conteneva. Ma il leprecauno aveva fatto male i suoi calcoli, perché non ero più un adolescente e la parte di me che era umana, seppure apprezzasse il fascino di una bella donna, era sotto il mio pieno controllo.
– Non ho bisogno del tuo oro – le dissi. – Di nessun tipo di oro che tu possa offrirmi.
Dopo aver indugiato per un po' sulle sue forme perfette, risollevai lo sguardo verso i suoi occhi che mi sbirciavano da sopra la spalla. Ero pienamente in grado di guardare e non toccare.
Il leprecauno celò il disappunto mentre tornava a darmi la schiena, poi si girò a fronteggiarmi – Perché non sai che il mio oro è l'oro dei desideri. La fredda non te lo ha detto? – Scambiò uno sguardo con Neve, prima di proseguire. – Ovviamente no. Altrimenti, non l'avresti aiutata a fare quello che vuole lei.
– Che vuoi dire? – sbottai, perché ero stufo di avere a che fare con creature che cercavano continuamente di manipolarmi. Mi accorsi subito che in realtà ero caduto nella sua trappola.
– Voglio dire – proseguì lei, ignorando Neve che scuoteva la testa, – che i pozzi dei desideri sono solo un inutile passatempo per turisti perché i mortali usano le monete sbagliate. Ma getta una delle mie, e tutto ciò che chiedi sarà realtà. Per che cosa mi hai evocato, Infero? Protezione? Conoscenza? I nomi dei tuoi nemici?
Il leprecauno rise e sulla sua mano tesa apparve, in un bagliore arcobaleno, una moneta d'oro. – Facciamo uno scambio. Il mio quadrifoglio in cambio di tutto ciò che desideri.
Lo ammetto: ero tentato. Sembrava un modo molto più semplice di arrivare alla fine di quella storia, rispetto al complicato piano della yuki-onna.
A quel punto, fu la risata agghiacciante di Neve a riempire la stanza, mettendomi i brividi. Uno strato di brina si diffuse attorno ai suoi piedi, congelando il tappeto. – Ti fidi di un folletto, ma non di me, Infero? Guardala, eccola lì a offrirti il suo premio senza rivelarti il suo prezzo. Un desiderio ottenuto con una moneta di leprecauno ne ha sempre uno. I tuoi ricordi, o il tuo bell'aspetto, o la tua giovane età, o perché no, l'immortalità... perché tu sei immortale, vero, Infero? Se uno di coloro che ti dà la caccia non ti uccide, intendo. Senza contare che occorre sempre prestare attenzione a come si formula un desiderio, per non incorrere in spiacevoli conseguenze.
Mi sentivo un po' come un uomo conteso tra due belle donne: lusingato e confuso. Neve però aveva sia torto che ragione. Aveva torto, perché mi fidavo di più di un'astuta, ingannevole ed egoista creatura del piccolo popolo che conoscevo da qualche tempo piuttosto che di un'astuta, ingannevole ed egoista creatura del piccolo popolo che avevo appena incontrato. Sapevo che entrambe avevano motivazioni che non comprendevano il mio bene, ma quelle di Neve sembravano almeno in parte coincidere con le mie.
– Non ha tutti i torti – replicai all'offerta del leprecauno, scollando le spalle.
L'arcobaleno tornò a danzarle sul volto, che lentamente venne deformato da un ghigno crudele. Il leprecauno rovesciò la mano e lasciò cadere a terra la moneta d'oro. – Allora brucia, Infero!
La moneta divenne rossa, incandescente, e quando toccò il pavimento divampò un'esplosione silenziosa che trasmutò la mia stanza in un inferno di fuoco. In un lampo svanirono le pareti, il soffitto, il tavolino di vetro, gli armadietti di Belial con tutti i suoi talismani e ingredienti magici e la libreria di volumi arcani e ci ritrovammo, tutti e tre, in una terra desolata, di rocce brune e di fiumi di lava ribollente. Sopra si me nuvole di cenere si sfaldavano e si ricomponevano in un cielo di fiamme, e più avanti un arco spezzato, costellato da iscrizioni in una lingua che non aveva nulla di umano, s'innalzava tra due obelischi sormontati da bracieri accesi. Oltre, s'intravedeva tra le nubi fosche una torre dalle forme sgraziate, asimmetriche, incoerenti, talmente impossibili che in una dimensione dominata dalla logica non sarebbe mai potuta rimanere in piedi. Nell'aria rovente, mi si rizzarono i peli delle braccia.
Compiaciuta, il leprecauno annunciò: – Benvenuto alle porte dell'inferno, Infero! – Si beò per qualche istante della paura nei miei occhi, della mano con cui reggevo il suo quadrifoglio che si faceva sudata e scivolosa, e non per il caldo. – Non è casa tua, questa? No? Forse dovremmo chiamare qualcuno, per indicarti la strada...
La sua voce sensuale si fece crudele. Aveva vinto. Non potevo restare lì, allo scoperto. Mi concentrai sul salotto della mia casa nel bosco, protetta da incantesimi contro i miei nemici, ma non riuscii a comparire il quel luogo sicuro come avevo fatto tante volte prima di allora. Non potevo andarmene. Guardai allora Neve, immobile e imperturbabile. Possibile che non provasse a fare nulla per portarci via di lì, per nasconderci, per trovare una soluzione al casino in cui mi aveva messo?
– Non ti angustiare, Infero. Dovresti saperlo che i poteri comuni a tutti i folletti si basano sulle illusioni.
Per una volta, almeno per una volta avrei potuto benedire il modo che aveva di deridermi mentre si rendeva utile. Ma ero un infero, o almeno per metà lo ero, e le benedizioni non erano nel mio stile. In ogni caso, Neve mi aveva chiarito perché non riuscivo a comparire nel mio salotto: perché da lì non ci eravamo mai mossi.
– Adesso basta, leprecauno. I tuoi trucchi non funzionano. – Non a lungo, almeno. Ma non volevo darle la soddisfazione di ammettere che se non ci fosse stata Neve, lei avrebbe potuto fregarmi. – È tempo di parlare di affari. Io ho il tuo quadrifoglio. Se vuoi riaverlo, preparati a fare qualcosa che non ti piacerà.
Fissai un'ultima volta la torre in lontananza, prima che quell'illusione svanisse riportandomi alla realtà del salotto. Impressi bene quell'immagine nella mia mente come monito, perché era lì che la mia vita sarebbe potuta finire, se il piano di Neve fosse fallito.

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