giovedì 15 settembre 2022

Passi nella notte


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Sam Pineda da Pexels


Non mi fa più paura la notte. Una volta sì, mi spaventava tantissimo. Soprattutto perché non ci vedevo al buio. Potevano esserci fantasmi, mostri, serpenti in agguato nel buio.
Oggi vedo più di quel che dovrei. Niente mi fa più paura, beh, quasi niente. Lui, quello che indossa il Tabarro Nero, riesce ancora a spaventarmi, anche se non può più farmi del male.
Oggi, il mostro sono io.
Nessa diceva che quando sei in dubbio, quando hai un problema, la cosa più sensata da fare è camminare. Un passo dopo l'altro, un'orma dopo l'altra lasciata dietro di me sulla neve che scricchiola lieve sotto i miei piedi nudi. Nemmeno il freddo può farmi paura, perché io sono il freddo. Il sentiero porta a un cimitero, lastre di pietra con nomi e date incise, una fila dietro l'altra. Non ho mai pensato potessero essercene così tante. Cammino tra loro, nella spettrale luce lunare che fa risaltare la mia pelle d'alabastro tra il grigiore delle statue. Ho anch'io la mia da qualche parte, penso, non qui, in questo cimitero di campagna abbandonato, ma vicino alla cripta di famiglia, anche se in realtà non mi hanno mai trovato. Forse Nessa potrebbe essere qui, ma non la cerco.
Nessa era buona, troppo buona. Inoltre il mostro sotto il Tabarro Nero prende solo i bambini.
Nella nebbia si stagliano le guglie di un'antica magione. Forse lì troverò da mangiare. Ho sete, tanta sete. Affretto il passo.
Il cancello è aperto. Esito, ma questa non è la porta d'ingresso. Posso entrare nei giardini, guardare dalle finestre, non mi servono inviti per questo. Piano piano, nascosta tra le ombre, faccio il giro.
Nessuna luce arde alle finestre, ma è tardi, forse sono tutti addormentati. La dimora odora di vecchio come alcuni dei bambini più scaltri che il Tabarro Nero ha trasformato in mostri da molto più tempo di me. Sono di nuovo davanti alla porta, con cautela giro la maniglia, la spingo, si apre.
Giusto il tempo di dare un'occhiata dentro mi dico, vedere com'è fatta la casa, poi la chiudo, busso o suono la campanella, chiedo di poter entrare, nessuno dice di no a un bambino. Nessuno mi ha mai detto di no.
Un topo attraversa il corridoio e io d'istinto faccio un passo in avanti, gli occhi accesi dal desiderio della caccia. Quando però mi accorgo che sono dentro, grido e torno indietro.
Ora ho paura.
Il mostro sotto al Tabarro Nero ci aveva detto che dovevamo chiedere sempre, che cose terribili capitavano a chi entrava nelle case degli uomini senza il loro permesso. Mi passo le mani tremanti sull'abitino nero, guardo i miei piedi sporchi, sono ancora tutta intera.
E allora capisco che questa casa appartiene ai morti.
Entro e cammino tra corridoi rimbombanti d'echi. La mia preda è già svanita, ma forse posso trovarne altri della sua specie. Non è come prendere una vita umana, i peli in bocca fanno schifo, il sangue è poco ma è caldo lo stesso. Non può saziarmi, non da solo, ma attenuerà questa sete che mi fa sentire come un guscio vuoto attorno a un fazzoletto annodato e floscio, con a malapena la forza di camminare, di mettere un piede dietro l'altro.
In fondo a un corridoio, una scala scende in cantina. Più facile trovare una famiglia di topi rintanati laggiù, mi dico, e salto da un gradino all'altro con le mie gambe corte. La scala è lunga, tanto lunga, e presto le pareti in muratura lasciano il posto a un tunnel scavato nella roccia, e anche i gradini di legno si fanno di pietra. Anche l'aria diventa più fredda, dopo il tepore della casa che mi riparava dal vento d'inverno, ma il gelo non mi può far male. Io sono il freddo, io sono il gelo.
Finalmente i gradini finiscono e arrivo a un corridoio che è poco più di un cunicolo di pietra. Faccio piano, mi muovo in punta di piedi per non spaventare i topi. C'è odore di muffa, odore di morte. Ma non quel profumo metallico di sangue fresco così appetitoso. Questa è morte antica, già trascorsa, inutile.
In fondo al cunicolo di pietra, un'ampia grotta con un pozzo al centro e una schiera di scheletri sdraiati tutt'intorno. Alcuni hanno i vestiti, molti qualche brandello di carne non divorata dai topi e dal tempo.
Dal pozzo un soffio gelido sale e mi rimbomba nelle orecchie come un lugubre lamento.
Una mano mi artiglia la spalla. Ho un sussulto ma stringo forte le labbra, non grido.
Riconosco il suo odore. Ero così concentrata sul pozzo e sugli scheletri da non udire i suoi passi alle mie spalle, e un po' me ne vergogno. Un cacciatore che si fa sorprendere così facilmente è inutile
– Questo non è un posto per bambini – la sua voce melodiosa ha un che di roco, sprezzante, nel timbro gelido che gli assomiglia: bello, e terribile. Lo dice come se non avessi già visto cose e fatto cose troppo spaventose per un bambino. Ormai non sono più una bambina umana, e questo lo sappiamo entrambi.
I suoi occhi mi fissano severi da sotto il Tabarro Nero.
Senza troppe cerimonie mi spinge verso il cunicolo e io cammino davanti a lui a testa china, e arranco su per le scale. Stiamo in silenzio, lui non parla e io neppure, e altre orecchie, diverse dalle nostre, non potrebbero nemmeno cogliere i nostri passi. Camminiamo nella notte invisibili come fantasmi, spaventosi come spettri, mortali come i cavalieri dell'Apocalisse delle storie con cui mi ammonivano per farmi crescere buona e brava.
Tutte sbagliate, perché io non crescerò più, resterò una bambina cattiva per sempre.
Usciamo nella notte tra turbinii di neve che cancellano le impronte. Nell'accostare piano la porta, il mostro sotto al Tabarro Nero si attarda più del dovuto e accarezza il legno. Forse mi sbaglio, ma i suoi occhi mi sembrano tristi.
Poi mi spinge di nuovo, più forte, verso il cancello, strattonandomi un braccio.
– Non tornare più qui, e non dire agli altri di questo posto – sibila, con la furia di un serpente nella voce. – Non c'è niente che placherà la tua sete, qui. E per stanotte, per avermi costretto a venirti a cercare, non avrai nulla, nemmeno gli avanzi.
Mugolo disperata ma non protesto, cammino, cammino e basta, il più in fretta possibile, un guscio vuoto attorno a un fazzoletto annodato e floscio.

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