lunedì 11 maggio 2020

Impossibile


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Photo by Ruslan Alekso from Pexels


– No – dissi, quando lo smarrimento torbido del dormiveglia si fu dissipato e io fui completamente, interamente sveglia. E dopo, ancora: – No no no no no!
La logica mi diceva che non sarebbe dovuta andare in quella maniera. Fin da quando avevo trovato il suo guanto sotto il mio cuscino, lo stesso identico guanto che gli avevo sfilato nel sogno, ero stata certa che si fosse trattato dello scherzo di una delle mie coinquiline. Sebbene lo avessero negato fino allo stremo, quella era l'unica soluzione razionale e possibile. Le due ragazze con cui condividevo l'appartamento erano le sole che avessero accesso alla mia camera, ed erano anche le sole a cui avessi raccontato della serie di sogni lucidi ricorrenti che tormentavano le mie notti. Avevo parlato loro del circo, e del ragazzo con la maschera, che di volta in volta si esibiva in un numero da trapezista, o come lanciatore di coltelli, o in una serie di trucchi da illusionista impossibili da replicare al di fuori di un sogno.
Come fossero riuscite a trovare un guanto uguale a quelli che il misterioso circense indossava nei miei sogni non lo sapevo, ma forse il guanto era già in casa e io lo avevo visto, pur senza riuscire a ricordarmene a livello consapevole. Insomma, al guanto c'era una spiegazione normale.
Al tizio che trovai allungato sul pavimento al mio risveglio, per quanto mi sforzassi, no.
Era impossibile.
Allungai il piede fuori dalle lenzuola e lo pungolai sul fianco. Il mio alluce sbatté contro una forma solida, perciò era reale, non un'allucinazione. Ritrassi il piede di scatto quando lo vidi trasalire, e senza alcun preavviso fu sveglio, coi suoi bizzarri occhi color arcobaleno spalancati a fissarmi. Si rizzò a sedere di scatto.
– Che cos'hai fatto! – sbottò, stringendo i pugni nella collera che gli arrochiva la voce, e più che una domanda era un'accusa.
Buffo che fosse lui a dirlo a me.
– No, che cos'hai fatto tu – replicai con minor forza. – Tu non dovresti essere qui.
– Su questo siamo d'accordo – s'intromise lui. Si alzò, calcò sulla testa il suo ridicolo cilindro e si guardò attorno. Nella mia camera. Arrossii quando notò la bacheca dei disegni sopra la scrivania, in cui i suoi ritratti erano il soggetto prevalente.
– Tu non dovresti esistere – precisai. – Tu sei un parto della mia immaginazione. Non sei reale.
Quando mi aveva detto che stavo per svegliarmi e lo avevo abbracciato, così come avevo tenuto stretto il guanto qualche settimana prima, era stato per avere la prova che quanto era successo in precedenza era solo frutto di uno scherzo prolungato troppo a lungo. Pensavo di svegliarmi e di non trovare nessuno al mio fianco e di riderci un po' su. E così era stato, finché non mi ero girata e avevo guardato il pavimento, trovando proprio ciò che mi ero aspettata di non trovare.
Era assurdo. Com'ero finita in una puntata di "Ai confini della realtà"? Mi sembrava di sentir partire la sigla e quella vocina fastidiosa che diceva: "C'è una quinta dimensione oltre a quelle che l'uomo già conosce; è senza limiti come l'infinito e senza tempo come l'eternità..."
La mia vita era diventata senza preavviso una puntata di quella serie, una puntata che trattava di come alcuni sogni possono condurre in luoghi che esistono davvero, e di quanto sia pericoloso abbracciare, appena prima di svegliarsi, gli sconosciuti che li abitano.
E ancora non eravamo stati aggrediti dagli assassini onirici da cui lui stava fuggendo.

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