lunedì 14 novembre 2022

La prigione organica


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Erik Mclean da Pexels


Io potevo pure provare a spiegare l'orrore di quello che avevo visto nel braccio A ai miei compagni e vicini di cella, ma non ero sicuro che loro avrebbero capito la gravità di quel che accadeva qui dentro.
– Nelle pareti in che senso? – chiedevano, già mezzo ridendo e in tono di scherno, e li vedevo che si facevano segno di toccarsi tre volte la sommità della testa, o rigirare un dito alla tempia, o strofinarsi il torso con il rovescio della mano, o qualunque altro gesto fosse l'equivalente presso la cultura del loro specifico pianeta di un silenzioso "ma questo qui è tutto matto!".
Sospirai e appoggiai la schiena alle sbarre della cella, che avevano lo stesso aspetto delle colonne vegetali che avevo visto su un minuscolo pianeta della galassia esterna, o dei denti di un Trinciaossa Hruniano. Brutta bestia, una delle peggiori che mi era capitato di incontrare, e dopo quel che avevo visto nel braccio A, non potevo non considerare che quest'ultima fosse una metafora più appropriata rispetto a un innocuo vegetale.
– Brutti deficienti figli di una meretrice Merakiana – li apostrofai, fissando i miei due compagni di cella, un Mufridiano che somigliava a una grossa lumaca con tre paia di braccia, e un Sualociniano modificato per poter sopravvivere al di fuori di un ambiente acquatico con gambe prostetiche e un polmone artificiale esterno, che i ragazzi si divertivano a bucare un giorno sì e l'altro pure per farsi due risate, prima che le guardie arrivassero a soccorrerlo e a portarlo in infermeria per farlo rattoppare. Era più spesso là in infermeria che qui in cella, e sospettavo da come il polmone gorgogliava al suo ritorno che avesse una mezza storia con l'infermiera Antociana, una bellezza sinuosa che passava più tempo a spupazzarselo con quei suoi graziosi piedini prensili di quanto non ne passasse a ricucirlo. – Pezzi purulenti di tentacoli Adhariani – aggiunsi in tono più alto, per farmi sentire anche dagli occupanti delle celle vicine nonostante il vociare che riempiva il corridoio su cui si affacciavano ben tre piani di celle, ognuna stipata al limite del possibile. Tutte quelle grida e imprecazioni a volte erano insopportabili, e di tanto in tanto avrei preferito un po' di silenzio, per non parlare dell'afrore misto del sudore di almeno cinquantadue specie diverse. – Lo volete capire o no che questo pianeta-prigione non è un pianeta-prigione? Non è come gli altri pianeti-prigione in cui mi hanno rinchiuso, quelli sono tutti uguali, fatti con lo stampo, vi dico, questo no, lo hanno solo mascherato per farlo sembrare come gli altri, ma questo posto è diverso, questo posto... questo posto è vivo.
Era quella l'impressione che avevo avuto nel braccio A, quando avevo visto un liquido vischioso gocciolare dalle pareti come saliva in una enorme bocca, una bocca famelica, e le barre delle celle aperte non come si apre una porta, piuttosto come denti appuntiti che sporgessero sopra e sotto dalle fauci spalancate di una belva, e le lievi sporgenze che affioravano dai muri e dai pavimenti che mi avevano colpito con la loro vaga rassomiglianza a braccia e teste e altre appendici, ma consumate e sbiadite, come se fossero appartenute a statue di fango o d'argilla sciolte da una fitta pioggia. E ovunque un puzzo di morte e putrefazione, un alito denso e nauseabondo, reso ancora più raccapricciante dal fatto che non era stata versata una sola goccia di sangue.
La mia finta fuga era stata interrotta troppo presto dalle guardie che mi avevano raggiunto e bloccato, e non ero stato in grado di recuperare dal braccio A nessuna prova di quel che avevo visto. Così, a mani vuote, era difficile convincere quelle teste bacate a organizzare una rivolta prima che la stessa cosa capitasse anche da noi, senza rivelare loro che io in realtà non ero uno spietato assassino seriale, bensì un investigatore privato mandato qui a indagare sulla capienza apparentemente infinita di questo particolare pianeta-prigione. Questioni di spionaggio da parte della concorrenza, il direttore di un altro pianeta-prigione voleva replicare il segreto di questo posto, ma dopo aver visto il braccio A dubitavo che fosse replicabile, o tantomeno legale farlo. Ad ogni modo, non ero disposto a rinunciare alla mia copertura, non ancora, perciò non aggiunsi altro, e di lì a pochi frais le guardie passarono urlando le solite frasi di rito nelle quattro lingue più diffuse tra gli abitanti involontari del pianeta-prigione, che comunque avremmo capito anche se le avessero pronunciate in Arturiano stretto.
"Coprifuoco, tutti nelle brande, luci spente!"
Il mormorio si smorzò a poco a poco, e io mi ritirai nella mia cuccetta, e l'oscurità calò all'improvviso, come sempre, lasciandomi il respiro gorgogliante del Sualociniano e altri mille gemiti, sibili e sbuffi ritmati come sottofondo mentre riflettevo sul da farsi.

