lunedì 28 novembre 2022

La Corsa


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Foto di Tsepin Цепа da Pexels


La Corsa era l'unico momento in cui mi sentivo vivo. Il raspare degli zoccoli sul terreno, le redini strette nel mio pugno, l'attesa spasmodica di lanciarmi per quei mille metri erano la mia droga. Non sentivo nient'altro che lo sbuffare dei cavalli e quel silenzio carico di adrenalina, non vedevo nient'altro che la pista davanti ai miei occhi, chiara come se fosse stato giorno.
E poi la campanella trillava e io rinascevo.
Il rombo di tuono degli zoccoli, i muscoli del cavallo che percepivo scattare tra le mie gambe, il fischio del vento nelle orecchie, unito alle acclamazioni della folla a bordo pista, il sudore che mi imperlava la fronte e che mi rendeva partecipe di quello sforzo mentre spronavo la mia bestia, tutto si fondeva in un eccitante caleidoscopio di sensi, e mi mozzava il fiato. Era sempre stato così per me, anche prima che l'ippica diventasse illegale, anche prima che fossimo costretti a organizzare la Corsa nel cuore della notte, in valli nascoste, isolate, rischiarati soltanto dal bagliore delle fiaccole. Tutta colpa dei Padroni. Colpa di quelle dannate creature, che al loro arrivo, dopo averci così facilmente sottomessi, avevano decretato l'immediata cessazione dello sfruttamento di qualsivoglia equino, per qualunque scopo.
In agricoltura e nei mezzi di trasporto se l'erano cavata meglio di tutti, dato che già da tempo cavalli asini e muli erano stati quasi del tutto sostituiti dalle macchine, e avevamo soltanto dovuto dire addio ai romantici calessi per turisti. Rinunciare alla carne di cavallo e al latte di asina era stato un dramma per qualcuno, ma da quanto sapevo erano sopravvissuti anche senza. Gli appassionati di equitazione amatoriale avevano dovuto mettersi il cuore in pace, e trovarsi un altro hobby come le escursioni a piedi, la bicicletta, o montare un cavalluccio a dondolo. Tra i problemi più grossi, interi corpi militari erano scomparsi da un giorno all'altro, e gli allevatori di cavalli erano rimasti disoccupati.
Il mio settore aveva subito il colpo più duro. Senza i cavalli, non avevamo nulla. Ma io ero nato fantino, vivevo per fare il fantino, e quant'è vero iddio, sarei morto fantino. Anche a costo di correre di notte, da clandestino, sfidando il volere dei nostri potenti nuovi Padroni.
Ultimo giro, e nessuno davanti. Pura esaltazione, mentre, percorrendo il rettilineo, sento una voce annunciare il nome del mio cavallo, "Torrente di fuoco", e io chino sulla criniera rossiccia sorrido, e mi permetto nell'imboccare l'ultima curva di sbirciare tra la folla in delirio, di cercare lei, il volto arrossato da una fiaccola vicina. Meline, che non aveva mai voluto venire a vedermi correre prima di questa fatidica notte. Aveva troppa paura di sfidare i Padroni, troppa paura di vedermi finire come altri, calpestati dagli zoccoli. Questa era la pena per chi era sorpreso anche solo a tormentare uno dei cavalli che ormai vivevano allo stato brado, figuriamoci catturarlo, addestrarlo, e spronarlo a correre sotto di te. Che ironico contrappasso.
Il traguardo è davanti a me quando sento il grido: – Equidi!
Le acclamazioni della folla si sciolgono d'un tratto in urla di terrore, e il fuggi fuggi in ogni direzione degli spettatori dirada all'istante il cerchio che si era formato attorno alla pista. Le torce cadute a terra si spengono sfrigolando, ma quelle poche rimaste sono sufficienti per mostrarmi le enormi sagome dei nostri Padroni sciamare in formazione nella valle. Sono lontani, ma non ci vorrà molto affinché ci siano addosso, e il rombo dei loro zoccoli già mi assorda, più forte di qualunque passaggio di cavalli al galoppo, forte quanto i tuoni in cielo.
Cerco Meline, aggirandomi tra i resti della pista e i tendoni improvvisati. Chi aveva un cavallo ha già tagliato la corda da un pezzo, approfittando di una velocità maggiore rispetto agli appiedati e ben consapevole che sarebbe stato giudicato più duramente di tutti gli altri. Chi è rimasto indietro, perché lento o caduto a terra all'inizio della fuga generale, mi circonda supplicandomi di prenderlo con sé, di portarlo in salvo. Li allontano con calci e con bruschi scatti laterali di Torrente di fuoco, guidato dalle mie mani sulle redini. Mi pare di scorgerla prostrata a terra ma quando mi avvicino, saltando un paio di corpi per non calpestarli con gli zoccoli della mia bestia, mi accorgo che non è lei, bensì un'altra donna. Quella poveretta mi guarda tremante, in stato di shock, mormorando parole di scusa. Probabilmente ha scambiato il mio cavallo per uno dei Padroni, plausibile, dato che li distinguono solo le dimensioni, l'intelletto, e la facoltà di parola.
Faccio voltare il cavallo, mi guardo attorno. I Padroni sono sempre più vicini e convergono su di me, unico fantino rimasto.
– Meline! – grido, aggirandomi come un disperato nei dintorni, tra torce spezzate e fuochi nel fango.
Spero che si sia nascosta, prego che sia scappata, anche se già vedo un lato della formazione dei Padroni in corsa che accelera e si stacca dal gruppo, all'inseguimento dei fuggitivi, il che mi dà poca speranza per quelli di noi che erano presenti alla Corsa stasera. Non dovevo portarla, che cosa avevo in mente?
Ma non ho il tempo di riflettere. Prima che i Padroni mi raggiungano, ho deciso. Faccio girare Torrente di fuoco nella direzione opposta e lo sprono. Lo spingo a correre più velocemente di quanto non abbia mai fatto, più forte, più avanti, più in fretta, fin quasi a fonderci in una cosa sola, i mei muscoli aggrappati ai suoi, il suo sudore appiccicato al mio, perché questa è la corsa della mia vita e non c'è traguardo, e anche se so che non posso vincere, perché loro sono più grossi, più resistenti, più veloci, io voglio che duri il più possibile, godermene ogni singolo istante, e perdermi, perdermi, perdermi, in questo folle caleidoscopio di vita.

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