La mattina dopo capii che era già troppo tardi per fomentare una rivolta. Le sbarre della nostra e delle altre celle erano aperte nello stesso modo in cui erano aperte le sbarre nel braccio A, e molti dei detenuti avevano già approfittato dell'inattesa libertà ingombrando il corridoio e le balaustre, scatenando risse e devastando tutta la mobilia che capitava loro sottomano. Mi precipitai alla porta di accesso al nostro braccio e nonostante avessi già visto i ganci ricurvi del sigillo che sporgevano come dita robotiche dalla sottile fessura tra le ante, provai ugualmente con tutta la mia forza a spingere e poi a tirare la porta.
– Nah, non funziona, ci ho già provato io – mi disse con aria annoiata un Terriano appoggiato con la schiena alla parete.
Lo immaginavo. Il sigillo pareva dello stesso tipo che avevo trovato alla porta del braccio A, e dunque, poteva essere aperto senza difficoltà solo dall'esterno. Le guardie ci avevano chiuso dentro, e si erano assicurate che non fuggissimo.
Il Terriano fu il primo. Cercò con un colpo di reni di darsi la spinta per avvicinarsi a me, ma i suoi occhi si sgranarono di sorpresa quando scoprì di non potersi staccare. Imprecò e appoggiò le mani indietro per fare forza contro il muro, ma invece di migliorare la situazione, le mani rimasero incollate come la schiena.
– Aiutatemi, non statevene lì impalati! – sbottò il Terriano contro di me e altri due detenuti che si erano messi a ridere della sia disavventura. Le sue mani sprofondarono nella parete, e più si agitava, più vi affondava dentro, come se all'improvviso il muro si fosse mutato in una pozza di sabbie mobili verticali.
Altre grida si levarono da più parti, confermandomi che altri malcapitati erano finiti intrappolati nel pavimento o nelle pareti. Non stava andando meglio a quelli che avevano compreso che il mio racconto si stava realizzando e per tentare di salvarsi si erano rifugiati nelle loro cuccette: come enormi lingue, i materassi si erano sollevati, schiacciandoli contro la cuccetta di sopra o contro la parete che inesorabilmente li stava inglobando. Dalle pareti prese a colare il liquido denso che avevo già notato altrove, e scivolando sui corpi intrappolati li digeriva lentamente.
Era come trovarsi intrappolati in una enorme pianta carnivora, o nello stomaco di una immensa bestia. Forse era proprio questo il pianeta: una bestia dagli innumerevoli stomaci, che digerivano quel che vi finiva dentro a turno, uno dopo l'altro. Una volta terminato nello "stomaco" del braccio A toccava al nostro, e le guardie, che conoscevano bene i ritmi della creatura, ne stavano approfittando per liberare spazio.
Nei giorni successivi, nel corridoio e tra le pareti delle celle, fu tutto un susseguirsi di urla e di gemiti disperati, che si spensero a poco a poco. Solo io non venni toccato, forse a causa della composizione metallica della mia epidermide la creatura mi aveva scambiato per un androide indigesto. Io e il Sualociniano dalle gambe prostetiche, almeno finché riuscì a restare in piedi senza dormire.
Quando non ne è più stato in grado, e si è svegliato con un braccio e la schiena intrappolati nel pavimento, ha urlato a squarciagola per svariati frais con la sua vocetta stridula prima di risolversi a usare l'altro braccio per strapparsi i punti dell'ultima volta che l'infermiera Antociana gli aveva ricucito il polmone artificiale, e darsi così una morte più rapida rispetto all'agonia della lenta digestione della creatura.
Da allora sono rimasto solo. Sto consumando con parsimonia il cibo che avevo trafugato dalla mensa e nascosto, prevedendo di poterlo usare per assicurarmi l'aiuto dei detenuti più ostici da convincere con le sole parole. La mia specie può anche rimanere a digiuno per un periodo di tempo prolungato, al prezzo della perdita di una parte della massa muscolare. Dopo un po', all'eco rombante di questi spazi vuoti, all'odore di morte che appesta l'aria, ai raccapriccianti resti dei miei compagni che sporgono ogni giorno un po' di meno dalle pareti e dal pavimento mi ci sono un po' abituato, ma non so per quanto ancora dovrò resistere. Non so quando le guardie si decideranno a riaprire quella porta.
Quello che so è che quando lo faranno, per la prima volta da quando hanno messo in piedi questo conveniente sistema, si ritroveranno a fare i conti con una gran brutta sorpresa, e con uno stramaledetto problema.

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